Il caso dell’ospedale “Buzzi”
di Eugenia Roccella
Ieri il Gip di Milano ha infatti archiviato il procedimento aperto contro il professor Nicolini, accogliendo la richiesta del pubblico ministero Marco Ghezzi. Nel comportamento del primario non è stato rilevato nessun illecito penale, nonostante non avesse ritenuto necessario far sapere al Comitato etico dell’ospedale quello che stava facendo.
D’altra parte non si sa nemmeno come abbia potuto informare correttamente le donne: quale consenso possono aver sottoscritto le sue pazienti, se per il Methotrexato non c’è nessun protocollo autorizzato da un ente di controllo? Il farmaco infatti è stato usato “off label” cioè fuori dalle indicazioni prescritte; ma soprattutto, non esiste nessun Paese al mondo che abbia ufficialmente registrato il Methotrexato a scopi abortivi, anche perché il suo uso in questo senso è fermamente sconsigliato dall’Organizzazione mondiale della Sanità. Perché, allora adottarlo?
La volontà, tutta politica e ideologica, di introdurre in Italia l’aborto chimico sembra aver fatto impazzire il nostro sistema sanitario. Poiché la ditta che distribuisce il più diffuso dei farmaci abortivi, la pillola Ru486, non intende sottoporre il suo prodotto al vaglio dell’Aifa, l’ente di controllo farmacologico italiano, in alcune regioni si è scatenata un’incredibile corsa al fai-da-te. I farmaci necessari vengono importati direttamente dagli ospedali, e usati fuori dalle indicazioni previste, senza la garanzia dell’Aifa. Se il Mifegyne (nome commerciale della vera e propria pillola Ru486) viene fatto arrivare dalla Francia, il Cytotec si può acquistare anche in Italia, dove è registrato come antiulcera.
Tutto questo avviene con la benedizione di alcune giunte regionali, come quella della Toscana, che sembra aver preso a cuore la diffusione della pillola abortiva più degli stessi che la producono. In questo clima di allegro lassismo è chiaro che a un medico possa venire in mente di provare anche altre sostanze; visto che nessuno di questi farmaci è autorizzato, perché non usarne uno che è facilmente disponibile in Italia e non richiede nemmeno la fatica di importarlo dall’estero?
Eppure il Consiglio Superiore della Sanità, nel 2004 si era espresso con estrema chiarezza: il metodo chimico, che non permette di prevedere il momento effettivo dell’espulsione dell’embrione, è compatibile con la 194 solo se la paziente rimane all’interno delle strutture pubbliche “fino al completamento dell’aborto e delle cure del caso”.
Questo parere non sembra essere tenuto in nessun conto: sia negli ospedali toscani dove si pratica l’interruzione di gravidanza con la Ru486, sia nel caso del Buzzi, l’aborto vero e proprio, in gran parte dei casi, è avvenuto fuori dall’ospedale. Stupisce anche l’affermazione del pm, secondo cui il Methotrexato costituirebbe “una tecnica più moderna e rispettosa dell’integrità fisica e psichica della donna”: è evidente che il pubblico ministero e i suoi consulenti ritengono la valutazione dell’Organizzazione mondiale della Sanità del tutto irrilevante.
La legge italiana sull’aborto è stata concepita per offrire il massimo di garanzie sanitarie alle donne. Ma se oggi dobbiamo affidarci ai furori ideologici di qualche assessore e alla fantasia di qualche medico, quella legge è già diventata lettera morta.