tratto da «Le Monde Diplomatique» nr.5, maggio 2003
di James K. Galbraith
Verso la fine della seconda guerra mondiale, la conferenza di Bretton Woods, nel 1944, istituì il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e la Banca Mondiale (BM), il tallone oro e la convertibilità del dollaro a 35 dollari l’oncia d’oro. La notorietà acquisita da John Maynard Keynes con la sua critica fondamentale del Trattato di Versailles del 1919, e in seguito alle sue innovative proposte teoriche per uscire dalla Grande depressione, gli valsero l’incarico di capodella delegazione britannica.
Per il dopo-guerra, Keynes aveva immaginato un sistema in cui le grandi nazioni non sarebbero più state costrette ad anteporre il rispetto degli accordi commerciali agli obiettivi di progresso sociale, con particolare riferimento alla piena occupazione. Vedeva una felice coesistenza del libero scambio con un sistema generoso di tutele assicurato dalle istituzioni finanziarie internazionali.
Tale sistema sarebbe stato caratterizzato innanzitutto da un dispositivo di «aggiustamento dei crediti», che imponeva sanzioni ai paesi con un’eccedenza commerciale e non a quelli in deficit. Ciò avrebbe costretto i primi ad accettare una discriminazione nei confronti delle loro vendite, ovvero ad allargare i loro mercati interni per assorbire una maggiore quantità d’importazioni.
In parallelo, ogni debitore avrebbe avuto diritto ad una linea di credito in un sistema internazionale di pagamenti, incentrato su un meccanismo di compensazione e una moneta di riserva mondiale (il bancor). Un simile ordine era inaccettabile per gli Stati uniti. Nel mondo dell’epoca, dominato dalla schiacciante superiorità della loro industria manifatturiera, l’ideale americano era il «laissez faire» economico e il gold standard.
Un mezzo di pagamento internazionale che prendesse in considerazione l’interesse dei debitori era in contrasto con il pensiero di Wall Street, così come lo sarebbe per il comune mortale l’idea di affidare la direzione di una prigione ai detenuti, o quella di uno zoo agli scimpanzé. I debiti contratti oggi devono essere rimborsati domani, a qualsiasi costo.
Le finanze dei dopoguerra dovevano essere gestite dai ricchi. In fin dei conti, gli Stati uniti accettarono un FMI e una BM su basi molto più tradizionali di quanto avesse sperato Keynes, fatte salve alcune concessioni. Keynes inoltre riteneva insopportabili le condizioni imposte dagli Stati uniti per concedere un prestito alla Gran Bretagna nel 1945. In seguito, due fattori contribuirono a migliorare la situazione britannica. Il primo, legato alla guerra fredda, fu l’adozione dei piano Marshali, abbinato a un aiuto materiale e finanziario non trascurabile.
La minaccia militare che l’Unione sovietica faceva pesare sull’Europa occidentale è forse stata sopravvalutata (anche largamente), ma il modello economico e politico sovietico allora era ancora in auge. Anzi, ha dato una vera e propria frustata allo sforzo di ricostruzione dei dopo-guerra e, sul piano sociale, all’attuazione di riforme democratiche indispensabili.
Negli Stati uniti, una riforma strutturale si basò in parte sul militare, ma molto di più sui risultati di questo New Deal di nuovo genere, e (successivamente) sulle riforme sociali del programma della «grande società» (sicurezza sociale, sistema di assicurazione malattie Medicare, incentivi all’edilizia e alla scuola, acquisti a credito). Ciò modificò le abitudini di consumo delle famiglie, e trasformò gli Stati uniti in una vera e propria locomotiva keynesiana che si tirava dietro il resto dei mondo. Per un certo periodo, tale convergenza fu una realtà.
I paesi poveri ebbero un tasso di crescita più rapido dei paesi ricchi. Tale situazione venne a cessare nel corso degli anni ’70, allorché le banche commerciali ripresero il sopravvento. Ma era bastato qualche anno per dimostrare che Keynes aveva visto giusto. La «controrivoluzione barbara», per ripetere l’espressione dell’economista Walter Rostow, era già ben avviata negli anni ’80. In seguito, i cosiddetti paesi in via di sviluppo furono le prime e più sfortunate vittime dei crollo dei finanziamenti, allo sviluppo di ondate successive di instabilità speculativa e della crisi dei debito. Vent’anni dopo, quel sistema di sviluppo ancora aspetta interventi correttivi.
Il debito del Brasile. Gli affari dell’Argentina
Il Brasile rappresenta un caso emblematico. Si tratta di un paese il cui debito ammonta a 250 miliardi dì dollari, che si trova immerso in una profonda recessione e che dispone di eccedenze commerciali. La soluzione keynesiana sarebbe stata univoca: per lo sviluppo del paese, era necessario impegnarsi sulla strada della piena occupazione, pur sforzandosi di ridurre le eccedenze commerciali, grazie a finanziamenti commisurati ai suoi bisogni e apportati dai sistema di riserve internazionali.
