Intervista a mons. Luigi negri, vescovo di San Marino. Che ricorda le ragioni che hanno diviso gli italiani, durante e dopo l’unificazione. Sono motivi culturali, perché riguardano i fondamenti della vita civile
di Roberto Beretta
Diciamo la verità, monsignor Negri: parlar male di Garibaldi si può, o magari si deve; ma deprecare l’unità d’Italia, con gli attuali chiari di luna pseudosecessionisti non sembra la cosa migliore, soprattutto per i cattolici. O no?
«Certo, bisogna cercare di evitare i cortocircuiti di carattere politico; ma il problema per me si pone a un livello fondamentalmente culturale. È ormai indubbio, difatti, che l’unità d’Italia è stata fatta male, e questo è un giudizio storico che non proviene solo dai presunti “nostalgici” papalini: Ernesto Galli della Loggia, che non è del tutto delle nostre parrocchie, ha sottolineato più volte come l’unità italiana sia stata sostanzialmente un fallimento. Si è tentato cioè di sovrapporre, a una cultura di popolo fortemente radicata e che aveva avuto nella storia varie modalità per influire nella società, un’ideologia laicista, anticatto-lica, progressista, illuminista che la gente ha sempre sentito estranea; per questo gli italiani hanno assistito solo dai margini a un cambiamento che la classe dirigente definiva invece “epocale”».
Insomma, fatta l’Italia non sono stati fatti gli italiani… Ma basta per screditare l’unità?
«lo non sostengo che l’unità d’Italia non si dovesse fare: c’erano anzi ragioni economiche e politiche e sociali che rendevano plausibile, anche auspicabile tale sbocco; ma fu scelta una strada troppo veloce e soprattutto violenta per realizzarla. Abbiamo avuto fenomeni quasi da genocidio, e d’altra parte l’unità è stata contestata con violenze uguali e contrarie… In generale, una rivisitazione critica del Risorgimento ha senso in quanto gli eventi di allora hanno avuto ripercussioni che durano tuttora. Non si tratta di promuovere fughe nostalgiche nel passato prerisorgimentale, come neppure di difendere in modo ottuso il suo meccanismo d’attuazione (che è profondamente discutibile); ma di chiedersi se oggi esiste nel nostro popolo una cultura che si è appropriata delle istituzioni e le sente come sostegno alla sua vera cultura».
Non ritiene che la «questione romana» abbia avvelenato fin troppo la storia d’Italia, tra l’altro tenendo artificiosamente lontani i cattolici dalla politica e ponendo i presupposti per le attuali incomprensioni tra «laici» e Chiesa?
«La questione romana, cioè l’occupazione di Roma da parte del nuovo Stato, mi sembra indebitamente enfatizzata nella sua evoluzione. C’è un aspetto più immediato e di superficie, ovvero i rapporti istituzionali tra due enti uno dei quali distrugge o si annette l’altro: si può eliminare un ordine precedente senza una dichiarazione di guerra o un pronunciamento internazionale?
Ma lasciamo perdere; esiste un aspetto più profondo: per la gente, Roma al Papa era la certezza del nesso sostanziale tra la Chiesa e la società italiana. La fine dello Stato pontificio non è stata avvertita dai cristiani quale perdita di territorio, ma come la possibilità che la funzione del Papa potesse essere ridotta, quando non negata. E che la sua libertà d’azione potesse essere fortemente condizionata, come di fatto è a volte avvenuto. Il popolo vuole che il Papa possa esprimersi liberamente, perché la sua libertà è quella della Chiesa».
Lei è stato tra quanti hanno difeso addirittura il «Sillabo». Perché?
«Perché in quel documento Pio IX ha avuto la forza di individuare con chiarezza le differenze tra modernità e Chiesa. Credo che aver preso le distanze dal fenomeno complesso, articolato, e magari all’epoca non totalmente compreso che si chiama liberalismo abbia reso possibile il confronto tra esso e la tradizione cattolica. Senza Sillabo non sarebbe stato possibile lo scontro anche duro da cui è nata la dottrina sociale della Chiesa: perché è dalla coscienza delle differenze che comincia il dialogo. Senza il Sillabo saremmo ancora cattolici in Europa, o non tutti fascisti, comunisti, tecnoscientisti, eccetera? Quel testo è stato un attacco formidabile al totalitarismo, che da culturale sarebbe diventato socio-politico; pertanto credo che si debba una grande riconoscenza a chi ha detto che la società è fatta di differenze e nessuno ha il diritto di eliminarne un’altra».
Due Papi, Paolo VI e Benedetto XVI – quand’era ancora cardinale – hanno però ammesso che «grazie a Dio» lo Stato pontificio non esiste più. E ciò che all’inizio sembrò alla Chiesa un sopruso, cioè la breccia di Porta Pia, oggi dev’essere letto come una grazia. È d’accordo?
«È ovvio: lo Stato pontificio aggiungeva alla missione papale una responsabilità di gestione amministrativa e immetteva nell’autorità del Papa aspetti che appesantivano il suo compito; il Pontefice ha ben altro da fare, diremmo oggi. Va pure rilevato che lo Stato pontificio è comunque servito nella storia moderna a garantire la libertà pastorale del Papa: quando la politica e la cultura si svolgevano in un rapporto tra Stati, infatti, la posizione del Papa in quanto capo di Stato poteva esercitare il suo influsso (cosa poi non sempre facilmente concessa) nel concerto delle nazioni. Non riesco a pensare che cosa sarebbe accaduto, per esempio, se dal ‘500 in poi il Papa non avesse potuto appoggiarsi a una realtà statuale. Detto questo, non c’è nulla da sacralizzare: lo stesso Pio XII si disse pago di poter avere uno Stato col perimetro del suo studio. Però stiamo attenti a dire che era tutto sbagliato, perché nella storia esiste una provvidenzialità che va riconosciuta».
Lei è vescovo in una diocesi posta nei I territori che furono della Chiesa. Che differenze riscontra rispetto, per esempio, la sua esperienza in Lombardia? È vero che gli ex sudditi del papa-re oggi sono i più anticlericali d’Italia?
«Su quest’aspetto è stata fatta tanta retorica senza riscontri obiettivi. Certo, materialmente e marginalmente lo Stato pontificio può aver alimentato risentimenti, fatiche, scontenti; ma mi pare che non fosse diverso dagli altri Stati dell’epoca, anzi ci sono revisioni storiche che rilevano nei territori papali efficienze economiche, educative o sanitarie migliori che in altri. In sostanza, la popolazione qui ha una base cattolica uguale al resto d’Italia. Ma, aldilà di questo, sia dove hanno governato i Papi sia dove hanno regnato principi o granduchi, il problema è se la Chiesa fa vivere oggi la grande tradizione di cui è portatrice. La tradizione non è andata in crisi per lo Stato pontificio, infatti, ma perché la Chiesa ha avuto altre preoccupazioni anziché educare il popolo cristiano all’unità tra fede ed opere. Banalmente si può spiegare un certo anticlericalismo romagnolo con le delusioni o gli sconcerti di un’antica amministrazione; ma in realtà ci vuoi ben altro per chiarire le responsabilità della scristianizzazione, qui e altrove».