La nuova Bussola quotidiana, 5 gennaio 2016
Massimo Introvigne
Il discorso di Capodanno del Presidente della Repubblica, che ha indicato nell’evasione fiscale il principale problema della nostra economia, ha suscitato molteplici reazioni: non tutte favorevoli, per usare un eufemismo. Al di là delle polemiche, l’occasione è buona per chiedersi da una parte se davvero l’evasione fiscale italiana è anomala rispetto ai dati internazionali, dall’altra che cosa ha da dire la dottrina sociale della Chiesa sui problemi sollevati dal Presidente. Ovviamente, le due questioni sono collegate.
Le statistiche sull’evasione fiscale riferite a singoli anni sono influenzate da fattori contingenti. Molto più eloquenti sono le serie statistiche di lungo periodo. Uno studio autorevole è quello di due professori di economia pubblica, Andreas Buehn di Utrecht e Friedrich Schneider di Linz, pubblicato nel 2012 (clicca qui). Lo studio prende in esame 38 Paesi dell’area Ocse e costruisce, per la prima volta, un modello di lungo periodo che va dal 1999 al 2010. Ne emerge che la media dell’evasione fiscale sul prodotto interno lordo (Pil) nell’area Ocse è del 3,2%. Buehn e Schneider mostrano anche come stime che citano percentuali molto superiori sono basate su metodologie non attendibili o mettono insieme evasione fiscale e problemi diversi.
Il Paese Ocse con la minore percentuale di evasione fiscale sul Pil sono gli Stati Uniti (0,5%). L’Italia si situa al di sotto della media Ocse: nel periodo considerato la percentuale dell’evasione sul Pil è stata in media dell’1,5%. Certo, il triplo degli Stati Uniti. Ma l’evasione fiscale ha pesato di più in Paesi che nel nostro immaginario siamo abituati a considerare modelli di senso civico: Danimarca 1,7%, Svezia 1,7%, Svezia 1,7%. Il Paese con la più forte crescita economica dell’area Ocse; l’Estonia, ha un’incidenza dell’evasione fiscale sul Pil del 2,5%. Le statistiche sulle cifre assolute sono ingannevoli. Gli Stati Uniti sono i Paese con la più alta cifra assoluta di evasione fiscale, oltre trecento miliardi di dollari di media nell’ultimo decennio. Ma questo deriva dalle dimensioni di un’economia come quella americana, dove invece l’evasione fiscale è una realtà percentualmente modesta.
Citando valori assoluti anziché percentuali, anche il discorso del Presidente rischia di indurre qualche equivoco. Inoltre, alcune cifre che corrono mettono insieme evasione fiscale ed evasione contributiva, che sono fenomeni diversi. La Confindustria, per esempio, menziona una percentuale 2015 di evasione del 7,5% sul Pil (clicca qui) ma in questa percentuale l’evasione Inps (34,4 miliardi) persa molto di più dell’evasione Irpef (23,4 miliardi). Aggiungendo all’evasione fiscale e contributiva le attività attribuite alla criminalità organizzata si può arrivare anche a percentuali fra il 20 e il 30 per cento del Pil. Ma, a parte l’incertezza delle stime, si esce dal campo dell’evasione fiscale propriamente detta.
La conclusione è che l’evasione fiscale in Italia è certamente un fenomeno serio. Se però ci limitiamo all’evasione fiscale in senso tecnico, e consideriamo le percentuali e non i valori assoluti – che ovviamente per un Paese grande come l’Italia sarebbero comunque più alti rispetto a Paesi più piccoli – le nostre serie storiche dell’evasione danno valori più bassi della media Ocse e minori della celebrata Scandinavia. Mentre l’esempio dell’Estonia dimostra che una forte crescita economica è compatibile con livelli di percentuale di evasione fiscale sul Pil storicamente più alti dell’Italia. C’è un’altra faccia della medaglia, di cui non si può non tenere conto. Come tutti sanno, la politica fiscale è un gatto che si morde la coda.
