di Giovanni Cantoni
Il 9 e il 10 aprile 2006, dopo una legislatura portata a termine secondo il ritmo previsto dalla Costituzione della Repubblica Italiana nata nel 1948, si è svolta la rituale tornata elettorale politica. Il risultato è a più titoli inconsueto, dal momento che si tratta di un sostanziale pareggio, sia come conseguenza della nuova legge elettorale che tentava di combinare sistema proporzionale e sistema maggioritario, sia come espressione della situazione del corpo sociale.
Perciò penso che il miglior commento a tale risultato possa consistere in un tentativo di ricostruzione dell’itinerario, del quale l’episodio elettorale costituisce semplicemente il passaggio più recente.
2. La I Legislatura nata dalle elezioni del 18 aprile 1948
Credo che il punto di partenza possa — e debba — essere il 18 aprile 1948 — non il 2 giugno 1946, data del referendum istituzionale che trasformò lo Stato da Regno in Repubblica —, autentica data fondativi dello Stato italiano com’è grosso modo ancora oggi, almeno nelle sue grandi linee e nelle intenzioni, se non proprio nei fatti.
Allora il corpo sociale, uscito da una guerra — la seconda guerra mondiale (1939-1945), con una fase anche civile (1943-1945) —, si trova di fronte al pericolo di cadere sotto un regime socialcomunista. La gente sa della Conferenza di Jalta, tenuta nell’URSS nel 1945, ma non sa degli Accordi di Jalta e della divisione del mondo fra le potenze cosiddette alleate.
Quindi non aspetta che altri lo salvino, anche se sospetta che altri lo abbiano salvato alla fine della seconda guerra mondiale e non fa proprio il mito della Resistenza. Pensa «Aiutati che Dio t’aiuta» e, nonostante lo stato di debilitazione, trova la forza di rispondere, in un lasso di tempo straordinariamente esiguo — pochi mesi —, all’appello dei Comitati Civici e del loro animatore, il professor Luigi Gedda (1902-2000), uno scienziato cattolico impegnato nel mondo dell’associazionismo (1).
Com’era accaduto negli anni seguenti la Rivoluzione del 1789 — la Rivoluzione detta Francese —, quando il generale Napoleone Bonaparte (1769-1821) aveva tentato di esportarne i princìpi in Italia manu militari, il popolo italiano insorge (2). Nel 1948 si produce, dunque, una sorta d’«insorgenza» sui generis, non cruenta.
Il rischio del regime rosso, di un’Italia Rossa, è scongiurato, anche se i vincitori della battaglia elettorale non sono gli organizzatori della pace. Infatti, conformemente alla natura d’insorgenza dell’azione che hanno intrapreso e portato a termine, cioè all’essere frutto di una mentalità (3), di una costellazione di valori e di giudizi depositati nel corso del tempo nel corpo sociale, gli animatori di tale azione vengono fatti cadere nell’oblio, vengono «silenziati» e derubati della vittoria. In termini marxisti, si può dire che l’insorgenza viene «ricuperata» dalla «cupola» democristiana.
Comincia così il lungo itinerario che porterà dal 1948 al 1960, all’apertura a sinistra, poi, nel 1992, a Tangentopoli.
3. Il ventaglio dei Poteri dopo il 1989
S’impone, a questo punto, un’apparente digressione, che aiuta — può aiutare — a comprendere la situazione. Con l’espressione I Potere politico s’intende il Potere Legislativo; con II Potere politico il Potere Esecutivo; con III Potere politico il Potere Giudiziario; con IV Potere — I Potere sociale — il Potere Massmediatico e Culturale, in tutta la gamma che va dalla gestione degli asili nido ai centri di ricerca universitari, da un lato, fino a quella della stampa, della radio, della televisione e del cinema dall’altro; con V Potere — II Potere sociale — il Potere della Chiesa come soggetto sociale; con VI Potere — III Potere sociale — il Potere Economico lato sensu considerato, comprendendo sotto un’unica voce il settore economico detto primario — dal fondo coltivato direttamente dal proprietario a quello che necessita di mano d’opera salariata, quindi al cosiddetto latifondo —, quello secondario — dalla bottega artigiana alla grande industria manifatturiera — e quello terziario — dal venditore ambulante alla grande rete distributiva, dal libero professionista alla banca, che «commercia» in denaro —, in cui si situa anche il terziario avanzato, inteso piuttosto come alta finanza — da qualche anno, nel gergo della politica italiana, «potere forte» — che come servizio informatico; finalmente, con VII Potere — IV Potere sociale — s’indica il Potere Sindacale.
Ebbene, dopo la caduta del Muro di Berlino il 9 dicembre 1989, la Repubblica Italiana vede un’egemonia socialcomunista pressoché totale sul mondo del IV Potere attraverso gli operatori del settore; una presenza consistente in quelli del I, del III e del VII Potere; una pressione determinante in quello del II Potere, mentre sono tutt’altro che irrilevanti le infiltrazioni nel V e nel VI.
