A Mosca, nel reliquiario del comunismo: manoscritti, poltrone, bombe vietcong
Armando Torno
Il mausoleo che la ospita è chiuso sino al 18 aprile e quindi c’è tutto il tempo per verificare lo stato di conservazione del cadavere e per confezionare alla salma un vestito nuovo (impegno cui si dedicano periodicamente i migliori sarti di Mosca). Del resto, le sostanze utilizzate per la mummificazione distruggono la stoffa. Lenin ha ancora le guardie del corpo, giacché l’illustre defunto è stato posto sotto controllo dal Vilar, il “Centro studi e laboratorio di ricerca delle nuove tecnologie biomediche”, il cui vicedirettore, Yurij Denisov-Nikolskij, ha dichiarato: “È in perfetto stato di conservazione e, con tutte le norme prescritte e osservate, potrà stare nel mausoleo per altri 100 anni, se non più”.
Nel 1932 Stalin voleva trasformare questa tomba sulla Piazza Rossa in un grande reliquiario comunista, aggiungendo alla mummia di Lenin oggetti significativi della storia rivoluzionaria, che già dagli anni ’20 si stavano raccogliendo in tutto il mondo grazie al volontariato ma anche con acquisti alle aste o presso antiquari. Si voleva porre, ad esempio, accanto alla cara salma la bandiera dell’ultimo battaglione che combattè sull’ultima barricata della Comune di Parigi del 1870, ma i tecnici convinsero Stalin a desistere: temevano che molte spore, trasportate dai nuovi cimeli, potessero entrare nel mausoleo recando danni irreparabili alla reliquia maggiore.
Oggetti, carte e documenti si accumularono comunque in altre sedi. Così, già negli anni ’20 era operante un archivio per conservare le carte originali di Marx e di Engels; si diede vita ad altri musei dedicati alla Rivoluzione d’ottobre o a Lenin e nel maggio 1962 si aprì anche il “Museo Marx-Engels” per dar spazio ai moltissimi materiali raccolti. In esso c’era la poltrona dove Marx morì o quella su cui scrisse Il Capitale (entrambe comode, perché soffriva di foruncoli ai glutei a causa della cattiva dieta, come si evince dalle lamentele conservate in alcune lettere); c’era il ricordato servizio da tè, porcellane decorate dalla figlia, lo studio ricostruito, fotografie, ritratti, altro. Nel 1988, per consentire dei lavori all’edificio che era parte del Pcus, tutti questi oggetti-reliquia furono trasportati nell’allora “Archivio Marx-Engels-Lenin”. Impacchettati, catalogati e ammassati, lì furono colti dal crollo dell’Urss nell’estate 1991. E lì sono ancora.
Chi scrive è riuscito a visitare il bunker dove sono custoditi i manoscritti di Marx e Engels; quindi, grazie all’antico direttore del Museo che porta il nome dei padri del comunismo, Lev Nicolaievic Vladimirov, ha visto e fatto fotografare alcuni degli oggetti intimi della famiglia Marx; infine è entrato nell’inaccessibile deposito dei cimeli accumulati dalla gioventù comunista sovietica, finiti anch’essi qui. Ma vediamo le cose con ordine.
Tutte le raccolte citate si trovano in un unico edificio, ora chiamato “Archivio di Stato Russo per la Storia politica e sociale”. Siamo ricevuti dal direttore Kirill Anderson. Ci presenta il dottor Valerij Fomiciov, che parla un eccellente tedesco e che da oltre 36 anni è il custode dei manoscritti di Marx e di Engels, ma anche di centinaia di migliaia di documenti riguardanti la storia sociale e le rivoluzioni.
Gli chiediamo chi è stato l’ultimo italiano che è entrato nel bunker sotterraneo (doppia porta blindata tipo sommergibile; pareti, soffitto e pavimento con l’anima in acciaio; armadi in ferro) e la risposta non si fa attendere: “Ero appena arrivato, quando alla fine del ’68 o all’inizio del ’69, qui venne Giangiacomo Feltrinelli. Fece un rapido giro, non si soffermò sui manoscritti”. Poi nessun altro del nostro Paese; dei restanti pochissimi: quasi nessuno in periodo sovietico, soltanto i pronipoti di Marx e rari studiosi, tanto che si potrebbero contare sulle dita delle mani.
Chiediamo di vedere qualche esempio della scrittura di Marx, soprattutto quella rapida. In essa saltava le vocali e scriveva in più lingue, russo e parsi comprese. Fomiciov estrae un quaderno del 1857 e ci accorgiamo che qualche passo è in antico tedesco; poi un libro russo sulla classe operaia con fitte note in margine. Quindi opuscoli, pagine sparse, rapporti della polizia prussiana con ritagli di giornale, notazioni ebraiche.
C’è da perdersi, sino a quando ci viene mostrato un album di famiglia ancora inedito: in fondo gli autografi dei visitatori dei Marx (c’è Heine e una firma indecifrabile potrebbe forse essere quella di Mazzini) e cose di famiglia: i desiderata, le letture, i dagherrotipi. Una pagina spetta al cane Whiskey (così è stato trascritto filologicamente).
