«Di don Luigi Sturzo è in corso la causa di beatificazione, lo lo proporrei anche per il Nobel per l’economia» lo ha scritto il Presidente dello IOR (Istituto per le Òpere di Religione) in un articolo pubblicato su II Sole-24 Ore il 29 aprile scorso. Ricordiamo che dal 1905 al 1920, alla guida amministrativa di Caltagirone, don Sturzo non fece altro che applicare i principi della dottrina sociale della Chiesa. «Questa dottrina – sostiene Gotti Tedeschi – può rappresentare la terza via tra capitalismo e socialismo».
di Ettore Gotti Tedeschi
Si ricordi solo che fino all’inizio degli anni 90 il peso dell’economia, direttamente e indirettamente gestita dallo Stato, era dominante (si stima intorno al 60% del Pil), inefficiente e deficitario. Le necessarie privatizzazioni e liberalizzazioni (per entrare nell’euro) si sono quindi rivelate difficili e persine indebolenti il sistema. Ciò perché, come don Sturzo insegnava, in un sistema troppo statalista e assistenzialista, l’iniziativa privata stenta a crescere se non trainata dalle imprese statali. Stenta anche a nascere l’imprenditore privato in grado di assorbire le privatizzazioni in termini di reciproco beneficio (Stato e imprenditore).
Così il passaggio tra il pubblico e il privato (soprattutto per le grandi imprese e le banche) diventa un problema. Come è successo. In queste condizioni il rapporto tra classe economica e politica resta ancora stretto (finanziariamente soprattutto) e difficilmente “slegabile”. Economia di mercato “disordinata”; classe dirigente troppo implicata in economia; popolazione illusa e viziata da un benessere insostenibile; imprenditoria privata mortificata; idea della politica soccorritrice in economia sbagliata; risparmio illuso dalle remunerazioni “artificiali” in titoli di Stato ad altissimo rendimento per raccogliere sottoscrizioni; conseguente crollo dei rendimenti e dissipazione del risparmio alla ricerca di investimenti alternativi (ad alto rischio, tipo bond argentini), eccetera.
Ecco le conseguenze dello “statalismo interrotto” che così tanto allarmava don Sturzo. Per non ricordare la crescita conseguente della spesa pubblica e la conseguente crescita del peso delle imposte sul Pil che peggioravano sempre più la situazione. E spesso con la scusa insostenibile di salvare l’occupazione e rafforzare lo Stato sociale. E quando, grazie al crollo dello sviluppo reale, conseguenza del crollo delle nascite, i costi fissi del Paese esplosero, crebbero ancor più la spesa pubblica e le tasse sulla ricchezza prodotta (quasi raddoppiando in trent’anni).
Ma oltre a questo si creò confusione sui valori cristiani, confusi in altre ideologie e negli stessi principi di ordine sociale. Per questi principi cristiani originali, l’ordine è adattare i mezzi ai fini, non sprecare le risorse, produrre uno sviluppo non solo materiale, distribuire la ricchezza. Non solo è avvenuto il contrario, ma si è persine messa in discussione la possibilità di realizzare la dottrina sociale di mercato proposta dalla Chiesa.
Questa dottrina, come intuì Einaudi, poteva rappresentare la terza via tra capitalismo e socialismo, in grado di assicurare la libertà personale con la necessaria sussidiarietà. Ma per realizzarsi non poteva coesistere con uno Stato avido in economia. Così oggi non dovremmo meravigliarci della conseguente debolezza competitiva del Paese nel mondo globale. E neppure delle opportune manovre economiche necessarie per correggere errori e ristabilire, quanto possibile, criteri seri di bilancio.
Scriveva don Sturzo: “Statalismo è disordine, disarmonia, sopraffazione, violazione della personalità umana, rottura dell’organismo statale. Statalismo non è lo Stato, ma contro lo Stato”. E ancora: “L’Italia, se continua la finanza spende-reccia di oggi ne sentirà ben presto gli effetti” (23 gennaio 1959, tratto da “Attenti ai mali passi”, opuscolo edito dal C.I.S.S. – 2011).
Di don Luigi Sturzo è in corso la causa di beatificazione. Io lo proporrei anche per il Nobel per l’economia