Anno VIII Febbraio 1981
Paola Cattaneo
L’età del post-Concilio di Trento vede una fioritura di confraternite di varia denominazione e con diverse attività. Per meglio comprenderne il significato, occorre risalire indietro nel tempo di qualche decennio, forse anche di un secolo. Infatti, a partire dalla metà del XV secolo, si può constatare in questo settore della vita religiosa il diffondersi di forti correnti riformatrici.
Molte confraternite, con il passare del tempo, avevano perduto la motivazione ed il mordente originario, e attraversavano un periodo di decadenza, se pur non erano del tutto spente; ed ora vengono riformate. Perché si possa realmente parlare di riforma, occorre constatare se vi è una ripresa della intensità della espressione religiosa, e non soltanto una modifica dello statuto (che è talora definita riforma) a livello meramente tecnico, senza alcuna incidenza sul piano religioso.
Un esempio tipico di confraternite antiche che subiscono un radicale rinnovamento è costituito dalle confraternite mariane legate all’ordine domenicano (confraternite di S. Pietro Martire), che nel XV secolo, almeno in parte, sono pervase da uno spirito nuovo.
Le spinte riformatrici di Alano della Rupe si diffondono anche in Italia: e là dove vi è un convento domenicano riformato, anche la confraternita che vi fa capo risente del nuovo clima spirituale o addirittura viene rifondata se giunta ad esaurimento.
Un’altra categoria di confraternite che nel XV secolo conosce una considerevole ripresa è costituita da certe confraternite di «battuti» o «disciplinati», che in qualche caso sorgono ex novo. L’usanza della flagellazione pubblica riprende temporaneamente vigore, sulla spinta della parola di infuocati predicatori popolari. Questo aspetto penitenziale — primitivo o di recente introduzione — non è però destinato a durare a lungo: in epoche successive si va perdendo totalmente.
Scompare non solo la «disciplina» vera e propria, ma anche la ispirazione penitenziale che stava alla base delle manifestazioni esteriori. Non sempre è agevole il distinguere se all’interno di una data confraternita il moto di riforma è previo o conseguente al Concilio di Trento.
Globalmente parlando, nessuno dei due aspetti può essere escluso; vi è indubbiamente un moto e un desiderio sincero di riforma prima del Concilio di Trento, che da esso e dall’opera dei vescovi riformatori ha poi nuovo impulso.
La riforma di una confraternita poi può essere dettata sia da una nuova coscienza dei suoi membri, che rifondano su basi nuove l’antica forma, sia da spinte esterne: può trattarsi di conventi riformati, come nel caso visto dei domenicani, di membri del clero locale, o addirittura del vescovo.
Questo caso è molto frequente nell’età tridentina. Basti per tutti un nome: Carlo Borromeo. Egli cura in modo particolare la diffusione e il rinnovamento della pietà laicale, specialmente attraverso la forma privilegiata costituita dalle confraternite.
Le caratteristiche della teologia e della pietà tridentine si riflettono ampiamente sulla fisionomia stessa delle confraternite. Punto caratteristico è l’importanza attribuita all’esercizio delle opere di cristiana carità.
Anche in relazione all’importanza che alle opere attribuisce — con una componente antiprotestante — il cattolicesimo controriformistico, la vita religiosa non è concepita al di fuori di un preciso nesso con le esigenze della comunità.
Di qui l’importanza che negli statuti assume la definizione precisa dell’attività «civile» da svolgere (talora col rischio di sottolineare a tal punto questo aspetto da lasciare in secondo piano lo scopo essenziale della santificazione).
Questi mezzi di azione, già presenti, sono organizzati in modo sempre più sistematico, e danno origine a forme assistenziali organicamente strutturate, quali ospedali, orfanatrofi, ricoveri, centri di assistenza a giovani povere e via dicendo.
Molto diffuse sono le Confraternite del SS. Sacramento e quelle della dottrina cristiana. Quanto alle prime, il loro sviluppo è senza dubbio legato alla spiritualità post-tridentina.
Nel Concilio, ampio spazio era stato dedicato al sacramento dell’Eucarestia sia nei suoi aspetti teologici che di devozione e pietà. Contro alla riduzione operata dal mondo protestante, il valore sacramentale è esaltato, e raccomandante le forme di pietà connesse all’Eucarestia, come l’adorazione (Quarant’Ore), la processione del Corpus Domini, e via dicendo.
Così le confraternite del SS. Sacramento, piuttosto limitate (solo Bernardino da Feltre vi aveva già dato un qualche impulso), si diffondono a macchia d’olio.
La volontà di porre freno e argine all’eresia mediante una più approfondita evangelizzazione e conoscenza della dottrina cristiana nelle masse è causa prima del diffondersi delle scuole della dottrina cristiana; promotore instancabile ne è Carlo Borromeo, che vorrebbe tali compagnie capillarmente presenti in ogni parrocchia, in ogni angolo della diocesi.