L’album verrà pubblicato tra qualche mese e presentato a Berlino il prossimo maggio. Ma non ci accontentiamo e chiediamo se c’è il documento sul figlio che Marx ebbe dalla domestica Helene e che mai riconobbe, tale Friedrich Demuth, divenuto poi attivista e leader dei laburisti inglesi. Fomiciov sorride e risponde: “Le farò vedere qualcosa di unico”. Estrae un foglietto anch’esso inedito che reca la scrittura a matita blu di Stalin.
Sopra una comunicazione del 1° gennaio 1934, dell’allora direttore dell’Archivio Adoratskij che informava il dittatore dei documenti relativi a quell’amore ancillare, il piccolo padre scrisse: “Compagno Adoratskij è una cazzata. Lascia questo materiale d’archivio sepolto ben bene”. La firma e la data: 2 gennaio 1934 (la traduzione si deve a Viktor Gajduk, professore all’Università di Mosca e già accademico dell’Urss, che era con noi).
Dal bunker saliamo nella soffitta blindata per vedere, tra l’altro, lettere di Voltaire, di Feuerbach, di Fichte e di Hegel, opuscoli di Babeuf, manoscritti di Rousseau, processi della rivoluzione francese e una copia originale della Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America. Vi sono numerosi documenti della Repubblica napoletana del 1799, nonché carte di Mazzini e Garibaldi, né mancano chicche sulle Cinque Giornate di Milano o missive per la “Giovine Italia”.
Molte cose nostre sono sepolte qui e Fomiciov ci ricorda che Giorgio Candeloro (autore della Storia dell’Italia moderna in 11 volumi, uscita da Feltrinelli tra il 1956 e il 1986, tradotta in russo) non ebbe il permesso di entrare. Come sono arrivati nell’Archivio documenti preziosi in quantità così abnorme? Stalin, per dirla in breve, diede ordine di comperare tutto quanto avesse anche un vago sapore rivoluzionario.
Abbandoniamo a malincuore queste carte e scendiamo nelle stanze dove sono accatastati gli oggetti appartenuti ai padri del comunismo. La curatrice Svetlana Kotova (buono il suo inglese) ci mostra il binocolo da teatro della famiglia, il tagliacarte, i medaglioni con i ritratti, poi il portafogli personale di Marx (con ricamata la parola “Unite”), il suo bocchino per sigari, quindi il fiocco che indossava e che fu ricavato dalla ricordata stoffa di quell’ultima bandiera dell’ultima barricata della Comune.
Il direttore del vecchio museo Lev Nicolaievic, lì presente accanto alla signora, ci ricorda che “questo fiocco fu portato nello spazio a bordo del Soyuz”, ma gli astronauti Komarov, Egorov e Feoktistov partirono salutati da Kruscev e al loro ritorno trovarono Breznev. Non manca la coppia di pistole di Ferdinand Lassalle, il teorico della “legge bronzea dei salari”: malauguratamente una delle due l’ha ucciso perché finì i suoi giorni in un duello (se ben ricordiamo, lasciò il primo colpo all’avversario…).
Un ritratto del giovane Marx, eseguito all’Università di Bonn da un compagno di studi, ce lo mostra imberbe; chiediamo anche dell’ultima sua foto, scattata senza barba, ma non riceviamo risposta. Troppe cose e tutte accumulate. Su un armadio c’è il modellino della casa di Treviri, sparsi qua e là busti e ritratti. Visite italiane? Risponde Lev Nicolaievic: “Dopo il 1988, ovviamente, nessuna. Prima mi ricordo di una delegazione del Pci guidata da Luigi Longo”.
Scendiamo infine – è di nuovo con noi Fomiciov – nel deposito dove sono accatastati gli oggetti dei giovani comunisti sovietici, i Komsomol. Scudi, busti, armi, simboli, di tutto un po’. In un armadio sono ammonticchiati fucili di varie guerriglie (anche quello dei cecchini che difesero l’Urss), qualche machete cubano (uno è dei rivoluzionari messicani); sparse qua e là lance africane, maschere orientali, falci e martelli in ogni materiale, modellini di trattori dei piani quinquennali e di carri armati o di autocarri che portarono i viveri al popolo in lotta, fusoliere di bombe americane inviate dai Vietcong, stiletti con cui si è soppresso un traditore, scuri, accette, sciabole, persino dischi della scomparsa Repubblica Democratica Tedesca. Certo, non è una raccolta pacifista, ma chi scrive ricorda quanto veniva scandito in qualche manifestazione non molti anni or sono: “La lotta di classe non è violenza”.
Si esce storditi. Accanto all’Archivio, percorrendo la via Tverskaja che va verso il Cremlino, c’è un’altra reliquia ma di diverso valore: il granito rosso di Carelia che fa da zoccolo a molte case del periodo staliniano, anche di quella dove abitavano i fisici che collaborarono ai progetti per l’atomica sovietica, tra cui il nostro Bruno Pontecorvo. Fu un dono del popolo finlandese a Hitler per costruirsi un monumento sulla Piazza Rossa. Ma i tedeschi non riuscirono a entrare a Mosca e i blocchi furono abbandonati alle porte della città. Oggi sono una decorazione.