Commento a caldo di Giovanni Cantoni sul voto del 9 e 10 aprile 2006
a cura Emanuele Gagliardi
Il 10 aprile, poche ore dopo la pubblicazione dei risultati ufficiali, abbiamo raccolto un commento a caldo di Giovanni Cantoni, fondatore e reggente nazionale dell’associazione di apostolato culturale Alleanza Cattolica e direttore della rivista bimestrale Cristianità, organo ufficiale di tale associazione.
Come interpreta questo inaspettato risultato di stringente parità?
Quando ho dato la mia disponibilità a fare qualche commento ai risultati della tornata elettorale non immaginavo di fronte a quale difficoltà mi sarei trovato. Diversamente, forse, avrei tergiversato o sarei stato più prudente. Poiché il risultato è a più titoli inconsueto, un formale pareggio, sia come conseguenza della nuova legge elettorale che combina proporzionale e maggioritario, sia come espressione della situazione del corpo sociale, penso che il miglior commento possa consistere in un tentativo di ricostruzione dell’itinerario di cui l’episodio elettorale costituisce il passaggio più recente.
L’esito di queste elezioni è anche conseguenza di un processo storico insito alla società italiana?
Credo che il punto di partenza debba essere il famoso 18 aprile 1948, l’autentica data fondativa dello Stato italiano com’è grosso modo ancora oggi, almeno nelle sue grandi linee e nelle intenzioni. Il corpo sociale uscito dalla II guerra mondiale, con un’appendice civile, si trova di fronte all’ipotesi di cadere sotto un regime socialcomunista. Sa della Conferenza di Jalta, tenuta in URSS nel 1945, ma non sa degli accordi e della divisione del mondo fra le potenze alleate. Quindi non aspetta che altri lo salvino, anche se sospetta che altri lo abbia salvato alla fine della guerra, e non fa proprio il mito della Resistenza.
Pensa «Aiutati che Dio t’aiuta» e, nonostante la debilitazione, trova la forza di rispondere, in un lasso di tempo straordinariamente esiguo — pochi mesi —, all’appello dei Comitati Civici e del loro animatore, il professor Luigi Gedda, uno scienziato cattolico. Com’era accaduto negli anni seguenti la Rivoluzione del 1789, quando Napoleone aveva tentato di esportarne i princìpi in Italia, il popolo italiano insorge. Il 1948 è una sorta d’«insorgenza» non cruenta.
Il rischio del regime rosso è scongiurato, anche se i vincitori della battaglia elettorale non sono gli organizzatori della pace. Infatti, conformemente alla natura d’insorgenza dell’azione attuata, cioè all’essere frutto di una mentalità, di una costellazione di valori e di giudizi depositati nel corso del tempo nel corpo sociale, gli animatori di tale azione vengono fatti cadere nell’oblio, «silenziati» e derubati della vittoria. In termini marxisti, si può dire che l’insorgenza viene «ricuperata» dalla cupola democristiana. Comincia così il lungo itinerario che porterà dal 1948 al 1960, all’apertura a sinistra poi, nel 1992, a Tangentopoli.
Esiste un’analogia tra l’«insorgenza» del 1948 ed episodi della storia più recente?
Un’apparente digressione può aiutare a comprendere la situazione. Con l’espressione I° Potere politico s’intende il Potere Legislativo; con II° Potere politico l’Esecutivo; con III° Potere politico il Potere Giudiziario; con IV° Potere (I° Potere sociale) il Potere Massmediatico e Culturale, in tutta la gamma che va dalla gestione degli asili nido ai centri di ricerca universitari, a quella della stampa, della radio, della televisione e del cinema; con V° Potere (II° Potere sociale) il Potere della Chiesa come soggetto sociale; con VI° Potere (III° Potere sociale) il Potere Economico lato sensu e finalmente, con VII° potere (IV° potere sociale) il Potere Sindacale.
Ebbene, dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1989, la Repubblica Italiana vede un’egemonia socialcomunista pressoché totale sul mondo del IV° Potere attraverso gli operatori del settore; una presenza consistente in quelli del I°, del III° e del VII° Potere; una pressione determinante in quello del II° Potere, mentre non sono assolutamente irrilevanti le infiltrazioni nel V° e nel VI°.
