L’usura e la morale sociale cattolica

I.D.I.S. – Istituto per la Dottrina e l’Informazione Sociale

Voci per un dizionario del pensiero forte

di Mauro Ronco

1. La condanna dell’usura nella morale sociale della Chiesa

«Quel genere di peccato che si chiama usura, e che nel contratto di prestito ha la sua propria sede e la sua collocazione, consiste in questo, che ciascuno pretende che dal prestito, il quale per sua natura vuole che si restituisca solo quel che fu ricevuto, gli sia reso più di ciò che fu ricevuto; e perciò sostiene che, oltre al capitale, gli è dovuto un certo guadagno, a motivo del prestito stesso. Perciò ogni utile di questa specie, che superi il capitale, è illecito, e ha carattere di usura»: così afferma Papa Benedetto XIV (1740-1758) nell’enciclica Vix pervenit, del 1° novembre 1745, al § 3.

2. Le radici veterotestamentarie del giudizio

Si tratta di un giudizio che affonda le sue radici nell’Antico Testamento, ricco di passi che stigmatizzano il contegno usurario ed esortano a soccorrere il povero e il bisognoso. Fondamentali sul tema sono i passi contenuti nel libro dell’Esodo, 22, 24: «Se tu presti denaro a qualcuno del mio popolo, all’indigente che sta con te non ti comporterai con lui da usuraio: voi non dovete imporgli alcun interesse»; nel Levitico, 25, 35-38, e nel Deuteronomio, 23, 20-21: «Non farai al tuo fratello prestiti a interesse, né di denaro, né di viveri, né di qualunque cosa che si presta a interesse. Allo straniero potrai prestare a interesse, ma non al tuo fratello, perché il Signore tuo Dio ti benedica in tutto ciò a cui metterai mano, nel paese di cui stai per andare a prendere possesso».

I Profeti denunciano l’oppressione del governo e l’avidità del ricco. Il Salmo 15 definisce come ospite del Signore colui che «presta denaro senza fare usura, e non accetta doni contro l’innocente».

3. L’insegnamento neotestamentario e il pensiero medioevale

Nel Nuovo Testamento il Signore Gesù rende universale l’insegnamento della legge antica. Mentre il Deuteronomio consentiva il prestito a interesse nei confronti dello straniero ora, invece, anche lo straniero deve essere trattato come fratello, perché prossimo è chiunque ha bisogno di aiuto. Il rinnovamento evangelico non sta tanto nell’ispirazione alla benevolenza e alla generosità, già presente nel Testamento Antico, quanto nel superamento del limite nazionale ed etnico alla benevolenza.

Due sono le linee della ricerca cristiana, sin dai primordi patristici: per un verso, lo sforzo di comprendere l’ammissione veterotestamentaria del prestito a interesse allo straniero; per un altro verso, la ricerca di una spiegazione razionale che dia conto dell’ingiustizia insita nella richiesta degli interessi.

In ordine al primo punto vale la pena osservare come le leggi del legislatore veterotestamentario erano limitate dal particolarismo etnico-religioso del popolo eletto. In ordine al secondo punto la riflessione del pensiero cristiano, consolidatosi all’apogeo del Medioevo con l’opera di san Tommaso d’Aquino (1225 ca.-1274), condanna articolatamente l’usura basandosi sul concetto di fraternità universale e sul dovere di soccorso al prossimo in stato di bisogno; sul concetto per cui la moneta è la misura del valore delle cose e non possiede un’utilità sua propria, separabile dal valore della cosa che misura; nonché sull’idea che fonte della ricchezza sono il lavoro e l’operosità dell’uomo, e non le cose in sé e per sé considerate.

Il mutuo nel diritto romano è contratto essenzialmente gratuito: vero che normalmente al mutuo si accompagnavano pattuizioni particolari con cui venivano stabiliti gli interessi. Eppure la gratuità del mutuo sembrava corrispondere all’intrinseca natura di tale negozio, che determina il trasferimento della proprietà della cosa mutuata. È evidente che chi trasferisce la proprietà di una cosa non può legittimamente pretendere di ottenere il valore di uso della cosa stessa.

