di Massimo Introvigne
Anzitutto, coloro che chiedono che almeno una fra le due più alte cariche dello Stato in India – che ha un presidente della Repubblica musulmano – sia affidata a un indù non avranno soddisfazione. Il primo ministro indicato da Sonia, Manmohan Singh, non è neppure lui indù: fa parte della comunità sikh, e appena indicato per la carica si è affrettato a incontrare i dirigenti della sua religione.
In realtà la religione è solo una parte dell’equazione il cui risultato ha portato alla rinuncia di Sonia Gandhi. Una buona parte dell’India non si fida dei suoi programmi economici, né della sua sfida laicista alla religione in genere. Non è improbabile che molti, certissimi del successo del Bjp dato per scontato nei sondaggi, abbiano votato per i partiti minori alleati della Gandhi più per dare un segnale di insoddisfazione al governo uscente che per vederli davvero al governo.
Sonia avrebbe potuto governare solo mettendo insieme ben diciannove partiti e partitini, alcuni dei quali disponibili solo a un appoggio esterno. Piuttosto che bruciarsi, ha preferito collocarsi in una riserva della repubblica, come futura salvatrice della patria cui fare appello – tra qualche giorno o qualche mese – se altri dovessero fallire, e soprattutto preparare la strada alla continuazione della dinastia per i figli Rahul (34 anni) e Priyanka (33), entrambi di religione indù e assai più popolari di lei nel paese.
Inoltre, non a caso è il Partito comunista indiano a gridare più forte contro il complotto ai danni di Sonia Gandhi. La vedova di Rajiv si era spesa più di altri per una coalizione con i comunisti all’insegna della laicità e della lotta dura contro il Bjp. Questo progetto politico è stato aggredito dalla realtà solo ventiquattro ore dopo le elezioni. La maggioranza degli indiani può anche volere un’alternanza che preveda il ritorno al potere del Partito del Congresso dei Gandhi: ma non vuole i comunisti, il cui anti-americanismo creerebbe gravi problemi internazionali e il cui vetero-socialismo manderebbe a picco l’economia.
Di qui, mentre la borsa di Bombay continuava la sua caduta libera, i primi segnali di rinuncia mandati da Sonia. La borsa ha reagito positivamente: Manmohan Singh è quanto di più liberista si trova fra le fila del Partito del Congresso, è gradito agli Stati Uniti e alla grande industria, e promette una politica economica non troppo dissimile da quella del Bjp.
Quanto alla religione, i nazionalisti indù hanno imparato da tempo a fidarsi più di uomini politici sikh e musulmani che dei laicisti nominalmente indù del Partito del Congresso. Dopo tutto, quando il Bjp fece eleggere il musulmano A.P.J. Abdul Kalam presidente della Repubblica, l’allora primo ministro Vajpayee fece notare, non solo a titolo di battuta di spirito, che dopo tutto attivisti indù e musulmani avevano qualche cosa in comune.
Erano stati insieme in galera al tempo delle leggi speciali a suo tempo emanate per proteggere il carattere laico della Repubblica – e se stessa dall’accusa di brogli elettorali e corruzione – dalla suocera di Sonia, Indira Gandhi.