L’oro di Santiago, un pellegrinaggio alle radici dell’Europa

La Nuova Bussola quotidiana 21 Marzo 2025

Nel “diario di viaggio” di Guido Verna non c’è solo un itinerario geografico: percorrendo il Camino verso la tomba dell’apostolo Giacomo, i ricordi personali si intrecciano a una memoria più ampia che trascende la storia. È un viaggio a ritroso nei secoli, così a ritroso da sconfinare nell’eterno.

di Stefano Chiappalone

È un triplice viaggio quello narrato da Guido Verna in L’oro di Santiago (Cicles, Torino 2024). In primo luogo, è un viaggio realmente compiuto dall’autore negli anni Novanta, con la sua famiglia e alcuni amici, alla volta di Santiago di Compostela, in automobile ma pur sempre sulle orme di innumerevoli pellegrini che nel corso dei secoli hanno seguito il Camino verso la tomba dell’apostolo Giacomo.

In secondo luogo, è un viaggio anche interiore, e non a caso l’itinerario parte da Pisa, anzi ri-parte sulla scia dei ricordi universitari legati alla città toscana e risalenti agli anni Sessanta. Ricordi decisivi per l’autore (e per questo libro) del tempo in cui il “sogno” di Santiago si era intrecciato all’incontro con Grazia, che sarebbe divenuta sua moglie, e con la cerchia di amici dell’allora nascente Alleanza Cattolica, tra cui un ancor giovane ma già esperto medievista come Marco Tangheroni e un cultore della Spagna come Attilio Tamburrini.

In terzo luogo, i ricordi personali si aprono costantemente a una memoria più ampia che trascende la storia: «Santiago era per noi (…) un luogo di permanenza di valori e di umanità, di gerarchia e di armonia tra il divino e l’umano, di ricerca e di conquista di sé stessi attraverso un cammino, di cristianità virile, di continuità storica, di radici».

«Era la nostra Europa», quella sognata e rivissuta dall’autore, «da Roma a Santiago, attraverso Aigues Mortes, Roncisvalle, Burgos, Leon» fino «a Finisterra (finis terrae ma anche… initium coeli)». Un viaggio a ritroso nei secoli, ma così a ritroso da sconfinare nell’eternità, che continuamente fa capolino nell’(apparente) ordinario. Tra qualche problema nella ricerca del parcheggio o nel seguire un bivio e una furtiva deviazione per assaggiare la salsiccia della montagna basca, si snoda una recherche «non di un tempo perduto, semmai dell’origine sacramentale di un tempo andato, andato troppo in fretta perché pieno, intenso». E di «quell’impronta di divino che il mondo moderno cerca di rendere massimamente inavvertibile (perché cancellarla non può)». Ma che tuttavia riaffiora visibilmente a Lourdes, «dove il matrimonio d’amore tra la Madonna e l’umanità dolente ma non disperata è celebrato incessantemente». Una “deviazione” doverosa ma che naturalmente il Camino dei pellegrini medievali non poteva ancora prevedere…

A Ibañeta si compie «il primo rituale del pellegrino sulla via di Navarra: costruire una crocetta con due pezzi di legno uniti da fili d’erba e deporla sotto una grande Croce – la Croce di Carlo – a fianco della chiesa dedicata alla Vergine di Roncisvalle; e prima di deporla, inginocchiarsi e – con lo sguardo rivolto verso la casa di Santiago – pregarlo, come fece, appunto, Carlo Magno». Innumerevoli e diversissime, quanti sono i pellegrini, le croci deposte ai piedi di quella più grande: «le nostre sono appoggiate sulla terra a marcire, l’altra è eretta verso il cielo. È la nostra realtà umana che poniamo a far da concime al nostro destino».

Da Roncisvalle a Pamplona, che «per noi, non era Hemingway, era sant’Ignazio e san Francesco Saverio». Ad attendere Ignazio a Pamplona nel 1521 c’era una palla di cannone che costrinse quel «gentiluomo che cercava guai» a «mettere la sua straordinaria intelligenza e il suo intrepido spirito cavalleresco al servizio del vero Re piuttosto che del duca di Najera o di Carlo V». Dall’impatto devastante con la gamba di Ignazio scaturì la «grande spiritualità che avrebbe dato nerbo, solidità e struttura al mondo cristiano», poiché «le vie del Signore sono infinite, ma quelle che passano attraverso i piccoli o grandi Calvari sono sempre quelle che danno i frutti più turgidi e vitali».

Quattro vie si incontrano a Puente de la Reina, e almeno altrettante lingue, «ma la sensazione non è di essere a Babele». Anzi, «proprio qui, dove le vie dei cammini si unificano definitivamente nel Camino, avverto la sensazione autentica dell’Europa unita, non che si unisce, ma che si ritrova unita». Quell’Europa plasmata in misura non irrilevante anche dagli uomini che da ogni angolo del continente confluivano verso le tre mete “classiche”: Roma, Gerusalemme e Compostella. «No, non è Babele questo ponte dove, mentre andiamo via, si continua a parlare italiano, francese, spagnolo, tedesco, perché (…) i popoli sono stati – e quindi potranno ancora essere! – “diversi nella storia, appunto perché uniti nella fede”».

La stessa “visione” ritorna nella chiesa della Virgen Blanca di Villalcázar de Sirga, ripensando «ai pellegrini che mossi solo dalla propria fede (per misurarla o per ritrovarla o per solidificarla o solo per ostentarla, fa lo stesso) si ritrovavano a gremire questa chiesa, gli uni vicini agli altri, con lingue diverse, ma in grado di capire e di capirsi, quando intonavano un Tantum ergo e odoravano l’incenso…». Ogni tappa evoca una storia ma non è mero ricordo del passato, nemmeno del giorno remoto in cui un devoto contadino di Barxamaior sfidò il freddo inverno pur di salire al Cebreiro per la Messa e fu testimone di uno straordinario miracolo eucaristico – tale da scuotere la fede vacillante del sacerdote, stizzito all’idea di celebrare per quel solo fedele presente. «La cerca del Graal, per chi ha il cuore e la mente del contadino di Barxamaior, non è avventura da Indiana Jones: basta ascoltare la campana ed entrare nella chiesa più vicina».

È tempo però di affrettarsi verso Santiago, lasciando al lettore le tappe e le riflessioni intermedie (e anche quelle successive, sulla via del ritorno…), per portare a compimento il pellegrinaggio con il rituale abbraccio alla statua del Santo, sulle cui spalle si poggiano senza sosta «mani di uomini e donne, di anziani e di giovani, di una umanità che chiede una grazia o che ringrazia per averla ricevuta, ceri accesi ed ex voto viventi». Insieme all’apostolo Giacomo c’è la statua di maestroMateo, l’artefice del Portico della Gloria, dove «le pietre, plasmate e organizzate da un uomo, hanno luce propria, senso teologico profondo, da tutti comprensibile e, quindi, da tutti ammirabile e amabile. (…) È la memoria architettonica di un tempo che fu, certo, ma è anche il promemoria di un tempo che potrà essere ancora».