Stando così le cose quando, nel 1994, sta per prodursi l’esito paradossale dell’operazione di lungo periodo intesa alla conquista della titolarità del governo, il passaggio dal potere al governo, cioè quando un partito socialcomunista sta per andare al governo in uno Stato occidentale dopo la caduta del Muro di Berlino, si produce una nuova insorgenza, non più guidata da un «professor Gedda» o da un suo simile, ma, attraverso Forza Italia e il Polo per le Libertà costruito intorno a essa, dal cavalier Silvio Berlusconi, un imprenditore lombardo, un esponente della società com’è diventata dopo decenni di debilitazione morale e culturale.
E le vicende seguenti non sono che cronaca, anche se la memoria sempre più corta tende a trasformarla troppo rapidamente in storia, quindi tragicamente affidata alla ricostruzione degli esperti, degli specialisti, alla quale fanno eco i mass media.
4. Verso la XV Legislatura: la tornata elettorale politica del 9 e del 10 aprile 2006
Siamo dunque giunti al 9 aprile 2006, in un certo senso un nuovo 18 aprile 1948. Che ha visto schierate in campo, contro il governo degli uomini del «senso comune», del «buon senso», tutte le lobby culturali, massmediatiche ed economiche, intenzionate questa volta a realizzare non un regime socialcomunista — dal 1948 è passata molta acqua sotto i ponti, soprattutto è caduto il Muro di Berlino — bensì una rivoluzione culturale, la Rivoluzione Culturale che uno dei miei maestri, il pensatore e uomo d’azione brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), chiama IV Rivoluzione (4), e della quale è modello e modulo l’operato di José Luis Rodríguez Zapatero nel Regno di Spagna.
Mentre la propaganda procede alla demonizzazione a tutto campo del leader dell’insorgenza del 1994 colpevole soprattutto di non lasciarsi «silenziare», presentando la situazione oggettivamente difficile — e non poco complicata dall’aggressione patita dall’Occidente l’11 settembre 2001 e dalla dipendenza energetica dal mondo islamico travagliato da una sanguinosa guerra civile (5) — come lo scontro fra «i ricchi» e «i poveri», il cavalier Berlusconi si «distrae» dal proficuo impegno di governo e ne indica un tratto rilevante nello scontro fra la società e lo «Stato moderno», fra il corpo sociale in via di lenta rianimazione — inevitabilmente lenta e difficile come ogni convalescenza e ogni pratica di riabilitazione — e l’invadenza sclerotizzante statuale e burocratica. Quindi fra «ricchi gestori del potere» e «poveri titolari del Governo».
Contestualmente la gerarchia ecclesiastica segnala puntualmente ai cattolici, e a tutti coloro che vogliano prestarle ascolto, le priorità cui guardare per formare il proprio giudizio: la difesa della vita dal concepimento alla morte naturale, la famiglia fondata sul matrimonio e l’educazione dei figli, di cui i genitori sono titolari primi. Nella prospettiva d’impedire che le lobby de-moralizzanti acquisiscano lo status di enti statali, cioè diventino authority.
5. Una «lezione italiana» in crescente difficoltà
Negli anni 1970 e 1980 ho qualificato la resistenza del corpo sociale italiano all’aggressione socialcomunista come «lezione italiana» (6). Ebbene, l’esito elettorale del 9 e 10 aprile — un esito straordinario — dice almeno che tale «lezione», per quanto spossata, non è esaurita. Per certo, stando così le cose, il corpo sociale è sempre meno in grado di contrastare vittoriosamente l’aggressione della Rivoluzione Culturale: si rivela, però, ancora capace di contenerla. Da parte sua il governo dell’Unione, di fatto un «partito radicale di massa» (7), esiguamente vincente non è tale, o almeno tale non sembra, da potersi permettere un esercizio «imprudente» del governo, traducendo in strutture istituzionali i fini perseguiti da altri poteri.
6. Di fronte alla Rivoluzione Culturale
Se è lecito trarre qualche conclusione dalle osservazioni proposte, conclusioni delle quali si possa immaginare una qualche durevolezza, credo possano essere le seguenti.
Se la «lezione italiana» è in via di esaurimento, s’impone una riproposizione delle condizioni delle quali gli esiti politici sono semplici ricadute; s’impone cioè un’azione pre-politica, che non esclude assolutamente quella politica, ma costituisce la premessa del suo rinnovamento e della sua qualità. Il corpo sociale è vissuto a lungo e oltre ogni immaginazione — tanto insperatamente quanto in modo scarsamente consapevole — di eredità, di «tradizione».