Invece, l’attuale FMI mette a disposizione un «prestito» di 30 miliardi di dollari con la rigorosa condizione che la domanda interna continui ad essere tenuta a freno. Più che un prestito, questo è un mezzo per tranquillizzare i creditori, per il tempo necessario perché si presentino nuove occasioni per investire altrove. Il Brasile, peraltro, ha avuto diritto a questo trattamento soltanto perché si tratta di un grande paese, indebolito in maniera preoccupante dal peso dei debito e dal fatto di avere una sinistra in piena ascesa, percepita come una potenziate minaccia.
L’Argentina, paese in cui le diverse correnti politiche continuano ad essere piuttosto vaghe, ha ottenuto molto meno, anche se per gran parte degli anni ’90 era stata presentata come un modello di liberalizzazione economica, contrapposto al Brasile. In questo gioco dei quattro cantoni, una sorte analoga tocca alla Turchia: un paese impegnato in maniera esemplare sulla via della liberalizzazione crolla sotto il peso dei debito e viene «aiutato» soltanto nella misura in cui riveste un ruolo d’importanza strategica e accetta dì cooperare nella guerra contro l’Iraq. Per quanto riguarda poi la tragedia della liberalizzazione finanziaria in Russia, è cosa fin troppo nota per parlarne in questa sede.
E’ triste dirlo, ma sono pochissimi i paesi in via di sviluppo che, come la Cina, sono riusciti a districarsi con eleganza, adottando come lei politiche mercantilistiche e strategie di pianificazione. Resta da capire se la prosperità cinese resisterà alle regole cui vuole costringerla l’Organizzazione mondiale per il commercio (WTO) (e se la Cina manterrà gli impegni presi, cosa tutt’altro che certa). L’India, che ha conservato il controllo sui tassi di cambio e sui capitali, si trova in una situazione intermedia con una crescita lenta ma costante fin dai primi anni’80.
L’Europa a-sociale e i sospetti su Wall Street
E l’Europa? Si sta instaurando una sorta di super-stato economico, abbinato ad una visione pre-keynesiana dei propri mezzi e delle proprie responsabilità. Il patto di crescita e di stabilità obbliga i paesi europei a contenere i loro deficit di bilancio a un basso livello, che è lo stesso per tutti, a qualunque prezzo o quasi, soprattutto senza tener conto dei rispettivi tassi di disoccupazione (salvo in caso di recessione reale e molto accentuata) e dei loro bisogni d’investimenti. La Banca centrale europea fissa d’imperio il tasso d’interesse, in base ad obiettivi di cui è l’unico giudice (la stabilità dei prezzi ha la priorità su tutti gli altri obiettivi).
I governi delle regioni più povere d’Europa non possono prescindere da questo contesto per industrializzarsi come ha fatto la Cina. Non possono neppure contrarre prestiti per finanziare i foro contributi allo sviluppo europeo, a differenza delle città e delle Stati americani che hanno la possibilità di costituire un bilancio specifico per assicurare le proprie spese per strutture a lungo termine. E inoltre loro precluso il ricorso ai meccanismi keynesiani di stabilizzazione macroeconomia e attuare una politica di bilancio anticongiunturale se non in caso di assoluta necessità, o di svalutare per tutelare la competitività delle proprie imprese.
Di conseguenza dipendono dai trasferimenti di bilancio della Comunità. Trasferimenti certo significativi per le regioni più povere, ma insufficienti per contribuire alla stabilizzazione macroeconomia di vasti territori a basso reddito – come ad esempio la Spagna o la Grecia – per non parlare poi dei nuovi candidati all’integrazione nell’Unione europea. Tali disparità probabilmente si accentueranno vieppiù con la recessione che si profila in Europa. Al momento attuale, in questo continente, il potere dei creditori è assoluto così com’era nell’Alleanza atlantica del 1945. Orbene, il loro potere si rivela economicamente disastroso, come Keynes aveva previsto.
A differenza dell’Unione europea, gli Stati uniti sono stati meno colpiti da alcuni di questi problemi, proprio perché fino ad ora hanno potuto beneficiare di tre fattori. Lo status di valuta di riserva dei dollaro ha consentito loro di continuare a vivere comodamente, a dispetto di elevatissimi deficit di bilancio in regime di piena occupazione, e dei netto declino della loro base industriale rispetto ai primi anni ’70.
