Dal blog di Costanza Miriano 16 marzo 2016
Stati Uniti: l’«opzione Benedetto». Cristiani conservatori s’interrogano sulle forme di resistenza e sull’attivismo politico in una società secolarizzata
di Jean-François Maye
Traendo un bilancio degli sforzi politici condotti da ambienti della “destra cristiana” americana degli anni 1990, alcuni intellettuali cristiani conservatori concludono che i tentativi di riconquista delle istituzioni per via elettorale non hanno sortito i risultati auspicati e constatano di trovarsi oggi in minoranza nella società americana, la cui cultura si allontana sempre più dai loro princìpi. L’accettazione crescente delle unioni omosessuali sembra confermare questa situazione. Tali autori propongono quindi una ridefinizione delle priorità e l’istituzione di solidi poli di controcultura cristiana per assicurare la sopravvivenza e la trasmissione dei valori che essi difendono a fronte del rullo compressore secolare. È ciò che uno di loro ha definito la Benedict Option: tale “opzione Benedetto” fa riferimento a san Benedetto da Norcia, morto a metà del secolo VI, che ha esercitato una profonda influenza sul monachesimo occidentale.
Solo un anno fa non ne avevo mai sentito parlare: al massimo avevo già visto il nome di Rod Dreher (nato nel 1967), autore conservatore americano d’origine metodista, convertito in un primo momento al cattolicesimo romano, prima di abbracciare la fede ortodossa nel 2006. La Benedict Option mi è stata rivelata da un articolo di Damon Linker su The Week (19 maggio 2015). Secondo Linker, l’interesse verso tale riorientamento sta guadagnando terreno, ed egli ritiene che negli anni a venire ne sentiremo sempre più parlare.
Nel 1979 fu fondata la “maggioranza morale”, l’organizzazione più conosciuta della “nuova destra cristiana” americana. Ben diceva il suo stesso nome: tale ambiente pensava che la maggioranza degli americani fosse conservatrice e che bisognasse restituire loro un potere usurpato dagli ambienti “liberali”, grazie a un’alleanza che attraversava varie tradizioni religiose (evangelici, cattolici, mormoni…). In numero maggiore che da noi, i cristiani conservatori entrarono dunque nel gioco politico in nome dei loro ideali, al fine d’influenzare gli orientamenti della società.
Oggi, osserva Linker, questi ambienti non hanno più l’ottimismo conquistatore degli anni 1980. Non hanno più la sensazione che il Partito Repubblicano, che avevano provato a rendere la dimora delle loro convinzioni, abbracci davvero il loro programma; constatano che una maggioranza della popolazione accetta le unioni omosessuali, prendono coscienza che sono in realtà la minoranza e che la società adotta delle norme che sono, dal loro punto di vista, sempre più anticristiane. Su questo sfondo alcuni intellettuali conservatori stimano che sia venuto il momento di ridefinire le priorità.
In un articolo pubblicato nel mese di febbraio 2015 sulla rivista First Things, Rod Dreher scrive: “Credo che al giorno d’oggi il pessimismo sia semplicemente realismo e che sia preferibile ripiegare strategicamente su una posizione che siamo in grado di difendere”. Fa una constatazione senza compiacimento: gli stessi ambienti cristiani, analizza, sono caduti in una religione vaga e insipida, adattata a un ambiente culturale post-cristiano. “[…] come possiamo produrre una vita civica cristiana quando non produciamo più dei cristiani autentici?”.
«Per dirlo con crudezza, riguardo alla dinamica della nostra cultura in rapida trasformazione, credo che sarà sempre più difficile essere un buon cristiano e un buon americano. È molto più importante per me preservare la fede che la democrazia liberale e l’ordine americano. Idealmente non dovrebbe esserci contraddizione, ma le realtà dell’America post-cristiana sfidano i nostri ideali sorpassati».
I cristiani americani devono dunque ammettere che vivono in mezzo a rovine, sostiene Dreher, e prepararsi a mantenere viva la fede durante gli anni bui a venire. Non si tratta, precisa, di rinunciare all’azione politica per coloro che ne abbiano la vocazione, né di isolarsi fisicamente dal mondo esteriore – ancorché in alcuni casi ciò possa rappresentare una possibilità –, ma di mettere prima di tutto l’accento su un progetto “contro-culturale” al fine di preservare e di trasmettere ciò che va trasmesso e di resistere attraverso la cultura. Delle comunità aderenti a tali ideali possono organizzarsi attorno a dei centri spirituali (per esempio dei monasteri), ma anche – più spesso – attorno a parrocchie, scuole o gruppi vari.