La fonte del guadagno non sta infatti nel denaro in sé stesso, ma nell’utilità che, tramite il lavoro dell’uomo, può essere ricavato dalle cose. Chi dà in locazione un fondo, rinuncia all’utilità che da esso può ricavarsi e in cambio di tale utilità ottiene il prezzo del canone. Ma colui che trasferisce la proprietà del denaro non può pretendere il prezzo per l’uso di una cosa che egli stesso ha trasferito e che, per altro verso, non è intrinsecamente fruttifera, essendo misura del valore delle cose e non avendo un valore d’uso essa stessa. Mentre lo scambio inerente alla locazione è intrinsecamente oneroso, perché il prezzo costituisce l’equivalente dell’uso, lo scambio inerente al mutuo è intrinsecamente gratuito, perché il denaro non ha un uso proprio autonomo rispetto al lavoro dell’uomo.

4. Di fronte all’economia moderna

La fine del Medioevo e l’impulso straordinario ai commerci e alle transazioni commerciali, con lo sviluppo, dapprima lento e poi frenetico, di un’economia di tipo capitalistico, fondata in larga misura sul credito, vede inevitabilmente acuirsi il contrasto fra la dottrina della Chiesa e il concreto atteggiamento dei commercianti, dei banchieri e, più in generale, degli uomini d’affari.

Sul piano della prevenzione dell’usura, l’operosità della Chiesa porta alla fondazione, sin dalla fine del Medioevo, in corrispondenza con lo svilupparsi di tale economia più dinamica, di istituzioni — banchi, monti, e così via — volte a sovvenire i bisognosi con la fornitura di crediti al consumo, che superassero gli ostacoli frapposti ai poveri per l’accesso al credito.

Quest’opera di prevenzione concreta contribuisce all’affinamento della dottrina cristiana sull’usura, consentendo d’individuare un titolo estrinseco alla richiesta di un moderato interesse sul prestito, fondato sull’esigenza di retribuire il servizio di quanti coordinano e rendono possibile, attraverso la gestione della raccolta, l’effettuazione dei prestiti.

La riflessione ha consentito di cogliere e di precisare la distinzione fra il prestito per il consumo e il prestito per l’investimento. Nella prima situazione il denaro è sempre del tutto sterile: chi pretende un interesse ottiene indebitamente dalla cosa un’utilità che essa non è in grado di dare, perché l’utilità si esaurisce nel consumo della persona che, in stato di bisogno, ha richiesto il prestito. La seconda situazione si presenta in termini più problematici: il principio della gratuità del prestito e, dunque, della sterilità del denaro non viene intaccato, ma, se la consegna di denaro non dà per ciò stesso diritto a richiedere un compenso, nell’investimento il diritto al compenso nasce da un titolo estrinseco al negozio, e si fonda su un’attività, su un impegno o su un servizio diversi e ulteriori rispetto alla pura dazione.

5. La dottrina vigente e il Catechismo della Chiesa Cattolica

I pronunciamenti ufficiali della Chiesa nei tempi moderni hanno sempre ribadito il nucleo centrale della dottrina tradizionale sull’usura, pur nelle mutate condizioni economiche e sociali. La dottrina è adeguatamente riassunta nella conclusione di un’Istruzione della S. Congregazione di Propaganda Fide, del 1873, ripetizione di undici documenti che trattano di guadagni per interesse da prestiti:

«1. Parlando in generale riguardo al guadagno da un prestito, da questo non si può assolutamente ricevere nulla in ragione del prestito o in modo immediato e preciso a motivo di esso.

«2. È lecito ricevere qualcosa oltre il capitale, nel caso che si aggiunga al prestito un qualche titolo estrinseco, non congiunto e congenito in generale con la natura del prestito.

«3. Anche se mancano altri titoli di vario genere, come sono il lucro cessante, il danno emergente, il rischio di perdere il capitale, o di assumersi fatiche eccessive per il recupero del capitale, si può avere in pratica un solo titolo della legge civile come sufficiente, tanto da parte dei fedeli come dei loro confessori, ai quali quindi non è lecito turbare su questa cosa i loro penitenti, mentre questo problema si trova ancora sotto giudizio e la Santa Sede non lo ha definito in modo esplicito.

«4. La tolleranza di questa prassi non può essere estesa né per giustificare l’usura anche se modesta verso i poveri, né l’usura smodata ed eccedente i limiti della naturale equità.

«5. Infine, quale sia la quantità dell’usura che deve essere considerata smodata ed eccessiva, quale giusta e moderata, non può essere determinato in generale, poiché questo deve essere determinato nei singoli casi, tenuto conto di tutte e singole le circostanze dei luoghi, delle persone e dei tempi».

