“Decrescita serena, pacifica e solidale”, “la felicità con meno”, “decrescere per reincantare il mondo”: sono alcuni degli slogan forgiati da chi, non più pago di uno “sviluppo sostenibile”, vede nella diminuzione delle attività umane l’unico modo per preservare il pianeta e sottrarre l’umanità a un destino di guerre sempre più cruente
di Anna Bono
Il modello di sviluppo occidentale – spiega ad esempio il sito web Decrescita – è “ecologicamente insostenibile, ingiusto e incompatibile con il mantenimento della pace; la decrescita (…) è l’orizzonte di un’altra economia: pacifica, sostenibile e conviviale, in altre parole felice”.
La vera sfida, secondo questa visione della realtà, è “come sopravvivere allo sviluppo”.
Intanto, però, centinaia di milioni di persone rischiano la vita perché vivono in paesi che non riescono a superare i limiti delle economie di sussistenza e a passare a economie industriali e di mercato. Molti di quelli africani, anzi, stanno subendo gli effetti di una decrescita economica.
Lo Zimbabwe, ad esempio, per decenni è stato una delle più prospere e promettenti realtà economiche del continente. Con la decrescita causata dalle politiche economiche suicide del suo presidente Robert Mugabe, culminate con l’esproprio della maggior parte delle fattorie che producevano per il mercato interno e internazionale, la speranza di vita alla nascita è scesa da 65 a 37, forse addirittura 34 anni, la mortalità infantile è aumentata del 60% e la mortalità materna è una delle più alte del mondo: 1.100 casi su 100.000 bambini nati vivi.
Di peggio succede soltanto in Sierra Leone, dove a morire per gravidanza e parto sono 1.800 donne, e nella Repubblica Democratica del Congo, dove ne muoiono 1.300: ma in entrambi i casi va messo in conto il danno di guerre civili feroci terminate da poco e, nel caso del Congo, non su tutto il territorio nazionale, mentre in Zimbabwe non si sono verificati conflitti dopo i primi anni di governo di Mugabe, al potere dal 1986.
Adesso si prospetta una recessione di portata mondiale. Se questo accadrà, anche i protagonisti delle lotte per abbattere il modello occidentale di sviluppo e “reincantare il mondo” vivendo con meno ne sperimenteranno le conseguenze e può darsi che non lo apprezzeranno. Forse allora capiranno che la loro società ideale, che prende a modello le economie di sussistenza preindustriali, è tutto fuorchè serena, pacifica e conviviale
A farglielo capire sarebbe dovuta bastare la crisi alimentare causata dall’aumento del prezzo dei generi alimentari di base verificatosi negli ultimi mesi. Ma così non è stato. Al contrario, questa emergenza ha indotto illustri e purtroppo influenti personaggi del mondo intellettuale, politico e associazionistico a riproporre le economie di sussistenza come soluzione ai bisogni dell’uomo e le comunità che le praticano come modello perfetto di tutela dei suoi diritti fondamentali.
Jean Ziegler, ad esempio, ex relatore ONU per il diritto all’alimentazione, ora divenuto esperto del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, è fermamente convinto che l’errore principale, all’origine degli attuali problemi, sia da ricercare nelle disposizioni del Fondo monetario internazionale che hanno costretto a sacrificare l’agricoltura di sussistenza alla produzione per il mercato.
Dello stesso avviso sono numerose organizzazioni non governative e associazioni che operano nel campo dell’assistenza umanitaria. Quelle che hanno aderito al Forum alternativo al Summit della FAO sull’emergenza alimentare, svoltosi a Roma nel giugno 2008, ritengono che a rovinare l’economia mondiale sia stato il tentativo di industrializzare le attività agricole, ittiche e pastorizie: “Rifiutiamo l’agricoltura industrializzata – si legge nel documento finale del Forum – come la ‘rivoluzione verde’ e la ‘rivoluzione blu’ per la pesca…
Tutto ciò che ha distrutto l’agricoltura in piccola scala e le pratiche di pesca tradizionali”. Nei dibattiti a margine del Summit FAO, il gesuita economista Soosai Arokiasamy ha addirittura sostenuto che, prima delle politiche economiche imposte dalla Banca Mondiale e dal Fondo monetario internazionale, l’India aveva l’autosufficienza alimentare, mentre oggi i contadini spesso si suicidano per la disperazione.
