giovedì 7 Novembre 2019
Il direttore di Aiuto Alla Chiesa che Soffre, Alessandro Monteduro, riporta a In Terris la verità sul dramma senza fine delle minoranze cristiane in Medio-Oriente
Marco Grieco
Il fragore delle esplosioni nelle zone di guerra è il segno più tangibile di un conflitto. Ma spesso non si considera come quello stesso fragore celi l’urlo disperato delle sue vittime. È quello che sta avvenendo in Siria dove, accanto alle scene di devastazione illuminate dai riflettori dell’informazione ci sono altri scorci, meno conosciuti, ma altrettanto drammatici, che fotografano la realtà.
Le immagini di guerra sono spesso associate a luoghi distrutti come i quartieri di Aleppo sventrati dai raid aerei. Ma dove sono coloro che abitavano quegli stessi luoghi, che non percorrono più quelle strade, ora simili ad arterie spezzate di città fantasma?
È quello che ci si chiede quando si pensa alle comunità cristiane in Siria che, facenti parte di una minoranza religiosa nel Paese, sentono oggi tutto il peso dell’esodo e la persecuzione. Mentre Ankara continua a recriminare la violazione della zona di sicurezza da parte dei combattenti curdo-siriani delle Unità di protezione popolari, per i Cristiani che vivono oggi in Siria non esiste un luogo davvero sicuro.
Almeno dal 2011, cioè dall’inizio della guerra civile siriana, la minoranza religiosa è stata oggetto di restrizioni da più parti. La Chiesa siriana s’è sempre spesa nel dialogo con le altre fedi, ma nel corso degli anni ha anche sperimentato, sulla sua pelle, l’esodo e le restrizioni della libertà.
La Fondazione Pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS) è da anni impegnata nel sostegno dei Cristiani, soprattutto in Medio-Oriente: 36.309.951 euro è l’entità degli aiuti stanziati da ACS in Siria e Iraq.
Intervistato da In Terris, il direttore di ACS Italia, Alessandro Monteduro, ha messo in luce la situazione che i Cristiani stanno vivendo ora nell’intreccio complicato del conflitto siriano.
Direttore, stando agli ultimi dati, la Siria è il Paese che ha più beneficiato degli aiuti di ACS, vero?
“Sì, la Siria è in assoluto il Paese che ha più beneficiato della generosità dei benefattori di Aiuto alla Chiesa che Soffre, ma non in misura tale da poter dire che la maggioranza, cioè il 51% degli aiuti, sia andato alla Siria. Questo perché, stando ai dati aggiornati al 6 settembre 2019, dal 2011 – anno di avvio della guerra in Siria – ACS ha stanziato e finanziato progetti per oltre 36 milioni di euro. La Siria, insieme all’Iraq, è il Paese che più ha avuto stanziamenti: sono numeri raccontano il nostro impegno e la speranza concreta per chi non ha voluto abbandonare il Medio Oriente nonostante le difficoltà”.
Che situazione stanno vivendo i Cristiani in Siria?
“C’è una comunità viva, vitale, sostenuta dalla generosità della comunità del popolo di Dio. Con le informazioni in nostro possesso grazie alle diocesi, sappiamo che i Cristiani stanno patendo le conseguenze del conflitto. Purtroppo, va detto che i curdi hanno reagito alla reazione turca, stanziandosi in siti cristiani. Perciò, la reazione dei Turchi contro i curdi ha colpito, direttamente o indirettamente, anche i Cristiani, come testimoniano i bombardamenti avvenuti a danno di luoghi di preghiera cristiani”.
Spesso si dimentica che si tratta di uomini e donne che non trovano pace da anni…
“Più volte abbiamo raccontato tentativi forzati di curdizzazione dell’area nord-orientale della Siria. Nel settembre dello scorso anno, per esempio, quattro scuole cattoliche private furono chiuse perché non si piegarono ai diktat del Fronte militare libero siriano che voleva l’insegnamento in curdo. Quelle stesse scuole decisero di non adeguarsi ai programmi di educazione statali. In tal senso monsignor Jacques Behnan Hindo, arcivescovo siro-cattolico emerito di Hassaké-Nisibi, più volte ha denunciato le tensioni strutturali che ci sono tra cristiani e curdi”.
Come si è esacerbata questa tensione?
“Basti pensare che, in quell’area della Siria, la popolazione curda rasentava il 10%. Nelle tre province di quell’enclave siriana, all’ottobre 2018 le famiglie cristiane erano 5.742: parliamo, cioè, di oltre 30.000 cristiani siriani, non certo una cifra irrisoria. Allargando la prospettiva, sempre a quella data, le famiglie cristiane siriane erano 127.185: nel complesso, dunque, prima della guerra i Cristiani erano oltre 1 milione e 200mila. Oggi sono tra i 500 e i 550.000. Con l’arrivo del Daesh in Siria, poi, i Cristiani hanno patito due volte il conflitto: prima in quanto siriani, poi in quanto Cristiani”.
