di Gianfranco Morra
Concluso ormai il tormentone delle celebrazioni ufficiali, è possibile chiedersi che cosa gli storici ci abbiano rivelato sulla cosiddetta «unità d’Italia», 150 anni dopo. Celebrazioni strane, che hanno mostrato proprio ciò che si voleva tenere nascosto: che l’Italia, in quel lontano 1861, più che unita, fu unificata o, meglio, occupata con un misto di aggressione e di golpe.
Se c’è stato un reale guadagno nella pubblicistica che ha accompagnato le celebrazioni, è stata la caduta dell’enorme, retorico e oleografico mito del Risorgimento: che era stato alimentato prima dalle caste politiche laiciste del nuovo Regno, poi assunto dai fascisti e insieme dagli antifascisti partigiani: le due parti della guerra civile, dalle quali è scaturita «la morte della Patria», singolarmente unite nel definirsi, l’una contro l’altra, «secondo Risorgimento» (e, dato che entrambe erano ideologie totalitarie, non senza ragione).
Naturalmente ciò non è accaduto senza eccessi e banalizzazioni. Non poche opere, spesso più giornalistiche che scientifiche, hanno capovolto il «bene» del Risorgimento nel suo contrario: tutto sbagliato, falso, criminoso.
L’incensazione della vulgata risorgimentale è stata sostituita dalla demonizzazione del Risorgimento. In primo luogo al Nord, per opera del mascherato secessionismo padano, stimolato dalla convinzione dei nordisti di essere il motore della nazione, contro la «palla al piede» del Sud sottosviluppato e la «Roma ladrona» dei politici e dei burocrati. Ma anche nel Meridione, dove pure stanno nascendo leghe separatiste, su basi vittimiste e rivendicative. Prove ulteriori che l’unità, in senso forte, non c’è stata e che, anzi, il Risorgimento non ci ha dato una sola Italia, ma ce ne ha date due, che convivono con difficoltà.
Le due Italie
Per fortuna abbiamo avuto anche opere di sicura dottrina ed equilibrio. Frutto di lungo studio è la vasta e documentata analisi di Massimo Viglione, 1861. Le due Italie. Identità nazionale, unificazione, guerra civile (Edizioni Ares, Milano 2011, pp. 424, euro 20). Essa offre un affresco vivace e coraggioso delle vicende italiane, a partire da quel 1796, quando il giovane Bonaparte scese in Italia.
Con l’appoggio dei «collaborazionisti giacobini», quasi tutti appartenenti alla nobiltà e all’alta borghesia, ma contro la volontà del popolo italiano. Come mostrarono le numerose «insorgenze», ossia la lotta «partigiana» contro l’invasore. Fu, quella, la prima guerra civile italiana, alla quale ne seguiranno altre: quella tra laicisti e cattolici nel nuovo Regno, tra piemontesi e «briganti» nel Sud, tra fascisti e antifascisti nel 1920 e dopo il 25 luglio 1943.
Viglione ci aiuta così a riflettere su una domanda «impertinente»: in che misura i totalitarismi e le lotte civili e anche terroristiche della nostra storia sono, almeno in parte, figli del Risorgimento? Dunque l’Italia era stata occupata, ma non unificata. Anzi, ne erano nate due: quella che contrapponeva Nord e Sud, ma anche cattolici e laici: solo in Italia l’unità della patria (o qualcosa di simile) è stata ottenuta combattendo contro la religione degli italiani. Che era l’unico cemento dell’unità, in un Paese che non aveva mai avuto uno Stato nazionale.
Accadde così che gli italiani persero la loro identità nazionale, che era quella cattolica e che aveva consentito in tutto il mondo di usare la parola «Italia» per definire molto di più di una «espressione geografica» (Metternich) priva di unità statuale. Il paradosso italico fu appunto questo: mentre dovunque la formazione della nazione precede l’unità dello Stato, da noi avvenne il contrario.
