Il magistrato, ucciso trent’anni fa dalla Stidda agrigentina, sarà beato. Martire, ucciso in odium fidei, come don Pino Puglisi. Intervista ad Alfredo Mantovano, del Centro Studi Livatino
di Marco Guerra
“Un magistrato che ha rinunciato a sposarsi e che ha offerto tutto sé steso alla lotta alla mafia senza per questo dimenticare mai che anche il peggior criminale era un essere umano non privo di dignità”. La figura di Rosario Livatino, il “giudice ragazzino” ucciso a soli 37 anni dalla mafia, viene tratteggiata per In Terris da Alfredo Mantovano, magistrato e vicepresidente del Centro Studi che porta il nome di Livano.
Papa Francesco ha recentemente autorizzato la Congregazione delle Cause dei Santi a promulgare il decreto che riconosce il martirio del magistrato siciliano ucciso dalla mafia nel 1990. Livatino sarà quindi il primo magistrato beato nella storia della Chiesa, un riconoscimento che da impulso all’attività di tanti magistrati, giudici e in generale i giuristi cattolici che perseguono una giustizia ispirata al diritto naturale e “una legge fatta per l’uomo e non l’uomo per la legge”, come affermava Livatino nelle sue riflessioni.
Come avete accolto voi componenti del centro studi che porta il nome di Rosario Livatino la notizia del decreto sul martirio in odium fidei del giovane magistrato ucciso dalla mafia ad Agrigento nel 1990?
Con gioia e gratitudine. Gioia, perché la Chiesa anche formalmente indica nel giudice di Canicattì un modello per ogni giurista, in particolare per ogni magistrato. Gratitudine perché si completa un cammino, che ha conosciuto tappe significative nel monito di S. Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi il 13 maggio 1993 – l’ordine, più che l’invio, ai mafiosi a convertirsi perché “verrà il giudizio di Dio” -, pochi minuti dopo aver incontrato i genitori di Livatino, e che negli ultimi mesi ha visto il discorso che Papa Francesco su Rosario nel corso dell’udienza del 29 novembre 2019 ai componenti del nostro Centro studi, e l’omelia del card. Bassetti nella S. Messa celebrata a Roma in occasione dei 30 anni dall’omicidio, il 21 settembre scorso.
Possiamo quindi considerarlo un martire dei nostri tempi?
E’ certamente così. Il suo è stato un martirio vero perché si è alimentato di una fede profonda e della consapevolezza del rischio mortale che correva con intensità crescente. Per questo, per non esporre a pericolo altri, ha rinunciato a sposarsi e a rifiutare qualsiasi protezione; ma certamente non ha rinunciato a rallentare o attenuare il suo lavoro.
Quale eredità ha lasciato il giovane magistrato e perché la sua breve vita è un esempio ancora attuale?
Anche chi non crede resta colpito dalla professionalità e dal rispetto per la persona che ha connotato la sua attività. Rispetto a 30 anni fa, oggi si tengono tanti corsi di deontologia; per Livatino era naturale dare il meglio di sé con indagini – quando è stato P.m. – e provvedimenti ineccepibili, così ben curati nella ricostruzione del fatto e nei profili di diritto da reggere integri fino all’ultimo grado di giudizio. Altrettanto naturale era non trascurare mai nei fatti che il peggior mafioso che egli aveva come imputato era comunque un essere umano, non privo della sua dignità. Considerata la sciatteria che connota una parte non marginale dell’odierna attività giudiziaria, il suo esempio appare più attuale adesso che nel 1990.
Rosario conosceva il fenomeno mafioso e lo ha combattuto senza diventare una star dell’antimafia, questo è un altro insegnamento importante per combattere la criminalità?
“Giovanni Falcone è stato lo stratega del contrasto alla mafia, non solo in Italia: le prospettive che ha aperto sono tuttora valide. Paolo Borsellino è stato il generoso condottiero sul territorio siciliano. Rosario Livatino è stato il modello del magistrato che, pur non vivendo – come i primi due – in luoghi importanti, Roma o Palermo, tuttavia svolge al meglio il suo dovere sul fronte, quello dei sequestri e delle confische dei beni, che maggiormente colpisce i mafiosi. Gli italiani hanno conosciuto della sua esistenza il giorno dell’omicidio, ma i criminali operanti sul suo territorio sapevano bene chi era. È un insegnamento pure questo: chi ottiene i risultati più efficaci nel contrasto alla criminalità mafiosa spesso è ignoto ai più, e non frequenta i talk show”.
Rosario credeva che la fede potesse aiutare un magistrato e un giudice ad esercitare la propria professione e soprattutto a giudicare l’imputato, come è possibile questo?
“L’esperienza di Livatino è quella di un uomo per il quale la fede non è un elemento di contorno, ma al tempo stesso la ragione di vita, e ciò che conferisce significato a un lavoro così difficile qual è quello del giudice. La coerenza fra la fede e l’esistenza quotidiana è la radice della sua professionalità e del suo rispetto per l’altro. Sarebbe bello se, immaginando che la beatificazione sia l’occasione per parlare di lui in misura maggiore di quanto accaduto finora, il suo profilo non fosse manipolato o strumentalizzato, ma fosse presentato per quel che è stato realmente: un Cristiano che ogni giorno, sapendo ben distinguere le realtà temporali dalle proprie convinzioni, poneva la coscienza nelle mani di Dio, e da questo traeva coraggio e forza”.
Il vostro centro studi si interviene molto anche in questioni inerenti la bioetica, un terreno in cui vediamo sempre di più una magistratura protagonista, che spesso stravolge il diritto naturale e anche le normative vigenti. E’ un’anomalia del sistema o un modo per sopperire alle omissioni della politica?
“Nelle due conferenze che Livatino ha tenuto in pubblico, egli ha ben sottolineato il legame esistente fra legge naturale e diritto positivo, e in tal senso ha posto in guardia da derive eutanasiche, soprattutto se perseguite impropriamente per via giudiziaria, e pure in questo ha precorso i tempi. Quel che talora qualche mio collega non considera è che se il Parlamento non interviene su una materia – come era per l’aiuto al suicidio prima della nota sentenza della Corte costituzionale – non è necessariamente per “omissione”, ma perché ritiene sufficiente il quadro normativo esistente. Pretendere di colmare con una sentenza una presunta lacuna equivale a una impropria sovrapposizione del potere giudiziario su quello legislativo”.
Quali sono le sfide più pressanti che la magistratura dovrà affrontare nei prossimi anni?
“Rispondo con le parole che ci ha rivolto Papa Francesco nell’udienza del 29 novembre 2019: “L’attualità di Rosario Livatino è sorprendente, perché coglie i segni di quel che sarebbe emerso con maggiore evidenza nei decenni seguenti, non soltanto in Italia, cioè la giustificazione dello sconfinamento del giudice in ambiti non propri, soprattutto nelle materie dei cosiddetti ‘nuovi diritti’, con sentenze che sembrano preoccupate di esaudire desideri sempre nuovi, disancorati da ogni limite oggettivo”.