Ma la «tradizione» è «progresso trasmesso», è «trasmissione del progresso». Progredire vuol dire passare dall’ignoranza alla conoscenza, per poi servirsi in modo morale di tale conoscenza.
Come ricorda il cardinale Camillo Ruini, presidente della Conferenza Episcopale Italiana, citando Tertulliano (155-220 ca.), «cristiani si diventa, non si nasce» (8). Allo stesso modo, la civiltà necessita di essere trasmessa: «uomini civili si diventa, non si nasce». Quindi s’impone un’intensa e tematica opera di apostolato culturale che non mira alla politica di partito, ma senza la cui esistenza la politica di partito si esaurisce, perde le proprie motivazioni più radicate e più profonde.
Il quadro che offre il corpo sociale italiano attraverso l’esito elettorale è quello di una realtà in bilico, che abbisogna di venire anzitutto riequilibrata perché non abbia a precipitare. Si tratta di un’immagine che può descrivere correttamente il da farsi, prima che lo squilibrio si concluda negativamente e porti appunto a sprofondare in una situazione che non qualifico come definitiva — la storia continua e nessuno sa quando finisce —, ma certamente come ancora più difficile di quella che abbiamo di fronte.
7. Un orizzonte tecnocratico
Se quella descritta è la condizione psico-sociale e culturale della società, lo scenario politico si riapre su un orizzonte già dispiegatosi dopo la tornata elettorale politica del 21 aprile 1996. Il corpo sociale, non rappresentato politicamente in modo adeguato, perciò non «coperto», è esposto al rischio di una prevaricazione anche formale da parte del mondo economico in genere — soprattutto nella sua espressione macroindustriale e finanziaria —, che chiede e suggerisce tecnici.
L’orizzonte tecnocratico (9) — che aveva già fatto capolino in precedenza, dopo il 1989 — si dispiega come nel 1996 (10), cioè come tutte le volte nelle quali una politica debole, un governo debole — e strutturalmente indebolito dalla sua smisurata protesi burocratica, che con esso costituisce l’insieme noto come «Stato moderno» — non è in condizioni di svolgere la propria funzione con indipendenza non solo rispetto ad altri, ma alla politica stessa a causa del proprio respiro corto e dell’esiguità dei propri spazi di manovra.
8. Società e politica ed economia fra prevaricazione, realtà, morale e verità
Infine, vi è un’ultima prospettiva che merita di essere evocata: quella relativa al rapporto fra la politica, l’economia e la morale. Perché vi è anche quest’ultimo terzo attore che, con gli altri due, opera sul corpo sociale, sulla società, in tesi per la società.
La tentazione della politica è quella di dominare e di organizzare l’economia — quando ne fa dottrina parziale, cioè ideologia, è socialcomunismo — e, attraverso l’economia, la società; la tentazione dell’economia è quella di operare sulla società, asservendo la politica oppure eliminandola, cioè riducendola a pura amministrazione.
Dall’alternativa si esce solo grazie al riconoscimento della morale, cioè del comportamento secondo realtà e, quindi, secondo verità. Infatti, le tensioni dialettiche fra le diverse componenti del reale sociale possono venire ridotte, così permettendo a ognuna di esse di esistere e, quindi, di svolgere la propria funzione al servizio dell’insieme, solo grazie alla ricomposizione di un quadro gerarchico.
Il che non comporta l’asservimento o l’eliminazione di nessuna di tali componenti, tantomeno della società — che è la ragione per il cui servizio tale gerarchia nasce —, ma la loro autonomia, esercitata attraverso un’organizzazione rispettosa del significato, del senso proprio di ciascuna di esse. Ma quando la politica, quando i politici riconosceranno la morale — che, ripeto, è comportamento secondo realtà, cioè derivato e, dunque, rispettoso delle cose come sono —, così riducendo lo spazio d’insubordinazione e di prevaricazione dell’economia?
Quando l’economia, gli operatori economici, riconosceranno non solo la morale, ma pure il primato del bene comune, cioè della società, perseguito e incoativamente realizzato attraverso la politica? Fino ad allora la società sarà percorsa da più o meno intensi accessi febbrili populistici, esiti prevedibili della difficoltà a essere riconosciuta e, talora, a riconoscere sé stessa come popolo e non come massa (11), come somma d’individui, nonché dall’inadeguatezza dei servizi che riceve nella prospettiva di una vita in comune appunto adeguata, cioè tale da soddisfare incoativamente anzitutto la realtà, tutte le sue esigenze, pur nella altrettanto realistica certezza di un’inevitabile imperfezione, quindi di una necessaria, costante riforma.
Note
* Testo ampiamente anticipato, come intervista a cura di Emanuele Gagliardi e con il titolo L’Italia in bilico, in Radici Cristiane. Mensile di informazione e cultura, anno II, n. 14, Roma maggio 2006, pp. 14-16.