di Marcello Veneziani
Cent’anni fa di questi giorni, nasceva dal sangue il partito comunista d’Italia. Nasceva dal sangue della rivoluzione bolscevica in Russia, con milioni di vittime. E nasceva dal biennio rosso sangue in Italia, tra rivolte e violenze, anche contro i reduci della guerra mondiale. Erano le “prove tecniche” di rivoluzione, da importare in Italia sull’esempio russo.
Furono due sanguigni romagnoli massimalisti a preparare il terreno alla nascita del comunismo italiano. Uno fu Nicola Bombacci, incendiario più nei discorsi che negli atti, che guidò l’ala massimalista del Partito socialista, di cui era all’epoca segretario, verso il comunismo. Finì poi ucciso dai comunisti a Salò. L’altro fu proprio Benito Mussolini, già leader dell’alla massimalista, poi passato dal socialismo all’interventismo.
Lo stesso Mussolini si riconobbe padre dei comunisti italiani in un celebre discorso alla Camera il 21 giugno del 1921: “Riconosco con una sincerità che può parere cinica che io per primo ho infettato codesta gente quando ho introdotto nella circolazione del socialismo italiano un po’ di Bergson mescolato a molto Blanqui”.
Fu guerra civile con i fascisti, che dettero vita a una “controrivoluzione preventiva”, come la definì Luigi Fabbri nel 1922: oggi gli storici scrivono, con disonestà intellettuale, delle violenze fasciste nel ’21 senza accennare al biennio rosso che le aveva precedute e scatenate (l’ultimo caso, Emilio Gentile). Le violenze rosse e la paura del comunismo furono tra le principali cause dell’avvento del fascismo.
Il congresso di Livorno nel gennaio del ’21 sancì la nascita del Pcd’I. I comunisti, rispetto ai socialisti, ritenevano possibile e necessario un salto radicale, la rottura col capitalismo, l’occidente, la borghesia, gli agrari, e dunque col riformismo. Prendeva corpo il mito dell’ordine nuovo, dell’uomo nuovo, del mondo nuovo. Il comunismo era promessa di redenzione. E tuttavia la storia del comunismo fu storia di tradimenti, compromessi ed epurazioni.
Furono uccisi più comunisti italiani nell’Urss che nell’Italia fascista. Molti antifascisti si erano rifugiati a Mosca ma, con il concorso di Palmiro Togliatti, furono eliminati perché ritenuti eretici. Al fanatismo spietato si alternava la tattica del compromesso. Prima di arrivare alle alleanze del Pci con le altre forze politiche nel nome dell’antifascismo e alla doppiezza del Partito di Togliatti tra Stalin e la democrazia, vi furono altri due tentativi di compromessi dimenticati.
L’appello comunista e togliattiano ai “Fratelli in camicia nera” nel 1936, che caldeggiò “l’entrismo” dei comunisti nelle organizzazioni fasciste; e l’appoggio a Mosca sul patto Molotov-Ribbentrop tra Hitler e Stalin, nel 1939, che giustificò l’occupazione nazista della Polonia. Il Pci fu all’opposizione tra il ’48 e il ’76; poi cominciò un consociativismo strisciante, il Pci ebbe cariche istituzionali, reti televisive, ramificazioni di poteri. Il Pci finì trent’anni fa, nel ’91, mentre finivano l’Urss e il Pcus, non prima.
Al comunismo si riconosce il beneficio delle buone intenzioni: i suoi massacri erano ispirati da valori umanitari e pacifisti. Ma più che una giustificazione o un’attenuante è un’aggravante: sterminare per il bene dell’umanità futura è aberrante. Ora si celebrano i cent’anni dell’italocomunismo separandolo dagli orrori del comunismo-regime in ogni luogo del mondo, dimenticando i finanziamenti sovietici, il servilismo verso Mosca e l’appoggio alle peggiori invasioni e la complicità/omertà sugli orrori.
Sopravvivono del vecchio Pci tre miti su tutti: Gramsci, la lotta partigiana e Berlinguer. Gramsci fu un lucido pensatore e pagò per le sue idee ma teorizzò in carcere un sistema più totalitario e liberticida di quello che lo aveva messo in prigione. E quando teorizzò una via nazionale al comunismo lo fece attenendosi alla lezione di Lenin sulla duttilità strategica per conquistare il potere.
I partigiani comunisti non miravano a instaurare la libertà e la democrazia ma la dittatura del proletariato sul modello di quella stalinista. E Berlinguer fu santificato perché ebbe “la fortuna”, come Gramsci, di non andare mai al potere. Lo strappo da Mosca fu faticoso e tardivo; e fu compiuto solo quando l’Urss era una gerontocrazia di burosauri, ormai in declino. “I comunisti che non andarono al potere meritano rispetto”, lo dice pure il “reazionario” Gomez Dàvila. Si deve rispetto ai comunisti in buona fede e a coloro che scontarono la loro idea sulla propria pelle e non su quella altrui. Ma lo stesso criterio vale per tutti, fascisti inclusi.
Caduto il comunismo, i suoi esuli abbracciarono il capitale e l’occidente. Sostituirono l’anticapitalismo e l’antiborghesia con l’antifascismo e l’antirazzismo, l’internazionalismo operaio con la globalizzazione, la difesa dei proletari con la difesa di gay, migranti e femministe. Il Pci mutò in partito radicale di massa, a guardia del politically correct e dell’establishment mondiale.
Cosa è vivo oggi del comunismo? La sua mentalità. La sinistra dem, liberal e radical ha ereditato dal Pci la presunzione di diversità e superiorità; la pretesa di giudicare il mondo senza essere giudicati; il razzismo etico, forma aberrante di suprematismo; l’egemonia della casta, l’Intellettuale Collettivo che decreta i valori e i disvalori della società. L’ideologia si è fatta etica e biopolitica. PC è ora la sigla di Politically Correct. Quel codice, derivato dal comunismo e dal giacobinismo, trasformò la sinistra in partito delle classi agiate, del potere global e degli apparati, degli intellettuali e dei magistrati.
Il comunismo reale è stato rimosso come se mai si fosse realizzato, attribuendo ogni nefandezza alle sue degenerazioni come lo stalinismo, concepita come bad company su cui scaricare le negatività. A differenza del nazismo e del fascismo si parla del comunismo come di un evento archeologico. Poi ti affacci, vedi la Cina che dilaga nel mondo e da noi la sinistra che comanda anche quando perde alle elezioni e capisci che non stai parlando di preistoria e dinosauri…