di Alessandro Gianmoena
La coltre culturale della sinistra, che dalle cattedre universitarie e dai centri mediatici di stampa e tv invade di gemiti l’opinione pubblica etichettando la nostra società come violenta e rozza, sfoggia l’arroganza di chi si sente senza macchia deputato a tracciare la retta via al popolo. Come se la cultura del disvalore e dell’insurrezionalismo non fosse il cuore estremo del suo pensiero.
Lo dimostra il sociologo Dal Lago nell’intervista fattagli dal Corsera di domenica, ritenendo che la violenza sia generata da un’assenza del verbo della sinistra. I fatti di Catania dovrebbero invece far riflettere i benpensanti come lui.
Se è vero che una società si plasma secondo modelli di riferimento culturali che l’imprevedibilità della storia presenta, bisogna chiedersi quale modello sociale e culturale si è imposto nei centri formativi ed universitari se non quello di matrice sessantottina. E non fu la stessa generazione del ’68 che con la contestazione all’ordine costituito cercò una rivoluzione culturale ai valori fondanti della nostra società?
La cultura della legalità allora fu un pensiero non condiviso da tutta la sinistra poiché per la causa rivoluzionaria serviva ogni forma di lotta: ricordiamo le frange della sinistra extraparlamentare che determinarono la crisi della lotta della classe operaia con gli anni di piombo ritenendo il lavoro una forma di schiavitù del padrone capitalista e generando un clima di terrore per destabilizzare la società. Il ’68 fu propedeutico al ’77.
«La mia vita per la rivoluzione, la mia vita come rivoluzione»: questi erano i postulati che sottintendevano l’impegno politico di un giovane rivoluzionario. La lotta era contro la società capitalista e contro i suoi valori, ponendo persino se stessi come esempio in carne di un cambiamento delle regole e del modus vivendi. Ora, quei giovani, al grido di lo «Stato piuttosto che il privato», hanno occupato i gangli della società, dalla politica, alla cultura, ai media ed a tutte le sfere d’intervento dello Stato nella società, hanno reso egemone quella cultura sessantottina che favorisce lo svuotamento del valore civico e sociale della famiglia, delle istituzioni e di chi ha garantito e garantisce l’ordine pubblico. Questa cultura della delegittimazione delle istituzioni si è radicata nelle frange estreme di sinistra e di destra, che in comune condividono il senso di rivolta all’ordine costituito.
A cosa porta il principio di disobbedienza che spinge un ragazzo a mascherarsi e a munirsi di spranghe per la propria causa? Chi se non la sinistra di lotta e di contestazione è stata il modello di riferimento che ha individuato nelle forze dell’ordine la branca oppressiva dello Stato? Lo abbiamo visto durante il G8 di Genova, nelle manifestazioni no global di questi anni caldeggiate dalla sinistra antagonista, che ha portato persino un rappresentante del movimentismo contestatore, Caruso, nei banchi parlamentari di Rifondazione comunista.
Se è vero che erano giovani i violenti di Catania forse dovremmo sostenere che le cause degli scontri sono anche racchiuse nella continua delegittimazione delle forze dell’ordine che in questi anni la sinistra radicale, dal G8 in poi, ha perpetato in virtù di un rinnovato Sessantotto. La cultura della delegittimazione delle forze dell’ordine nasce a sinistra e si declina nella realtà attraverso il lassismo di chi ha gli strumenti per prevenire la violenza – la legge Pisanu, in merito, parla chiaro: basterebbe applicarla – e di chi ancora oggi pensa che il ragazzo che morì a Genova fosse solo una vittima del Carabiniere Placanica.
Ma si sa, per la sinistra c’è sempre una sensibilità per i compagni che sbagliano, lo abbiamo capito anche dal fatto che exbrigatisti ora ricoprono cariche istituzionali, anche questo è un modello per le giovani generazioni, e la cultura della delegittimazione delle istituzioni viene perpetuata nell’ambiguità del messaggio di lotta e di governo della sinistra radicale con esponenti e loro militanti che non esitano ad organizzare trasferte in tutto il mondo per contestare. Ciò che hanno in comune le contestazioni no global ed i violenti ultras del calcio è il nemico poliziotto, poiché esso rappresenta la difesa dell’ordine.
Rivoluzione e rivolta si fondono nella contestazione all’ordine costituito. Quando questa cultura del disordine, della libertà anarcoide individualista, della moltitudine alla Toni Negri si diffonde nella cultura italiana attraverso le cattedre della scuola e dell’università, quando con l’indulto non vi è più la certezza della pena, quando il laicismo intende svilire il ruolo della famiglia nella società, della nostra cultura popolare intrisa di quel retaggio culturale di matrice cristiana, non possiamo scandalizzarci degli effetti senza considerare le cause. E non è certo con l’interruzione del campionato di calcio che si risolve il problema, ma bensì prendendo le distanze da una cultura della disobbedienza strisciante che è alla base delle lotte di contestazione della sinistra massimalista contro il mondo globalizzato.
La violenza della nostra società è la drammatica conseguenza di un vuoto culturale che la rivoluzione sessantottina ha generato. Le nostre generazioni pagano l’ottusità ideologica politica e culturale della sinistra. Un nostro pensiero va a Filippo Raciti, un giovane che della difesa della legalità ha fatto una scelta di vita. Lui, come Placanica, ha cercato di difendere l’ordine della nostra società. Chissà se la sinistra ed in particolare quella antagonista sarà disposta a riconoscere la sua scelta di vita come lo fece per il contestatore Giuliani,sarebbe costretta a fare autocritica di sè e della sua storia.