Il Catechismo della Chiesa Cattolica, approvato l’11 ottobre 1992 da Papa Giovanni Paolo II, non tratta espressamente il tema dell’usura, ma nell’esposizione e nel commento del settimo comandamento sono contenuti rilievi che insieme mantengono e innovano la dottrina tradizionale, i cui princìpi sull’usura sono sottesi specialmente in due punti: anzitutto nel § 2411, ove è ribadito che i contratti sottostanno alla giustizia commutativa, fondamento di ogni altra forma di giustizia, che regola gli scambi fra le persone nel rispetto dei loro diritti e che obbliga strettamente ciascun contraente sotto pena di riparazione dell’ingiustizia nella forma della restituzione.

Nella parte sesta, L’amore per i poveri, al § 2443 il testo richiama, poi, l’attenzione sui passi evangelici che tradizionalmente fondano il divieto del prestito a interesse: «Dà a chi ti domanda e a chi desidera da te un prestito non volgere le spalle» (Mt. 5, 42). «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt. 10, 8). Né l’interesse sul prestito è legittimo, né è legittimo sottrarsi al dovere di soccorrere i poveri: «Dio benedice coloro che soccorrono i poveri e disapprova coloro che se ne disinteressano» (§ 2443). Nel § 2446 è, infine, richiamato l’insegnamento del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965) secondo cui «siano anzitutto adempiuti gli obblighi di giustizia perché non si offra come dono di carità ciò che è già dovuto a titolo di giustizia» (Apostolicam actuositatem, 8).

La Chiesa ha combattuto per secoli, confidando nella parola di Dio, l’esistenza stessa e poi il diffondersi sociale del prestito a interesse. Sempre è rimasta ferma nel principio che il denaro, in quanto tale, non produce denaro, perché, nella realtà, la sua apparente produttività è la conseguenza del frutto del lavoro dell’uomo. Dunque, il divieto dell’interesse è esigito dalla natura stessa della cosa, dalla giustizia commutativa insita nel rapporto di prestito.

La circostanza, che gli uomini non siano facilmente disposti a prestare il loro denaro ad altri, se non sollecitati dalla molla dell’interesse, si spiega alla luce della decadenza della natura umana post peccatum. Ma alla difficoltà che nasce dall’avarizia e dalla mancanza di fraternità non è giusto né conveniente rimediare riconoscendo quanto è intrinsecamente contrario alla natura della cosa e ammettendo l’usura.

Vero che quest’ultima favorisce il diffondersi del prestito e contribuisce allo sviluppo economico: ma il rimedio è peggiore del male, perché la richiesta dell’interesse intossica tutti i rapporti di credito, in una spirale in cui non v’è limite all’arricchimento del ricco e all’impoverimento del povero. L’unica soluzione diventa così la mancata restituzione, che, per un verso, con l’accresciuto rischio per ogni creditore, contribuisce a elevare ancora il tasso degli interessi, e, per un altro verso, per la diminuita riprovevolezza dell’inadempimento, moltiplica via via l’insicurezza dei rapporti giuridici.

In un’economia dinamica come quella contemporanea, in cui lo Stato stesso garantisce la sua sopravvivenza grazie al prestito a interesse, è evidente come nel denaro sia quasi presente un valore d’uso, corrispondente all’interesse che il suo impiego normalmente fornisce. Ma questa non è affatto una condizione di normalità sociale, come prova l’accrescimento continuo del debito in capo al debitore e dalla sua impossibilità a soddisfare l’impegno assunto.

L’esempio fornito dagli Stati, che vedono dilatare via via il loro debito, fino a che un qualche colpo di spugna non alleggerisce con la violenza le aspettative dei creditori, è straordinariamente eloquente. La disintossicazione del corpo sociale impone il ritorno al principio per cui al lavoro dell’uomo va riconosciuto il primato sulle cose: il denaro non produce ricchezza da sé solo, ma soltanto se esso si piega al servizio dello sforzo, dell’impegno, della creatività e della responsabilità trasformatrice e creatrice del lavoro dell’uomo.

_________________

Per approfondire: vedi Benjamin Nelson, Usura e cristianesimo. Per una storia della genesi dell’etica moderna, trad. it., Sansoni, Firenze 1967; e Mario Rossino, Morale cattolica e usura, in AA. VV., Usura. Economia società e istituzioni. Una riflessione a più voci, SEI, Torino 1997, pp. 144-178.