La scelta del titolo della confraternita — laddove non si conservi semplicemente l’antico — è spesso di grande utilità per cogliere determinati elementi della spiritualità dell’epoca ed il prevalere di certe devozioni su altre che tendono ad offuscarsi.
Quanto agli statuti, nell’età moderna spesso le antiche regole, semplici, schematiche, prive di un organico contesto spirituale, mutano. Alla pura enumerazione di obblighi e di precetti, alla struttura scarna, si sostituiscono quasi dei veri e propri trattati di vita spirituale.
Ne è un tipico esempio lo statuto della confraternita di S. Domenico a Bologna, sorta nel XIII secolo e riformata nel XV. La nuova regola, oltre ad essere estremamente più ampia e dettagliata, non è una regola nel senso più tecnico del termine, ma costituisce quasi un trattato di vita spirituale.
Significativo il testo, a partire dal titolo: «Regola e amestramento de huomini secolari li quali vogliono vivere regulatamente come boni e veri cristiani per salute de le anime loro, ragunandosi insieme spesse volte per conforto l’uno de l’altro».
E’ stata giustamente notata l’importanza di questi statuti di confraternite che per la loro portata sono vere e proprie introduzioni alla vita devota; basta tener conto dello scarso livello di alfabetizzazione per comprendere come questi testi, che continuamente si udivano leggere e in conseguenza si apprendevano a memoria, influissero sulla formazione spirituale e religiosa dei laici.
Un certo formalismo tende a far presa nelle confraternite tra il XVII e il XVIII secolo. Prova ne è il fatto che le matricole sovente non portano più alla rinfusa nomi di artigiani, di nobili, di borghesi; ma in molte compagnie si introduce l’usanza del numero chiuso, riservandone l’accesso agli aristocratici. Ma questo è solo un sintomo.
Il fatto è che, nelle alterne vicende di queste forme associative, ancora una volta la linfa vitale può cessare di scorrere ed il formalismo prevalere su uno spirito di autentica e profonda religiosità.
Con il diffondersi, nel corso del XVIII secolo, di una mentalità razionalista e antidevozionale, spesso le confraternite continuano a sussistere svuotate del loro reale significato; tanto che le soppressioni volute dal potere civile colpiscono sovente degli organismi non più vitali. E quante possono continuare a sussistere lo fanno quasi per forza d’inerzia, avendo perso lo slancio ed il significato primitivo, che non riusciranno più a recuperare.
Una ripresa della spiritualità laicale avverrà nel corso del XIX secolo, ma in altre forme e condiverse modalità
«QUESTA VITA, CHE E’ DI MORTE UN’OMBRA»
Per chi vuole indagare le caratteristiche della pietà barocca, le regole di confraternite sono molto ricche ed interessanti. Eccone un esempio, tratto dal proemio agli statuti di una confraternita milanese alle soglie del ‘600, confraternita che aveva lo scopo dell’assistenza ai moribondi.
«Quello che hà da far l’huomo mentre viue è solo imparar di morire, e chi aspetta di imparar sin che morrà potrà morire se non male, come l’esperienza insegna che chi la prima volta scriue, scriue male, la prima volta lege, lege male, la prima volta camina non sà caminar né può reggersi in piedi: dunque la prima volta che si muore, si muore male.
Felici dunque coloro che nel pensiero suo morendo spesso di morire imparano, che quando morran poi saprano morire… Ne paia strano à viui ad esser sempre morti, che non v’è più dolce vita che col pensier di morte pensar all’altra vita; e questa vita, che è di morte un’ombra, asconderla in Christo come S. Paolo scriueua.
“Mortui enim estit, et vita vestra abscondita est cum Christo” (Col. 3,3) E se ben pare horrida cosa il tener sempre pensiero ad ossa fredde, e ceneri sepolte, e cadaueri, e fosse, e vermi, e mille horrori, non deue hauer pure strano à pensar quel che ha da essere, e dica questa carne che morre: è passo horribile, è peso terribilissimo, fine spauenteuole, uscita difficile, dolor inestimabile … che l’animo s’auederà poi ch’ella è fine di prigione oscura, dolce unione, caro termine, amata libertà, pace dopo la guerra, bonaccia dopo tempesta, liberation, riposo, quiete, sonno, porto, luce, acquisto d’ogni bene.
Dunque felici voi, che portando l’imagine di lei innanzi mostrate che hauete anco in pensiero ch’ognun a morte và, e mentre nelle vesti l’effigie hauete, in cuor sempre ancor la tenete scolpita, e siate di questo sicuri, che questa morte vi darà la vita».