La parola “feto” significa “cucciolo”, cosa aderentissima all’evidenza scientifica, ma che oggi finisce col significare un’entità “non-ancora-persona”, dunque con connotato nettamente negativo, tanto da far dimenticare spesso che stiamo parlando di un bambino; di uno di noi.
di Carlo Bellieni
Ne descrivono anche certe caratteristiche psicologiche, precorrendo l’evidenza scientifica di secoli: “Una medesima anima governa questi due corpi; e li desideri e le paure e i dolori sono comuni sì a essa creatura come a tutti li altri membri animati. E di qui nasce che la cosa desiderata dalla madre sono trovate scolpite in quelle membra del figliolo. E una subita paura ammazza la madre e il figliolo”.
Come non vedere in queste parole quanto la moderna psicologia ha accertato sull’imprinting prenatale dei sentimenti? E di come processi depressivi materni in gravidanza possano restare impressi nel figlio a distanza di anni?
Quello che colpisce di queste note è anche un altro punto molto attuale: non vi compare mai la parola “feto”. Parlando del figlio, Leonardo usa solo il termine “putto”, alternandolo con “figliolo”. Questo suggerisce una considerazione: da quando si è iniziato a usare un termine specifico – feto – per indicare il figlio non ancora nato? Sembra strano, ma una distinzione netta è veramente recente.Nel corso dei secoli i termini bambino e feto erano spesso intercambiabili, pur usandosi “feto” per lo più a indicare lo stato pre-natale.
Ritroviamo in testi settecenteschi espressioni come “La madre somministra al feto quei sieri che conserva nel seno e questi tirati dal feto servono al medesimo da purgante” (Francesco Valle, Opera d’Ostetricia, Firenze, 1792) e nel Satyricon di Petronio leggiamo: querulae fetus suis, hostia lactens (“vittima ancora lattante, il feto della querula scrofa”).
Il termine “feto” deriva infatti da una radice indoeuropea che significa “succhiare” e la parolafetus in epoca romana significava esattamente “frutto” oppure “progenie”: nec ulla aetate uberior oratorum fetus fuit (“più dovizioso che in alcun’altra epoca il frutto di oratori fu”), scriveva Cicerone (Brutus, v); e Catullo indicava come dulces musarum fetus i figli delle muse, cioè le poesie (Carmen lxv, Ad Hortalum).
Insomma, i romani non usavano il termine feto solo per indicare il bambino nascituro, perché sapevano bene che il figlio non ancora nato era un puer: Puer an puella matris esset in ventre (“Che un bimbo o una bimba fosse nel ventre”) scriveva Marziale (Epigrammi, xi), per non parlare poi dei riferimenti biblici – “Appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo” (Luca, 1, 40).
Anche certe tracce nel linguaggio moderno ci testimoniano questo: il termine fawn in inglese – come l’analogo faon in francese – significa “cucciolo”, ovvero “cerbiatto”, e deriva proprio dalla parola fetus, attraverso una sua deriva del termine tardolatino feto (-onis) di ugual significato.
Addirittura era tale la coscienza in epoca romana che il figlio non ancora nato fosse un bambino che già allora poteva essere abilitato a ereditare dal padre premorto; e che, in caso di agonia materna, godeva del diritto di essere estratto dal ventre con intervento chirurgico in base alla lex Regia – poi denominata lex Caesarea, onde il termine di parto cesareo.
Eppure a un certo punto della storia, si è deciso di usare i termini in modo restrittivo: “feto” solo per il figlio non ancora nato, e “bambino” dal parto in poi. Ma cosa cambia fisiologicamente col parto? In realtà ben poco: entra l’aria nei polmoni, si chiudono dei piccoli circuiti nel cuore, e si stacca la placenta.
Ma la luce già in parte filtrava agli occhi attraverso l’utero teso, il bambino dentro l’utero già sentiva i suoni, già si succhiava il pollice, aveva il singhiozzo, aveva un cuore ottimamente funzionante, un cervello che elaborava le sensazioni e addirittura sognava, e sentiva – se stimolato – il dolore.
Dunque alla nascita cambia ben poco. Allora perché usare in modo così stigmatizzante il termine “feto”, quasi a significare che prima e dopo il parto si parla di due entità distinte?
E, si badi bene, che si tratta di un termine particolare: in primo luogo non ha un maschile e un femminile, cioè la connotazione sessuale che individua la persona; poi ricorda semanticamente delle parole spiacevoli, quali “difetto”, “fetore”, “feticcio”: l’ideale per significare un’entità aliena. In francese e in inglese si assiste addirittura a una comparsa del dittongo oe (foetus) che non era presente in latino, quasi a dare una scientificità e dunque una reificazione al termine.
D’altronde anche il termine “embrione” ha subìto un destino simile, dato che in origine più che una parola era una specie di aggettivo che vuol dire “che fiorisce dentro” (en-brýein), il cui soggetto, evidentemente è “il bambino”, in Omero “giovane animale”.
Certo, se si pensa che “embrione” è il figlio fino all’ottava settimana di sviluppo e che a quel livello già è presente il battito del cuore e i primi movimenti, ben si capisce quanto questo possa essere imbarazzante per chi usa l’embrione umano come materiale da ricerca.
Nel 2005, la rivista “Nature” in un editoriale bacchettò i biologi che a un importante congresso proponevano di non usare più la parola “embrione”, perché sostenevano che “suscitava emozioni troppo forti”. Far sparire il termine embrione, continuava la rivista, “semmai esporrà gli scienziati all’accusa di tentare di prendere le distanze dai difficili problemi morali, cambiando i termini del dibattito”.
Certi brutti termini, lo sappiamo, servono a dividere e ad accentuare delle diversità; a sottolineare delle differenze di diritti, laddove non ci sono oggettive e scientifiche ragioni per un diverso trattamento: basta chiamare un’etnia con un termine dispregiativo per condizionare il modo di guardare a essa e trattarla.
Lo stesso avviene col termine “feto”, una parola che significa “cucciolo”, cosa aderentissima all’evidenza scientifica, ma che oggi finisce col significare un’entità “non-ancora-persona”, dunque con connotato nettamente negativo, tanto da far dimenticare spesso che stiamo parlando di un bambino; di uno di noi.
Non si tratta di rivoluzionare il vocabolario, ma di riprendere a chiamare le cose col loro nome, di chiamare “bambino” un bambino, seppur non ancora nato; perché nel nome che diamo sta il giudizio che ne abbiamo; proprio come 500 anni fa insegnava Leonardo da Vinci, padre della scienza moderna, maestro della ricerca sulla vita dell’uomo non ancora nato.
(A.C. Valdera)