Lo Stato nacque sulle ceneri della nazione. Come aveva capito D’Azeglio: fatta l’Italia (Stato), bisognava fare gli italiani (Nazione). Una speranza in gran parte delusa. Convincente la conclusione di Viglione: «Con il Risorgimento nasce lo Stato Italiano, non però la nazione italiana, classica, cattolica, romana, universale. Il Risorgimento è stato invero proprio la negazione di tutto questo: è stato fatto contro la Chiesa, contro l’idea universale di Roma, senza rispettare, anzi abbattendole, le tradizionali realtà locali esistenti nella Penisola, riducendo tutto al Piemonte e al suo re. E questo senza alcun consenso popolare» (p. 322)
Le pagine di Viglione, animate da una schietta e generosa sensibilità cattolica, potranno talvolta apparire, per il loro tradizionalismo, non prive di qualche parzialità. Ma sappiamo che nella ricostruzione dei fatti storici non si raggiunge mai l’uniformità di giudizio. Di certo egli sottolinea opportunamente eventi drammatici e anche criminosi, sui quali la storia scritta dai «vincitori», cioè la vulgata risorgimentale, aveva imposto il top secret il settarismo utopista, la guerra alla Chiesa cattolica, i brogli elettorali dei plebisciti «bulgari» (vi votò il 2% degli italiani), la miopia «piemontesista», il fiscalismo esasperato, la spoliazione di tutti i beni religiosi e sociali della Chiesa, con criminose distruzioni di opere d’arte, la discriminazione dei cattolici nei concorsi pubblici, l’emigrazione, che portò all’estero sino a 15 milioni di italiani — ma allora, questa unità, che cosa aveva saputo dare al popolo, soprattutto al Sud?
Viglione si sofferma anche sulla repressione del cosiddetto «brigantaggio», ossia sulla guerra decennale che impegnò 120 mila soldati e costò non meno di 50.000 morti, più di quelli caduti in tutte le guerre di indipendenza. Egli documenta le violenze e i genocidi nel Sud, compiuti dai generali piemontesi, a partire dal Cialdini. Basti, nello stesso anno della proclamazione del Regno, la rappresaglia di Pontelandolfo e Casalduni (Benevento): paesi incendiati e distrutti, 400 cittadini uccisi, violentate le donne, alle quali si tagliarono orecchie e mani per impossessarsi dei gioielli (crudeltà ben maggiore di quella delle Fosse Ardeatine).
Inventare la Nazione, fare lo Stato
Un bilancio disastroso, dunque? Anche, ma Viglione è storico troppo onesto e acuto per non riconoscere che l’unificazione, se fatta diversamente, sarebbe potuta essere un bene: «Non è in discussione l’unità d’Italia. Anzi, il desiderio è quello di indovinare finalmente la vera strada dell’unità morale e civile degli italiani» (p. 328). Sappiamo, insieme con Croce, che la storia, una volta accaduta, non ammette quel «se invece» della storiografia, che affascinava Pascal («il naso di Cleopatra»). Ma questo «se» è pur sempre utile per orientare un popolo al suo futuro di Nazione e di Stato.
Nessuno vuole il ritorno al mosaico dei sette Stati, anche se non pochi di essi erano meglio governati del Piemonte, né allo Stato Pontificio, oggi considerato anche dai Papi un anacronismo. Per gli italiani di oggi tutto ciò significa riscoprire quella tradizione cattolica, senza la quale la Nazione italiana non è neppure pensabile. E riorganizzare lo Stato in chiave meno centralista, dando spazio al regionalismo non secessionista e al municipalismo non campanilistico, come proponevano quei cattolici che volevano l’unità del Paese, ma in chiave di forti autonomie territoriali (Gioberti, Rosmini, Minghetti, Ventura, Sturzo).
Non si tratta di rifiutare né la Nazione né lo Stato. La prima va inventata, o almeno riscoperta, dato che di sentimento nazionale non molto ce n’è rimasto in giro e forse ce n’era più prima della unificazione; e il secondo va creato, dato che vediamo più statalismo che Stato, con una guerra per bande che coinvolge oggi tutte le istituzioni.
L’Italia (dis)unita
Ma che cosa, di questa imperfetta unificazione, permane ancor oggi, creando al nostro Paese problemi così ardui? È il tema dell’opera L’Italia (dis)unita (Longanesi, Milano 2011, pp. 190, euro 15). Si tratta di un’intervista a due voci: Sergio Romano, noto editorialista del Corsera, e Mare Lazar, docente universitario francese, assai esperto di storia italiana. Lo scopo del libro non è di esprimere un giudizio sull’unificazione, ma di riflettere sull’attuale situazione italiana in tutti i suoi aspetti (economico, politico, amministrativo, sociale, culturale) in una continuità storica che parte da quel 17 marzo 1861, quando fu proclamato il Regno d’Italia.
