«Il principio di precauzione dovrebbe condurre a ben diverse conclusioni» Impossibile «dire parole definitive sulla coscienza delle persone che si trovano in questo stato» Appello per Eluana di un gruppo di penalisti
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Con profondo senso di umana solidarietà verso le famiglie impegnate nell’assistenza di persone in stato vegetativo permanente, riteniamo necessario esprimere la nostra preoccupazione quali docenti di diritto penale circa alcuni orientamenti desumibili dalle recenti sentenze adottate in sede civile dalla Corte di Cassazione e dalla Corte d’Appello di Milano in merito al caso di Eluana Englaro.
Secondo le argomentazioni svolte dalla Corte d’Appello quale giudice di rinvio, infatti, una volta che sia riferibile per via indiziaria a un soggetto ritenuto irreversibilmente incosciente il desiderio di non vivere tale situazione di grave precarietà esistenziale, l’omissione, da parte delle persone tenute alla tutela, dell’ulteriore somministrazione di idratazione e alimentazione, che provoca la morte del soggetto, sarebbe qualificabile come conforme al diritto.
D’altra parte idratazione e alimentazione, essendo fattori necessari al perdurare in vita di ogni individuo, ancorché sano, non posseggono alcun significato inteso al contrasto di uno stato patologico; non possono, pertanto, costituire, anche quando realizzati attraverso modalità mediche, un trattamento terapeutico e, segnatamente, un trattamento sproporzionato, come tale non dovuto.
Non a caso, l’idratazione e l’alimentazione, salvo che il corpo non sia ormai in grado di assimilarle, vanno assicurate anche nell’ambito delle cure palliative cui ha diritto – pure se ricoverato in un hospice – il malato terminale.
Tutto ciò rende tra l’altro palese che quanto viene in gioco nel momento in cui si chieda di interrompere l’idratazione e l’alimentazione in rapporto ai contesti in esame non è un giudizio riferito a tali interventi, ma – inevitabilmente – alla condizione esistenziale dello stato vegetativo.
Le conclusioni sinteticamente richiamate appaiono in contrasto con alcuni principi fondamentali del diritto vigente. Esse, infatti, sembrano rendere comunque lecite, supposto il consenso, attività volte a destrutturare presidi in atto di tutela della vita, senza alcuna considerazione circa le caratteristiche proprie di quei presidi (caratteristiche che ne consentirebbero la disattivazione ove fossero tali da qualificarli come atti terapeutici sproporzionati).
Verrebbe in tal modo a configurarsi la liceità, finora inedita, dello stabilirsi sulla base del consenso (addirittura ricostruito per via meramente indiziaria, senza alcuna certezza in ordine alla reale volontà della persona) di relazioni giuridiche orientate al prodursi della morte, e non già a evitare forme di c.d. accanimento terapeutico. In pratica, l’agire che si ritenga consentito volto al prodursi della morte di un determinato individuo, solo che la morte si realizzi per via omissiva (in termini di c.d. eutanasia passiva), sarebbe sempre ritenuto ammissibile.
Il che risulta in contraddizione con l’assetto della tutela concernente la vita umana nel codice penale e, per quanto specificamente concerne l’attività medica, con i fini che caratterizzano la medesima ai sensi dell’art. 1 del codice deontologico.
D’altra parte, non può essere desunta dalle considerazioni relative ai profili di non coercibilità dell’intervento medico nei confronti di una persona cosciente e informata l’affermazione di un diritto all’altrui cooperazione per la morte, tale da rendere ammissibile qualsivoglia conseguente disattivazione di presidi in atto volti alla conservazione della vita.
Né, in ogni caso, appare sostenibile che dalla ricostruzione dell’atteggiamento di una persona ritenuta incosciente verso una data condizione patologica possa essere dedotto il suo assenso specifico a essere lasciata morire di sete e di fame. Tanto più alla luce della completa mancanza, in uno stato vegetativo permanente adeguatamente assistito, di indizi che lascino supporre sofferenza. Quantomeno il principio di precauzione dovrebbe condurre, pertanto, a ben diverse conclusioni: anche in rapporto all’impossibilità di dire parole definitive circa dimensioni profonde della coscienza nei soggetti che si trovano in tale stato.
Sulla base di questi rilievi riteniamo che mutamenti di orientamento giuridico così importanti circa la tutela della vita umana non possano avvenire senza un’attenta considerazione dell’intero assetto normativo vigente e in mancanza di un intervento del legislatore. Anche in considerazione dei rischi, diretti e indiretti, che tali mutamenti possono rappresentare in rapporto alla tutela dei diritti fondamentali incondizionatamente spettanti, quale fondamento del principio di uguaglianza, a tutti gli individui umani sulla base esclusiva della loro esistenza in vita.
Salvatore Ardizzone professore di diritto penale all’Università di Palermo
Ivo Caraccioli professore di diritto penale all’Università di Torino
Luciano Eusebi professore di diritto penale all’Università Cattolica di Piacenza
Marcello Gallo docente emerito di diritto penale all’Università di Roma
Ferrando Mantovani professore di diritto penale all’Università di Firenze
Mauro Ronco professore di diritto penale all’Università di Padova