L’eccessiva pressione fiscale stimola l’evasione fiscale. I governi sono tentati di reagire all’evasione aumentando ancora la pressione, il che fa aumentare l’evasione, e così via. L’Italia è uno dei Paesi del mondo dove si pagano più tasse. Non lo dicono oppositori del nostro governo ma la banca mondiale (clicca qui e vedi tabella a pagina 156). Il carico fiscale complessivo – che deve tenere conto anche delle imposte indirette, comprese le accise sulla benzina – in Italia è del 65,4%. In Europa è peggiore solo in Francia (66,6%), ma è stato calcolato che questo vale per un single. In Francia le deduzioni familiari funzionano meglio che da noi e per una famiglia con due figli il carico fiscale italiano è il maggiore in Europa (circa il 68%) e tra i maggiori del mondo. Non siamo abituati a riflettere sul dato reale, ma è tecnicamente spaventoso: se guadagniamo mille euro e siamo sposati e con figli, alla fine ne daremo 680 direttamente o indirettamente al fisco. E se lavoriamo cento giorni, di questi 68 saranno destinati unicamente a soddisfare il fisco e solo 32 a guadagnare per noi e i nostri figli.
Negli anni 1980, Alleanza Cattolica – di cui faccio parte – lanciò diverse campagne contro la “persecuzione fiscale” in corso in Italia. L’espressione non era stata inventata da noi ma dal noto giornalista economico Mario Salvatorelli (1920-1997). E non era esagerata. Un sistema fiscale che preleva il 68% del reddito delle famiglie perseguita i cittadini. Ci sono sistemi che aggrediscono le famiglie per favorire le imprese. Non è il nostro caso. Un recente studio dell’International Business Times definisce l’Italia l’«inferno d’Europa» per le imprese con una pressione fiscale del 64,8%, anche qui naturalmente calcolando tutte le imposte e non solo quelle dirette (clicca qui).
La dottrina sociale della Chiesa insegna che esiste un dovere di pagare le tasse e di «far fronte agli oneri fiscali, per quanto gravosi e sgraditi essi possano apparire» (Benedetto XVI, Udienza generale del 31-10-2007). Tuttavia – come precisa la voce «Politica fiscale» del Dizionario di dottrina sociale della Chiesa, pubblicato dal Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace nel 2004, e che ordina in forma di dizionario il «Compendio di dottrina sociale della Chiesa» – «il diritto dello Stato a riscuotere le tasse non è illimitato». Già il 2 ottobre 1948, ricevendo i partecipanti al Congresso dell’Istituto Internazionale di Finanze Pubbliche, il venerabile Pio XII aveva denunciato le tasse eccessive derivanti da una crescita incontrollata delle attività dello Stato «dettata troppo spesso da ideologie false o malsane». L’Instrumentum laboris per la Seconda Assemblea Speciale per l’Africa del Sinodo dei vescovi, presentato da Benedetto XVI nel suo viaggio in Africa del 2009, afferma con chiarezza che «le tasse eccessivamente alte [sono], a volte, illecite». Dunque, a fronte del dovere dei cittadini di pagare le tasse sta il dovere dello Stato di non imporre tasse così alte da essere moralmente “illecite”.
Il Dizionario di dottrina sociale della Chiesa, a differenza di certi governanti, sa pure che la pressione fiscale eccessiva impedisce lo sviluppo dell’economia e «stimola l’evasione fiscale». La pressione fiscale sulle famiglie in Italia è la più alta d’Europa e del mondo industrializzato, ed è arrivata – secondo i dati della Banca Mondiale – a livelli che non è esagerato definire inauditi e di «persecuzione fiscale». L’Italia ha molti problemi, ma la “persecuzione fiscale” non è il minore. Nell’agenda di una “buona politica” al servizio del bene comune dovrebbe prendere posto una seria meditazione sul carattere intollerabile di questa persecuzione. Prendersela soltanto con l’evasione fiscale, magari sulla base di statistiche discutibili, non risolve il problema. C’è però una parte di ragione nella critica agli evasori.
L’evasione fiscale spesso è un’evasione individualistica dai problemi. Se ciascuno pensa di reagire alla “persecuzione fiscale” da solo, cercando di evadere come può, il sistema non cambierà mai. Lo stesso Dizionario della dottrina sociale della Chiesa insegna che cosa fare: i cittadini si uniscano, afferma, per «contestare le tasse che essi considerano ingiuste». Non serve rifugiarsi nel privato: occorre tornare a fare politica, chiamando la persecuzione fiscale con il suo nome e operando perché cessi.