Inoltre, hanno beneficiato della loro reputazione di rifugio sicuro per investitori finanziari che desideravano sfuggire al nepotismo, alla corruzione e alla instabilità che imperversano in altre parti dei mondo (prassi peraltro spesso e volentieri incentivate dagli Stati uniti…). Infine, è bene sottolineare che i principi keynesiani fondamentali hanno guidato di fatto la politica interna americana, senza soluzioni di continuità.
La loro influenza si esercita su tre piani: l’atteggiamento pragmatico dei governo e del Congresso nei periodi di rallentamento (riduzione delle imposte); quello non meno pragmatico della Federal Reserve nello stesso contesto (ridurre i tassi d’interesse senza preoccuparsi più di tanto degli eventuali effetti sui prezzi); e un importante sistema di aiuti pubblici, che assumono sostanzialmente la forma, abbastanza efficace, di garanzie di prestito e di crediti d’imposta destinati a incoraggiare il consumo delle famiglie (in particolare per quanto riguarda l’edilizia, le cure mediche, la scuola e le pensioni). La versione Usa dei «vincoli meno rigidi di bilancio» ben noti agli studiosi dei socialismo nell’Europa dell’Est di vent’anni fa.
Tutti questi punti di forza rischiano peraltro di essere rimessi in discussione. Certo, è poco probabile che il dollaro perda da un giorno all’altro il suo ruolo privilegiato, ma potrà risentire della crescita dell’euro, dell’aggravarsi della crisi in Giappone e del discredito di cui ormai soffre la politica estera americana. Le borse valori degli USA non sono più al di sopra di ogni sospetto, stati i comportamenti criminosi di certe imprese, le frodi contabili, la perdita di efficacia delle misure di regulation e lo scoppio della bolla speculativa della tecnologia avanzata e dell’informatica. Inoltre un eccessivo decentramento ha delegato tutto un settore delle spese sociali alle autorità locali (stati e enti locali), ormai costretti a tagliare all’osso, quando la recessione in atto riduce drasticamente il loro gettito fiscale.
Se la ricchezza internazionale lascerà le coste dell’America
Basterà che la ricchezza internazionale cominci ad allontanarsi dalle coste americane e la difficoltà del paese a provvedere ai propri bisogni verrà pienamente alla luce. Ciò potrà incidere gravemente sulla domanda interna, il cui crollo andrebbe a ripercuotersi ben presto sulle esportazioni dei paesi legati al mercato americano e, di conseguenza, sulla loro capacità di rimborsare i debiti.
Una simile inadempienza avrebbe inevitabilmente ripercussioni negative sul credito e sulla reputazione delle istituzioni finanziarie americane, baluardi della finanza internazionale e del dollaro. Il rischio che si inneschi una crisi, in base a una simile concatenazione di eventi, è tutt’altro che trascurabile, anche se non sembra ancor incombente.
Se a tutto questo si aggiunge la guerra in Iraq, le tensioni e le incertezze nucleari altrove, non è certo che gli Stati uniti continuino ad essere visti come un riparo così sicuro. Ed infine, la situazione attuale degli Stati Uniti è veramente così diversa da quella che ha conosciuto il Regno unito nel 1944-1945? Non ci troviamo forse con un impegno militare eccessivo, l’erosione delle capacità di esportazione, una egemonia monetaria di lunga data che sembra in pericolo, e fin troppe illusioni sulla necessità di intervenire sulla scena internazionale?
Evidentemente, coloro che siedono nel consiglio di guerra di Washington non pensano che il loro impero da un punto di vista finanziario poggia sulle sabbie mobili. E tuttavia, anche negli Stati uniti un cambiamento rientra ancora nell’ordine dei possibile, spinto da una disillusione generale riguardo alle finalità di questa politica. Il popolo americano non è particolarmente bellicoso, e la sua pazienza nei confronti delle operazioni militari è strettamente legata al loro costo.
Preferirebbe certo ridurre il proprio esercito a un ruolo sostanzialmente difensivo, che consentirebbe di costruire l’economia degli Stati uniti su basi più pacifiche, ripristinando un quadro di accordi collettivi di sicurezza. Ma sarebbe anche necessario che la loro capacità di mobilitare le risorse in questo senso non sia ostacolata, o almeno non eccessivamente, da considerazioni di finanza internazionale.
Prevedere fin d’ora una eventualità così remota può sembrare futile. Ma se dovesse trasformarsi in realtà, gli americani e con loro i rappresentanti dei resto dei mondo avranno bisogno della visione illuminata dei cittadini dei continente europeo, che appare destinato a diventare il nuovo centro dei potere finanziario, Soprattutto bisognerà evitare, a quel punto, che gli europei ripetano l’errore compiuto nel 1945 dagli americani: dovranno guardarsi bene dall’affidare le decisioni chiave e le istituzioni di primo piano a persone che hanno una mentalità da banchieri.