di Massimo Introvigne
Il 6 maggio Benedetto XVI ha rivolto un discorso ai partecipanti al IX Congresso Internazionale di Liturgia, celebrato nell’ambito del cinquantesimo anniversario di fondazione del Pontificio Istituto Liturgico. Come fa da qualche tempo, il Papa ne ha tratto occasione per proporre l’interpretazione di un documento del Concilio Vaticano II, questa volta la costituzione sulla liturgia «Sacrosanctum Concilium» nel senso di quella «ermeneutica della riforma nella continuità» che in un suo celebre discorso del 22 dicembre 2005 ha chiesto di applicare a tutti i testi conciliari, e che si oppone sia alla «ermeneutica della discontinuità e della rottura» sia al rifiuto «anticonciliarista» di ogni elemento di riforma.
Ha detto invece il Pontefice che «Il Beato Giovanni XXIII, raccogliendo le istanze del movimento liturgico che intendeva dare nuovo slancio e nuovo respiro alla preghiera della Chiesa, poco prima del Concilio Vaticano II e nel corso della sua celebrazione volle che la Facoltà dei Benedettini sull’Aventino costituisse un centro di studi e di ricerca per assicurare una solida base alla riforma liturgica conciliare».
Non è vero, in particolare, che fino agli anni 1960 tutto andasse per il meglio in campo liturgico. Al contrario, ha spiegato Benedetto XVI, «alla vigilia del Concilio […] appariva sempre più viva in campo liturgico l’urgenza di una riforma, postulata anche dalle richieste avanzate dai vari episcopati». Di questa riforma emergevano anche le possibili linee: «la forte esigenza pastorale che animava il movimento liturgico richiedeva che venisse favorita e suscitata una partecipazione più attiva dei fedeli alle celebrazioni liturgiche attraverso l’uso delle lingue nazionali e che si approfondisse il tema dell’adattamento dei riti nelle varie culture, specie in terra di missione.
Inoltre, si rivelava chiara fin dall’inizio la necessità di studiare in modo più approfondito il fondamento teologico della Liturgia, per evitare di cadere nel ritualismo o di favorire il soggettivismo, il protagonismo del celebrante».
Si comprendeva però, ha voluto sottolineare il Papa, anche «la necessità che la riforma fosse ben giustificata nell’ambito della Rivelazione e in continuità con la tradizione della Chiesa». Di questa necessità si tenne sempre conto? Non lo possiamo dire, ha risposto Benedetto XVI: non possiamo negare «i malintesi e gli errori nella realizzazione concreta della riforma», che non possiamo però secondo il Papa attribuire ai «pionieri» del movimento liturgico, i quali non avevano voluto questi abusi.
Una corretta «recezione del Vaticano II» richiede il ritorno al testo della «Sacrosanctum Concilium» e la sua puntuale interpretazione. Questa non potrà che mettere «in viva luce il duplice carattere teologico ed ecclesiologico della Liturgia. La celebrazione realizza contemporaneamente un’epifania del Signore e un’epifania della Chiesa, due dimensioni che si coniugano in unità nell’assemblea liturgica, ove il Cristo attualizza il Mistero pasquale di morte e di risurrezione e il popolo dei battezzati attinge più abbondantemente alle fonti della salvezza.
Nell’azione liturgica della Chiesa sussiste la presenza attiva di Cristo: ciò che ha compiuto nel suo passaggio in mezzo agli uomini, Egli continua a renderlo operante attraverso la sua personale azione sacramentale, il cui centro è costituito dall’Eucaristia».
Il Papa non sembra apprezzare un discorso sulla liturgia concentrato solo sulla discussione sui meriti e demeriti della riforma liturgica, e ricorda che «la Liturgia della Chiesa va al di là della stessa “riforma conciliare” (cfr Sacrosanctum Concilium, 1)». Con un’importante affermazione che in qualche modo modifica i termini consueti del dibattito, il Papa sostiene che – una volta che la interpretiamo con gli stessi criteri ermeneutici proposti per i testi del Concilio – ci accorgiamo che scopo della riforma liturgica «non era principalmente quello di cambiare i riti e i testi, quanto invece quello di rinnovare la mentalità e porre al centro della vita cristiana e della pastorale la celebrazione del Mistero Pasquale di Cristo».
L’esperienza insegna che non è andata così, e il Papa ne è ben consapevole. «Purtroppo, forse – afferma – anche da noi Pastori ed esperti, la Liturgia è stata colta più come un oggetto da riformare che non come soggetto capace di rinnovare la vita cristiana, dal momento in cui “esiste un legame strettissimo e organico tra il rinnovamento della Liturgia e il rinnovamento di tutta la vita della Chiesa.
La Chiesa dalla Liturgia attinge la forza per la vita”. A ricordarcelo è il Beato Giovanni Paolo II [1920-2005] nella “Vicesimus quintus annus”, dove la liturgia è vista come il cuore pulsante di ogni attività ecclesiale. E il Servo di Dio Paolo VI [1897-1978], riferendosi al culto della Chiesa, con un’espressione sintetica affermava: “Dalla ‘lex credendi’ passiamo alla ‘lex orandi’, e questa ci conduce alla ‘lex operandi et vivendi’” (Discorso nella cerimonia dell’offerta dei ceri, 2 febbraio 1970)».
Dovremmo dunque interpretare la riforma liturgica alla luce della «Sacrosanctum Concilium», mentre di solito avviene il contrario. Secondo il documento conciliare, infatti, «culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e insieme fonte da cui promana la sua virtù (cfr Sacrosanctum Concilium, 10), la Liturgia con il suo universo celebrativo diventa la grande educatrice al primato della fede e della grazia.
La Liturgia, teste privilegiato della Tradizione vivente della Chiesa, fedele al suo nativo compito di rivelare e rendere presente nell'”hodie” delle vicende umane l'”opus Redemptionis”,, vive di un corretto e costante rapporto tra sana “traditio” e legittima “progressio”, lucidamente esplicitato dalla Costituzione conciliare al n. 23. Con questi due termini, i Padri conciliari hanno voluto consegnare il loro programma di riforma, in equilibrio con la grande tradizione liturgica del passato e il futuro».
«Non poche volte – ha detto il Papa – si contrappone in modo maldestro tradizione e progresso. In realtà, i due concetti si integrano: la tradizione è una realtà viva, include perciò in se stessa il principio dello sviluppo, del progresso. Come a dire che il fiume della tradizione porta in sé anche la sua sorgente e tende verso la foce». Il Papa chiede dunque insieme «piena fedeltà alla ricca e preziosa tradizione liturgica e alla riforma voluta dal Concilio Vaticano II, secondo le linee maestre della Sacrosanctum Concilium e dei pronunciamenti del Magistero».
Qualcuno talora sostiene che in tema d’interpretazione dei documenti del Concilio all’«ermeneutica della discontinuità e della rottura» Benedetto XVI starebbe contrapponendo un’«ermeneutica della continuità». Non è così: Il Papa non parla mai di «ermeneutica della continuità» ma sempre di «ermeneutica della riforma nella continuità», e chiede la nostra «piena fedeltà» sia alla riforma sia alla continuità. Questa posizione è ora ribadita anche in tema di liturgia.