di Alfredo Mantovano
Scrive Antonio Gramsci, nei Quaderni del carcere, che il materialismo – dialettico e storico – “presuppone tutto questo passato culturale, […] la Riforma, […] la rivoluzione francese, […] il liberalismo laico e lo storicismo che è alla base di tutta la concezione moderna della vita”.
Il materialismo è “il coronamento di tutto questo movimento di riforma intellettuale e morale” e corrisponde “al nesso Riforma protestante + Rivoluzione francese”. Per Gramsci vi è una connessione strutturale fra queste tappe: non è possibile immaginarne una senza le precedenti, le prime si perpetuano “generando” necessariamente le successive, per una meccanica interna al processo.
Questo percorso, nelle sue diverse manifestazioni, si appoggia su un sostrato comune, una sorta di comune denominatore: la convinzione ideologica secondo la quale il mondo è stato fatto male; così com’è non va, va cambiato in radice, nei suoi elementi strutturali. Non tutti però possono dare un contributo sostanziale nella direzione del cambiamento: ciò compete a cerchie ristrette di persone, alle avanguardie della rivoluzione, dai capi dei giacobini ai dirigenti del Partito comunista; costoro, ponendosi alla guida del mutamento e valendosi di particolari tecniche, sono i soli in grado di ribaltare la situazione, e di condurre a un mondo finalmente e materialmente redento dai limiti naturali che ancora lo affliggono.
Che cosa accade se il processo unitario richiamato da Gramsci finisce in un vicolo cieco, se la costruzione innalzata a costo di tanti sacrifici alla fine implode, se dal lungo travaglio del parto nasce un morto? L’esito, emblematizzato dalle pietre che rotolano dal Muro in disfacimento, si ripercuote necessariamente sull’intero processo, con una sorta di effetto domino, per la connessione che salda ogni tassello con il precedente.
Il crollo del Muro pone in crisi nel suo insieme l’itinerario descritto con lucidità dal fondatore del PCI. L’implosione dei regimi totalitari dell’Europa centro-orientale rappresenta la certificazione storica della falsità della tesi di fondo del processo rivoluzionario che è sfociato nel comunismo. A fronte di ciò, logica avrebbe imposto di risalire indietro, fino a ritrovare il punto a partire dal quale si è sbagliata strada: non per riprendere ad andare a cavallo invece che in aereo, ma per cogliere quei presupposti remoti, culturali e politici, che hanno condotto senza soluzione di continuità all’universo dei gulag.
Questo non è stato fatto, o è stato fatto in modo incompleto e parziale: a sinistra si può accettare (con dispiacere) una ritirata tattica, non si può accettare la rinuncia alla propria creatura ideologica. La nuvola di polvere sollevata dallo sbriciolamento del Muro e, un paio d’anni dopo, la rimozione della bandiera rossa dalla sommità del Kremlino non sono bastati a smuovere dalle fondamenta l’impalcatura ideologica di cui il Kremlino è stato soltanto l’ultimo piano.
Il fiume di sangue che ha irrorato interi continenti, con un numero di vittime che Stéphane Courtois indica al minimo in 100 milioni di morti e altre fonti, come Eugenio Corti, in 200 milioni di morti, non è stato sufficiente a far riconsiderare con spirito critico l’intero iter rivoluzionario e le sue basi. L’arretramento ideologico di larga parte della Sinistra le ha permesso di attestarsi alla fase antecedente.
Basta scorrere qualche intervento di politici di Sinistra per constatare il rinvio, esplicito o implicito, al trinomio rivoluzionario del 1789, pur se variamente declinato e attualizzato. Si arretra di una tappa, che peraltro reca in sé per intero i germi (e non solo i germi) del socialcomunismo attualmente sconfessato: quanto dista l’égalité giacobina rispetto al livellamento sociale realizzato sotto il simbolo della falce e del martello? Quanta è lontana la ghigliottina, uguale per tutti, dall’universo dei gulag, egualmente massificante?
L’arretramento tattico consente di non rifiutare la struttura profonda del processo rivoluzionario, il comune denominatore sopra descritto. Astrazioni? Nella Relazione introduttiva alla Convenzione programmatica dei Ds per il Programma dell’Ulivo del 4 Aprile 2003, parlando della mobilitazione contro l’intervento in Irak, l’on. Piero Fassino fra l’altro afferma: “questa vera e propria mutazione antropologica – l’umanità globale – sembra riconoscersi nel respingere con fermezza l’obiezione “realista” che Hegel […] rivolge all’utopia kantiana della “pace perpetua”. […] “Ebbene, in queste settimane, col moltiplicarsi di quelle bandiere arcobaleno alle finestre e nelle piazze, l’Europa si è schierata per la pace perpetua di Kant, contro il realismo hegeliano. Ed ha consegnato alla politica un compito gigantesco: trovare i modi per rendere realistica questa grande utopia”.
Al di là della questione specificamente dibattuta (crisi irakena) e al di là del riferimento ai due filosofi, citati più o meno a proposito, interessa rilevare la “mentalità” politica: il mondo è in uno stato di sofferenza (crisi, guerre ecc.); la soluzione è da ricercare immanentisticamente nella storia; questa – ammette Fassino – è una “grande utopia”.
L’utopia, a sua volta, può tradursi in realtà tramite l’azione politica, che è realizzata da una ristretta cerchia di uomini, i quali attraverso le tecniche della politica sarebbero in grado di redimere il mondo dalle contraddizione che lo lacerano, conseguendo l’obiettivo: un mondo nuovo su questa terra. Ci risiamo: è il fondamento di ogni utopia politica descritto in modo incomparabile da Eric Voegelin.
Se, nella sostanza e oltre tanti distinguo, il maggiore partito della Sinistra italiana non si è allontanato dal comune denominatore che è stato l’humus – tra l’altro – del comunismo, bisogna ammettere che non sempre a Destra si è colta fino in fondo la lezione del crollo del Muro: troppo spesso ci si è limitati ad una analisi schiacciata fra i due poli dialettici comunismo/anticomunismo, senza cogliere il processo rivoluzionario nella sua dinamica e nel suo fondamento.
Qualche settimana fa Ernesto Galli Della Loggia ha nuovamente imputato alla Destra un deficit di solida cultura politica. Il richiamo, per quanto severo, non può essere liquidato con stizza. Mi permetto però di rilanciare. L’analisi critica del processo posto in questione dai fatti del 1989 non è semplice né agevole. E non può essere compiuto in via principale dal ceto politico. È necessario uno sforzo corale, organizzato, metodico, che interessi prima di tutto chi lavora nell’area della cultura della politica.
Non basta il pur lodevole sforzo di alcune rare eccezioni. Se uno sforzo più esteso e consistente riesce difficile, grazie anche all’efficace egemonia culturale imposta da Gramsci e dai suoi epigoni, dai singoli uomini di cultura (e di cultura politica) liberi da malizia ideologica ci si attende un approfondimento organico e articolato, che fornisca alla classe politica analisi ed elementi di valutazione.
Non è possibile realizzare un’azione politica realisticamente (non utopisticamente!) risanatrice, senza uno stretto gioco di squadra (non in termini di collateralismo bensì di sana collaborazione) fra i politici che intendono rispettare il diritto naturale e gli studiosi della scienza dell’ordine umano e sociale. Perché non sia vano il sacrificio di tante donne e di tanti uomini. E perché l’utopia non provochi nuovi imperdonabili lutti.