In una conversazione pubblicata recentemente, Dreher precisa che non ci possiamo permettere il lusso del disimpegno e che dobbiamo “proteggere le nostre istituzioni meglio che possiamo”, ma che ciò non è sufficiente: “Restiamo coinvolti nel mondo esteriore, ma procediamo anche a una ritirata strategica”, a una presa di distanza nei confronti della cultura secolarizzata. («Rod Dreher explains the ‘Benedict Option’», World, 3 giugno 2015).
Rompendo con il mito della “nazione cristiana” che anima alcuni ambienti americani, Dreher rifiuta di legare indissolubilmente la causa dei cristiani d’impostazione tradizionale alle fortune o sfortune politiche del Partito Repubblicano: sostiene che, anche se il matrimonio omosessuale non incontrasse un’approvazione di tale ampiezza e anche se i repubblicani controllassero tutte le branche del governo, l’“opzione Benedetto” resterebbe necessaria “perché la logica e i progressi della modernità secolare hanno svuotato la fede cristiana dall’interno” («The Benedict Option & Antipolitical Politics», The American Conservative, 19 maggio 2015; il concetto di “politica anti-politica” è improntato a un saggio di Vaclav Havel del 1984).
Non si tratta di diventare “la branca conservatrice sociale e religiosa in esilio del Partito Repubblicano”. La Benedict Option non vuole essere semplicemente una reazione alle peripezie politiche, ma una risposta alla percezione di un crollo spirituale, culturale e sociale. Le sue radici sono più profonde delle evoluzioni politiche degli ultimi cinquant’anni:
«Ciò che davvero molti conservatori sociali e religiosi non arrivano a comprendere è che cose come il matrimonio omosessuale, il poliamore o i transgender non sono delle perversioni dei princìpi liberali classici su cui era stata fondata l’America, ma ne sono delle estensioni logiche. Il giudice Anthony Kennedy ha espresso il sentimento di molti americani – probabilmente la maggioranza – dicendo, in un passaggio incoerente del giudizio Casey nel 1992: “Al cuore della libertà si trova il diritto di definire il proprio concetto dell’esistenza, del senso, dell’universo, del mistero della vita umana”. Questo è l’esito logico del liberalismo, il punto in cui si dissolve nell’atomizzazione e nell’incoerenza» («Saving the Benedict Option from the Culture War», The American Conservative, 5 giugno 2015).
Perché chiamarla “opzione Benedetto”? Dreher lo spiega in un articolo pubblicato il 12 dicembre 2013 su The American Conservative. Di fronte al crollo dell’Impero Romano, nel secolo VI, san Benedetto non si limitò a ritirarsi dal mondo, ma le comunità monastiche fondate da lui e dai suoi successori divennero dei luoghi di pace, di pietà e d’erudizione a partire dai quali la civilizzazione europea poté gradualmente riemergere. L’idea dellaBenedict Option ha per punto di partenza la conclusione di un libro del filosofo Alasdair MacIntyre – Dopo la virtù (1981; trad. it. 2007) – nel quale l’autore evoca la possibilità di un “altro san Benedetto, senza dubbio molto diverso”, per aiutare a costruire le “forme locali di comunità al cui interno la civiltà e la vita intellettuale e morale possano essere conservate attraverso i nuovi secoli oscuri”.
Dreher precisa che non si tratta d’imitare l’impresa di san Benedetto, ma di passaggi che egli intende essere nello stesso spirito. Nel suo articolo del dicembre 2013, Dreher cita il centinaio di laici cattolici americani venuti a installarsi ai confini dell’abbazia benedettina di Clear Creek (Oklahoma), una fondazione monastica di spirito tradizionale. I figli di queste famiglie sono allevati a distanza dalla cultura popolare americana dominante. Un altro esempio che propone è quello della comunità di Eagle River, in Alaska: negli anni 1980, questi evangelici sono entrati nella Chiesa ortodossa e oggi circa settanta famiglie conducono una vita di villaggio vicino alla loro chiesa e alla loro scuola parrocchiale.
Per l’osservatore delle correnti religiose del mondo contemporaneo, il progetto non può mancare di ricordare il modello dell’“enclave” messo in luce dai ricercatori dell’ambizioso progetto Fundamentalism Project dell’Università di Chicago (1987-1995), i cui risultati sono stati presentati in cinque grandi tomi che raccolgono vari contributi. Uno dei tratti dell’approccio “fondamentalista”, nel senso generico adottato dal Fundamentalism Project, è una “cultura dell’enclave”: in queste percezioni “l’esterno è contaminato, contagioso, pericoloso”, con la modernità come tratto comune di tali forze esteriori.
Queste enclave non sono sempre fisiche e intrattengono dei legami d’intensità variabile con il mondo esteriore, di cui non si fidano (Gabriel A. Almond – R. Scotto Appleby – Emmanuel Sivan, Strong Religion: The Rise of Fundamentalism around the World, University of Chicago Press, 2003, cap. 1).