Un’opera apprezzabile non solo per la competenza dei due autori, ma anche per le modalità della discussione e dell’esposizione: lontane da ogni rigidità accademica, più vivaci che dotte, meno scolastiche che giornalistiche. Un instantbook sull’Italia oggi, non «del» Risorgimento, ma «dal» Risorgimento.
Entrambi gli autori si riconoscono nell’area laica, più in quella liberale il primo, in quella progressista il secondo. Ma di entrambi i giudizi sono, in genere, equilibrati e realistici. Il paradosso del 150 anniversario è subito definito da Romano: «Non sappiamo esattamente che cosa celebrare» (p. 9). Dal Risorgimento è uscito soprattutto uno Stato, non troppo bene organizzato, di fronte al quale permaneva, per dirla col Galasso, Una nazione difficile.
L’unità della Patria fu, come è nel titolo «verdiano» del libro di Lucio Villari, Bella e perduta. Ma ciò non consente un giudizio totalmente negativo sul processo risorgimentale, né giustifica quelle tendenze secessioniste che la Lega Nord attribuirà ai popoli della sua creazione geografica, la «Padania» (che invece, vedi caso, fu proprio la zona d’Italia che più contribuì all’unificazione).
Proprio le recenti ricerche rivelano che il sentimento nazionale, dopo l’ubriacatura nazionalista del fascismo e la conseguente ipnosi della democrazia, rivela un certo revival. Non ne mancano prove, non solo quelle ovvie, ma anche effìmere, dello sport nazionale: l’orgoglio per la moda italiana, per il design, per la gastronomia e, non ultimo, il risveglio di interesse per la Chiesa, che certo è una istituzione universale, ma anche romana (solo l’Italia ha a Roma due capitali in una sola città). Ha ragione Romano: «Dov’è l’identità italiana senza il cattolicesimo romano? Paradossalmente l’Italia comincia a perdere la sua importanza culturale dopo l’Unità» (pp. 83, 149).
Nord, Sud & altro
Un’Italia, dunque, unita e disunita. Soprattutto per la mancata soluzione della questione meridionale, che ancor oggi contrappone il Nord modernizzato, che chiede il federalismo fiscale perché ne avrebbe i massimi vantaggi, e il Sud ancora in via di sviluppo, che vuole mantenere l’assistenzialismo. Un’Italia che ha scarso interesse per la politica, ma poi rivela un tasso di partecipazione elettorale più alto di molti a Paesi europei. Che soffre per l’arretratezza e il clientelismo dei servizi, ma esprime in alcune regioni una burocrazia meritocratica e un servizio sanitario di eccellente livello.
Altri settori paiono più zoppicanti: una magistratura lenta e corporativa, portata talvolta a porsi come autorità sacerdotale, morale e pedagogica, anche a scapito del diritto; un sistema pensionistico insostenibile, dei trasporti ancora arretrati, triste eredità dell’errore fatto negli anni Sessanta di privilegiare l’industria automobilistica sul trasporto ferroviario; l’incapacità di adeguare trasporto aereo alle nuove esigenze; il «livellamento in basso» i scuola e università, due «supermercati» che ancora non sono riusciti a coordinare la necessari istruzione di massa con le dovute selezione e meritocrazia. Insomma, sia Romano sia Lazar non fanno di ogni erba un fascio anche se il francese si mostra più ottimista dell’italiano.
La «leggenda nazionale», fortunatamente, è caduta, ma di «memorie storiche condivise» ce ne sono ancora. Di problemi il nostro Paese ne ha ancora tanti, ma un confronto con altri Paesi europei non ci pone proprio all’ultimo posto. Anche se la difficile (dis)unificazione ha fatto prevalere una mentalità pericolosa, quella di chi chiede tutto allo Stato, ma poi «di italiani disposti a fare sacrifici per il Paese ce ne sono pochi» (Romano, p. 183).
A 150 anni dalla Unità d’Italia il bicchiere è, dunque, mezzo pieno e mezzo vuoto. Ma nel bicchiere c’è oggi un vino migliore che nel passato, come cavallerescamente ammette Mare Lazar: «Bisogna riconoscere che i vini italiani hanno conosciuto un progresso straordinario e sono vincenti sul mercato internazionale, dove i vini francesi sono un po’ in difficoltà» (p. 172).