Ad alimentare simili convinzioni è essenzialmente l’ideologia antioccidentale. I programmi che spiegano le ragioni della ‘decrescita’ contengono sempre apprezzamenti alle società arcaiche, in particolare quelle tribali africane, e rammarico per i danni arrecati dalla colonizzazione europea prima e dalla globalizzazione poi alle loro economie e ai loro sistemi di valori: vi si parla di naturale, originaria abbondanza di risorse compromessa e si individua nell’ “ideologia del progresso” la vera causa della povertà attuale accreditando così il mito di un’ “Africa felix” precoloniale, l’epoca precedente all’impatto con l’Europa quando, secondo questa ricostruzione della loro storia, gli africani non mancavano di nulla, vivevano in pace ed erano in armonia con la natura.
Non si contano i saggi celebrativi delle società africane tradizionali, nessuno dei quali si sofferma sul carattere assai poco idilliaco di ciò che ne rimane, se non per attribuirlo, appunto, alle distorsioni prodotte da un estraneo modello di sviluppo e dalla spoliazione attuata dalla globalizzazione.
Eppure oggi la resa delle economie di sussistenza – sia di quelle tradizionali, rurali, sia di quelle moderne, nate in contesti urbani e note sotto l’espressione “settore informale” – non è sufficiente a garantire standard di vita ormai considerati diritti irrinunciabili: istruzione scolastica, prevenzione delle malattie e cure mediche, mezzi di trasporto sicuri, case ben aerate e luminose, dotate di acqua corrente potabile e luce elettrica…
Quando il clima è avverso o una qualsiasi disgrazia colpisce una famiglia, può venire meno anche il necessario a sfamarsi e sopravvivere.
Inoltre alle economie di sussistenza si associano società autoritarie, patriarcali e gerontocratiche all’interno delle quali i diritti dipendono dagli status e gli status a loro volta sono in prevalenza ascritti: essenzialmente determinati da sesso, anzianità e posizione gerarchica della famiglia di nascita all’interno della comunità d’appartenenza. Vi manca il concetto di persona e con esso la convinzione che esistano diritti inerenti alla condizione umana, quindi inalienabili e universali.
Ne derivano violenze e discriminazioni istituzionalizzate che contribuiscono a rendere tutt’altro che serena l’esistenza.
Neanche la pace è garantita dalle economie arcaiche. La loro scarsa produttività fa si che la guerra di conquista e a scopo di razzia ne siano fattori strutturali: vale a dire, costanti e persistenti, non occasionali e marginali. Le comunità incapaci di produrre risorse in abbondanza si contendono quelle disponibili (pascoli, terre fertili, acqua; oggi, nelle città, il monopolio delle attività più redditizie del settore informale…) e integrano la scarsa e irregolare produzione di beni rubando quelli altrui (un tempo raccolti e bestiame; oggi, inoltre, merci di ogni genere, da consumare e rivendere).
In fin dei conti, le economie di sussistenza non garantiscono nemmeno l’armonia con la natura. Si scambia per tale l’impotenza dell’uomo dotato di tecnologie rudimentali.
L’integrità dell’ambiente è tuttavia minacciata da uno sfruttamento che trova il suo limite appunto nell’impotenza umana, ma che è riuscito ciononostante a produrre nei secoli e nei millenni desertificazione ed estinzione di specie animali, cacciate fino all’ultimo esemplare per farne cibo, abiti e ornamenti.