A cosa si riferisce, nello specifico?
“Mi riferisco ai ministri di Dio rapiti durante questo conflitto: padre Frans van der Lugt, il gesuita olandese assassinato ad Homs, in Siria il 7 aprile del 2014, Padre François Murad, ucciso nel convento di Ghassanieh il 21 giugno 2013, per poi citare padre Paolo Dall’Oglio e i due vescovi ortodossi, rapiti oltre cinque anni fa e di cui non si sa ancora nulla.
Sulle persecuzioni sapevamo ben poco fino a quando non ce lo hanno disvelato le fosse comuni con decine e decine di corpi di cristiani. Quando ho visitato quelle zone martoriate, ho visto luoghi sacri, conventi, residenze cristiane profanate, divelte, distrutte. Nel monastero di Santa Tecla fecero irruzione gli uomini del Daesh.
Lì vivevano 14 monache che, dal novembre 2013, furono rapite per essere liberate solo nel marzo 2014. Per giunta, nel 2013 in un sobborgo di Damasco i capi della comunità sunnita emisero una fatwa che autorizzava l’esproprio di beni fino ad allora in possesso di Siriani appartenenti a minoranze religiose. Con il terrorismo basato sul fondamentalismo islamico, per i Cristiani la vita è stata drammaticamente difficile”.
Come agisce la Chiesa in loco?
“La Chiesa non abbandona mai i fedeli, dai religiosi siriani alla comunità Cattolica tutta. I pastori sono rimasti là, non hanno mai abbandonato il gregge e sono in prima linea nella ricostruzione nonostante le gravi difficoltà che il secondo tempo del conflitto sta provocando, cioè quello delle sanzioni economiche”.
Venti giorni fa lei è stato in Siria. Cosa l’ha colpita? Ci sono storie che l’hanno toccata?
“Ho ascoltato diverse storie personali, ma quello che mi ha più colpito dell’ultima visita ad Aleppo è stata la bellissima palestra a cui abbiamo contribuito come ACS. Noi ci siamo occupati di donare il parquet, dove molti ragazzi ora giocano a basket e sognano i cestisti della NBA. Quel parquet è la ragione per cui tanti giovani siriani hanno deciso di restare, ma è anche la promessa per chi vuole ritornare.
Quei ragazzi, ciascuno con i propri sogni, hanno diritto a tornare ciò che erano prima dell’avvio del conflitto, vale a dire una comunità non solo pacifica, ma anche ricca! Dobbiamo impegnarci perché la nostra missione sia quella di riportarli a casa.
Ad Aleppo, mons. Mario Delpini, arcivescovo di Milano, ha inaugurato un teatro per il Catechismo per tutti e nove i riti cristiani. Ho visto famiglie che negli anni scorsi si sono trasferite a Marmarita, nella Valle dei Cristiani, per poi ritornare nelle case, in mezzo alle macerie, con la voglia di ricostruire. La dignità e la fede che hanno sono le uniche cose che li hanno sorretti finora”.
Testimonianze di speranza, dunque…
“Certamente, ma la speranza è anche il sostegno, il supporto materiale ai fratelli. Perché in un Paese dove le sanzioni economiche stroncano la rinascita di queste popolazioni, la speranza è fatta dal sostegno di gente, che sa essere comunità di fede abbattendo le distanze. A noi che viviamo in Occidente dico: non immaginiamoli come i disperati che arrivano sulle nostre coste. Qui parliamo di uomini e donne, famiglie con una loro dignità”.
I monumenti illuminati di rosso a Roma sono l’ultima iniziativa di ACS per sensibilizzare sulle persecuzioni dei Cristiani nel mondo. Vi aspettate un confronto con le istituzioni?
“Iniziative come il Colosseo Rosso, per esempio, sono sì un modo di parlare anche alle istituzioni. Ma ci tengo a precisare che il nostro impegno non è solo quello di sensibilizzare l’opinione politica, spesso presa da altri impegni istituzionali. Anzi, preferisco bypassarla e parlare ai popoli. Personalmente, nutro la convinta idea che il punto di partenza sia, prima di ogni cosa, l’impegno personale. Ed è quello che vediamo succedere con il sostegno di gente semplice ad Aiuto alla Chiesa che Soffre. Verso loro va il nostro impegno e la nostra gratitudine”.