Lo Stato della Chiesa? Ci vuole!

vatican_stateIl Timone n.74 giugno 2008

A che cosa serve uno Stato pontificio? A garantire la libertas ecclesiae. Lo sapevano i nemici della Chiesa. Che hanno tentato in tutti i modi di cancellarlo. Finora senza riuscirci

di Angela Pellicciari

Nell’Ottocento liberale e massonico la propaganda anticlericale affermava che lo Stato pontificio fosse ostacolo (non difesa) per la Chiesa cattolica. Come si poteva solo lontanamente concepire, ci si chiedeva, che, il vicario di Cristo, nato e morto povero, fosse addirittura a capo di uno Stato?

Per capire quale sia l’utilità dello Stato della Chiesa, che oggi ha le dimensioni microscopiche del Vaticano, bisogna sinteticamente ripercorrere alcune tappe della bimillenaria storia della cristianità. Dopo i primi tre secoli di persecuzioni, il cristianesimo diventa con Costantino (313) religio licita e con Teodosio (Editto di Tessalonica, 380) religione di Stato. Il che significa che spetta all’imperatore il compito di proteggere la Chiesa dai nemici interni (eretici) ed esterni (pagani). Qual è però il confine fra l’autorità dell’imperatore e quella del Papa?

Il rapporto fra le due massime istituzioni dell’impero romano, diventato cristiano, non è mai stato facile perché gli imperatori hanno reiteratamente tentato di ripristinare una sovranità di tipo assoluto, sottraendo al Papa le proprie legittime ed inalienabili competenze di carattere spirituale. Nel corso del tempo i pontefici hanno difeso la libertas ecclesiae nelle modalità in cui era loro concesso di farlo.

Sul finire del quinto secolo è così che papa Gelasio (492-496) prova a tracciare una distinzione semplice e netta fra i due poteri in modo da evitare per l’avvenire la sovrapposizione delle competenze. È la nota teoria delle due spade cui recentemente anche papa Ratzinger ha fatto riferimento. Gelasio paragona l’impero ad un uomo con due spade, una per ciascuna mano: la mano destra impugna la spada del potere spirituale, quella sinistra la spada del potere temporale. Ciò significa che, mentre in campo spirituale l’imperatore è soggetto alle decisioni del Papa, in quello temporale è il Pontefice ad essere tenuto ad obbedire agli ordini imperiali.

Questa chiara demarcazione delle rispettive sfere di influenza non ha vita facile, perché l’imperatore spesso tenta di imporre la propria giurisdizione anche in campo spirituale. Due esempi paradigmatici: nel 547 Giustiniano fa deportare a Costantinopoli papa Vigilio, restio a piegarsi alla volontà imperiale in campo dogmatico (la cosiddetta questione dell’editto dei Tre Capitoli riguardante un’appendice dell’eresia monofisita), mentre Costante II (641-68) fa arrestare, deportare, torturare e quindi esiliare papa Martino I, reo di essersi opposto al monotelismo.

La situazione precipita, divenendo insostenibile, quando l’imperatore si fa alfiere dell’eresia iconoclasta (726-787), perseguitando con brutalità monaci e preti che gli si oppongono. Si arriva al paradosso che la carica istituzionalmente preposta a proteggere la Chiesa (dall’Editto di Tessalonica l’autorità imperiale) è quella che con più violenza la perseguita.

Il Papa, che, nel frattempo, è diventato la massima ed indiscussa autorità nei territori dell’antico Impero Romano d’Occidente, cerca protezione altrove e si rivolge ai Franchi. Questi col loro re Pipino scendono in Italia, combattono i Longobardi che avevano sconfitto i bizantini, e donano al Pontefice i territori conquistati. Siamo nel 756 e così nasce lo Stato della Chiesa, unico Stato al mondo frutto di donazione.

Il figlio di Pipino, Carlo detto Magno, sconfigge nuovamente i Longobardi e conferma la donazione paterna (774). A cosa serve lo Stato pontificio? A garantire la libertas ecclesiae dalla prepotenza del potere temporale. Il miglior modo per farlo (perlomeno fino a quando non c’è una persecuzione violenta) è quello, provvidenziale, di essere sovrani nel proprio Stato: di essere contemporaneamente papi e re, non dovendo sottostare, in quanto sudditi, ai dictat del potere temporale.

Stando così le cose, diventano chiare le ragioni per cui i nemici della Chiesa abbiano sempre attaccato frontalmente la figura del Papa-re. Non è un caso che i re di Francia, quando, con Filippo il Bello, si trasformano da “primogeniti della Chiesa” in persecutori della Chiesa, impongano il trasferimento del papato ad Avignone (1305-76), territorio contiguo al regno, facilmente controllabile. Non è un caso che il massone Napoleone imponga la fine del potere temporale e trascini il Papa, prigioniero, in Francia.

Non è un caso infine che gli anticattolici liberali italiani ed esteri, sotto la bandiera dei Savoia, abbiano sconvolto la vita civile, culturale, religiosa ed economica della cattolica Italia, nell’intento non dichiarato ma reale di mettere fine allo Stato pontificio. Sarebbe così finita, pensavano, quell’anomalia assoluta di un potere spirituale indipendente da quello temporale. Non si sarebbe più parlato di libertas ecclesiae e il Papa si sarebbe docilmente sottomesso alla volontà dei governanti di turno. Questa la speranza degli uomini del Risorgimento.

Perfettamente consci della portata della posta in gioco, Pio IX e Leone XIII difendono a spada tratta la necessità che i papi siano detentori del potere temporale (potere che i Patti Lateranensi del 1929 ribadiscono). Fra le tante prese di posizione dei pontefici a questo riguardo, scegliamo la lettera che Pio IX indirizza nel 1872 al Segretario di Stato, cardinal Antonelli. Scriveva Pio IX: «il Papa non è, né sarà mai libero ed indipendente, finché il supremo di lui potere sia sottomesso alla prepotenza e al capriccio d’un’avversa autorità; finché il suo elevato ministero sia fatto segno all’influenza e predominio delle passioni politiche, finché le sue leggi ed i suoi decreti non vadano esenti dal sospetto di parzialità o di offesa per le rispettive nazioni. […] La storia stessa è piena di conflitti fra le due autorità e di esempi di agitazioni nella cristiana famiglia ogni qualvolta i Romani Pontefici vennero anche momentaneamente sottoposti all’autorità di estraneo potere. La ragione n’è ben chiara. Diviso il mondo in un numero ben considerevole di Stati, gli uni indipendenti dagli altri, gli uni forti e potenti, gli altri piccoli e deboli, la pace e la tranquillità delle coscienze dei fedeli non poterono altrimenti esistere che in ragione della loro sicurezza e convinzione dell’alta imparzialità del Padre comune dei fedeli e dell’indipendenza dei suoi atti. […] Ora la libertà religiosa dei cattolici avendo per condizione indeclinabile la libertà del Papa, ne segue che se il Papa, giudice supremo ed organo vivo della fede e della legge dei cattolici, non è libero, essi non potranno giammai rassicurarsi sulla libertà ed indipendenza dei suoi atti».

Bibliografia

Angela Pellicciali, I papi e la massoneria, Ares, 2007.