La similitudine con certe esperienze fondamentaliste, in particolare quelle del protestantesimo americano, è stata senz’altro rilevata dalle critiche a Dreher, critiche principalmente all’interno delle correnti cristiane conservatrici. Egli sostiene che il suo approccio è diverso e che non si tratta di demonizzare il mondo esteriore, né di scappare da esso o di abbracciare una forma di quietismo, ma di coltivare un’interiorità – «new and concentrated inwardness» – irrobustendo la vita comunitaria, pur continuando a sviluppare una testimonianza verso l’esterno. Bisogna dire tuttavia che la lettura di molti articoli di Dreher non sempre permette di afferrare chiaramente come egli veda l’equilibrio tra le due dimensioni, e il lettore ha talora l’impressione di una tensione non risolta, o in tutti i casi di un bilanciamento.
La critica principale rivolta a Dreher è la difficoltà di discernere ciò che significherebbe concretamente la messa in atto di un’“opzione Benedetto”: malgrado gli esempi citati da Dreher, molti dei suoi critici hanno la sensazione che il concetto rimanga teorico e rientri nelle costruzioni astratte, pur tentando di trovare delle illustrazioni parziali nelle comunità esistenti. I suoi riferimenti agli ideali dello sviluppo benedettino sono anche criticati dal punto di vista storico. In un’analisi sia critica sia simpatizzante (The American Conservative, 19 maggio 2015), Noah Millman ritiene che il carattere un po’ sfuocato del progetto di Dreher derivi dal suo tentativo di presentarlo a cristiani di diverse confessioni: Dreher stesso aderisce alla Chiesa ortodossa, ma la maggior parte dei suoi lettori sono probabilmente cattolici o, in parte, protestanti.
Dreher si propone ora di sviluppare la sua proposta in modo strutturato in un libro, perché si tratta, per ora, di riflessioni sparse tra diversi articoli. Resta da vedere come ciò gli permetterà di sviluppare un progetto strutturato – anche se non ne ha veramente lo scopo, perché non si tratta di creare un’organizzazione, ma piuttosto d’incoraggiare una moltitudine d’iniziative di base, a partire da un’intuizione lucida e senza compiacimento.
Come ha commentato un ricercatore a proposito dei risultati di una recente inchiesta del Pew Center sul crollo di persone che s’identificano come cristiane nella popolazione americana, molto più dell’evoluzione demografica, è il crollo della religione nella società americana – a immagine di ciò che è già avvenuto in Europa – che costituisce l’elemento cruciale (Arthur E. Farnsely, «Forget the numbers. The big story is that religion has lost social influence», Religion News Service, 26 maggio 2015). Dreher condivide non soltanto tale constatazione, ma va molto più lontano nella valutazione dell’indebolimento interno del cristianesimo americano.
A mio parere, la dimensione importante del dibattito lanciato da Dreher con la Benedict Option non è tanto di sapere come tale autore preciserà la sua visione pratica: ciò che importa soprattutto è che la sua analisi della situazione e delle conclusioni da trarre tocca un punto sensibile e mette in luce delle questioni che si pongono oggi cristiani di sensibilità tradizionale non solo negli Stati Uniti, ma anche in altri Paesi di tradizione culturale e religiosa cristiana, sulle priorità e i modi d’azione da privilegiare di fronte a delle società che sembrano allontanarsi sempre più dai loro ideali.
Ciò spiega perché gli articoli di Dreher suscitano le discussioni e l’interesse dei lettori: aprono la porta a un impegno che sembra più foriero di frutti dell’azione politica nel senso più proprio del termine. Danno un senso a un impegno a lungo termine anche nel momento in cui le dighe sembrano crollare una dietro l’altra. Dando un nome a questa ridefinizione delle priorità, Dreher offre un’etichetta attorno alla quale si possono pensare i progetti più disparati e un’attitudine di fronte all’ambiente secolarizzato.
Linker ha senza dubbio ragione di ritenere che la Benedict Option e altre formule dello stesso genere attireranno sempre più l’attenzione, anche se sono probabilmente destinate a non attirare che una minoranza degli ambienti cristiani conservatori: come abbiamo visto, l’approccio non rimette soltanto in causa gli orientamenti della società secolare, ma più in profondità, la realtà del cristianesimo americano nelle sue espressioni più diffuse.
[Jean-François Mayer, États-Unis: l’«option Benoît» — des chrétiens conservateurs américains s’interrogent sur les formes de résistance et sur l’activisme politique dans une société sécularisée, 10 giugno 2015, http://www.orbis.info/2015/06/option-benoit/, trad. it. di Daniela Bovolenta]