Stando così le cose quando, nel 1994, sta per prodursi l’esito paradossale dell’operazione di lungo periodo intesa alla conquista della titolarità del governo, cioè quando un partito socialcomunista sta per andare al governo in una Stato occidentale dopo la caduta del Muro di Berlino, si produce una nuova insorgenza, non più guidata da un professor Gedda o da un suo simile, ma, attraverso Forza Italia e la Casa delle Libertà, dal cavalier Silvio Berlusconi, un imprenditore, un esponente della società com’è diventata dopo decenni di debilitazione morale e culturale. Le vicende seguenti sono cronaca, anche se la memoria è sempre più corta.
Anche il voto del 9 aprile 2006 rappresenta una «insorgenza»?
Il risultato del 9 aprile 2006, è in un certo senso un nuovo 18 aprile 1948. Abbiamo visto schierate in campo, contro il governo degli uomini del buon senso, tutte le lobbies culturali, massmediatiche ed economiche, intenzionate stavolta a realizzare non un regime socialcomunista — dal 1948 è passata molta acqua sotto i ponti — bensì una rivoluzione culturale, quella che uno dei miei maestri, il pensatore e uomo d’azione brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira, chiama IV Rivoluzione, e della quale è modello l’operato di Zapatero nel Regno di Spagna.
Mentre la propaganda procede alla demonizzazione a tutto campo del leader dell’insorgenza del 1994, presentando la situazione oggettivamente difficile — e non poco complicata dall’aggressione patita dall’Occidente l’11 settembre 2001 — come lo scontro fra «i ricchi» e «i poveri», il cavalier Berlusconi si «distrae» dal proficuo impegno di governo e ne indica la natura nello scontro fra la società e lo «Stato moderno», fra il corpo sociale in via di rianimazione — inevitabilmente lenta e difficile come ogni convalescenza — e l’invadenza sclerotizzante statuale e burocratica. Quindi fra «ricchi gestori del potere» e «poveri titolari del governo».
I moniti della Chiesa sui valori irrinunciabili della vita e della famiglia possono aver inciso sulla scelta elettorale?
La gerarchia ecclesiastica segnala puntualmente ai cattolici, e a tutti coloro che vogliano prestarle ascolto, le priorità cui guardare per formare il proprio giudizio: la vita, la famiglia e l’educazione. Nella prospettiva d’impedire che le lobbies demoralizzanti possano acquisire lo status di enti statali.
Ritiene possibili derive «zapateriste» nel nostro Paese?
Se mi permette un’autocitazione ricordo che, negli anni 1970 e 1980, ho qualificato la resistenza del corpo sociale italiano all’aggressione socialcomunista come «lezione italiana». Ebbene, il recente esito elettorale — un esito straordinario — dice almeno che tale «lezione», per quanto spossata, non è esaurita. Certo, non è in grado di contrastare vittoriosamente l’aggressione della rivoluzione culturale. Ma il governo dell’Unione, un partito radicale di massa, esiguamente vincente non è tale, o almeno tale non sembra, da potersi permettere un esercizio «imprudente» del potere che per altre vie possiede.
Quale linee di azione suggerisce il voto del 9 e 10 aprile per quanti hanno dimostrato di voler continuare a difendere i valori fondanti della nostra società?
Se è lecito trarre conclusioni dalle osservazioni proposte, credo possano essere le seguenti. Se la «lezione italiana» è in via di esaurimento, s’impone una riproposizione delle condizioni di cui gli esiti politici sono semplici ricadute; s’impone un’azione pre-politica, che non esclude quella politica, ma costituisce la premessa del suo rinnovamento e della sua qualità. Il corpo sociale è vissuto a lungo — tanto insperatamente quanto inconsapevolmente — di eredità, di «tradizione».
Ma la «tradizione» è «progresso trasmesso», è «trasmissione del progresso». Progredire vuol dire passare dall’ignoranza alla conoscenza, per poi servirsi in modo morale di tale conoscenza. Come ricorda il cardinale Ruini, presidente della CEI, citando Tertulliano, «cristiani si diventa, non si nasce».
Allo stesso modo, la civiltà necessita di essere trasmessa: «uomini civili si diventa, non si nasce». Quindi s’impone un’opera di apostolato culturale che non mira alla politica di partito, ma senza la cui esistenza la politica di partito si esaurisce, perde le proprie motivazioni più profonde. Il quadro che offre il corpo sociale italiano attraverso l’esito elettorale è quello di una realtà in bilico, che abbisogna di venire riequilibrata.
Si tratta di un’immagine che può descrivere correttamente il da farsi, prima che lo squilibrio porti a precipitare in una situazione che non qualifico come definitiva — la storia continua e nessuno sa quando finisce —, ma certamente come ancora più difficile di quella che abbiamo di fronte.