Se è sbagliato equiparare la fede in Allah alla religione della guerra santa, per una chiara scelta a favore della non violenza occorrerebbe favorire una lettura critica del Corano. Un aggiornamento culturale cui possono contribuire i cristiani.
Samir Khalil Samir (*)
Come stanno davvero le cose? Che cosa dice il Corano al riguardo? Come si possono avere dei punti di vista così contrapposti? Quasi ogni giorno, la stampa riferisce tutta una serie di fatti che inducono a pensare che la violenza costituisce parte integrante di questa religione. D’altronde, decine di organizzazioni musulmane sparse in ogni angolo del mondo racchiudono nei loro nomi il termine jihàd, che i media sono soliti tradurre con “guerra santa”.
Ciò non toglie che, un attimo dopo aver formulato tale affermazione, qualcuno potrà spiegare che si tratta della “piccola jihàd“, contrapposta per l’esattezza alla “grande jihàd“: è questa la distinzione, di cui si sente spesso parlare in televisione o nelle conferenze, ma che viene quasi sempre operata da non arabizzanti.
Se si dicesse che, nel mondo musulmano, jihàd significa per tradizione “la guerra sul cammino di Dio” – che l’Occidente definirebbe più semplicemente “la guerra santa” – si otterrebbe questa risposta: non avete capito niente, jihàd significa “sforzo” e la grande jihàd rappresenta lo sforzo contro se stessi, l’ascesi spirituale! In realtà, se si cerca nel Corano un riferimento alla jihàd dell’anima, della lingua, della penna (del qalam), della fede o della rettitudine, purtroppo non si trova nessun indizio che possa giustificare tale affermazione, e si faticherebbe non poco a trovarne uno. Ciò non impedisce comunque alle persone di continuare ad affermarlo.
Il Corano non contempla né la grande né la piccola jihàd. È conosciuto, di fatto, un solo hadith, ovverossia una “frase” attribuita a Maometto, secondo la quale egli, di ritorno da una spedizione di guerra, avrebbe detto: «E ora passiamo dalla piccola jihàd alla grande jihàd». Si tratta dell’unica attestazione che troviamo nelle fonti. Vedremo come interpretare quel testo.
Il Corano presenta due opinioni contrapposte. Alcune persone serie dicono a ragion veduta: «II Corano sottolinea e afferma la tolleranza rispetto a chi non è d’accordo con lui», e citano inevitabilmente il versetto coranico (2, 265): «Nessun obbligo in materia di religione» (là ikràh fi I-din). Si tratta di uno dei versetti più citati in Europa, in virtù del contesto politico internazionale e per il fatto che i musulmani vengono facilmente accusati di fomentare il terrorismo.
Ma si citerà anche: «Combattete sulla via di Dio coloro che vi combattono ma non oltrepassate i limiti, che Dio non ama gli eccessi. Uccidete dunque chi vi combatte dovunque li troviate e scacciateli di dove hanno scacciato voi, che lo scandalo è peggio dell’uccidere; ma non combatteteli presso il Sacro Tempio, a meno che non siano essi ad attaccarvi colà: in tal caso uccideteli. Tale è la ricompensa dei Negatori. Se però essi sospendono la battaglia, Iddio è indulgente e misericorde. Combatteteli dunque fino a che non ci sia più scandalo, e la religione sia quella di Dio; ma se cessan la lotta, non ci sia più inimicizia che per gli iniqui» (Corano 2, 190-193).
Qual è, dunque, l’islam autentico? Del resto, alcuni diranno: la guerra santa si trova in tutte le religioni, andatevi a leggere, soprattutto, l’Antico Testamento, in cui si celano pagine di una violenza inaudita. Altri arriveranno al punto di affermare, quantunque si tratti di un’osservazione meno frequente: anche nel Nuovo Testamento, il Cristo ha impugnato una frusta per scacciare i mercanti dal Tempio. E ha detto anche: «Non sono venuto a portare la pace ma la spada» (Mt 10, 34). Si citerà inoltre la parabola del convito dove il padrone ordina al servo: «Forzali a entrare» (Le 14, 23), giungendo così alla conclusione: vedete bene come anche il Cristo abbia fatto ricorso alla violenza!
È possibile comprendere questi passi contraddittori – e nessun musulmano mette in discussione il fatto che lo siano -, solo in una prospettiva storica e contestuale. Ora, è un dato di fatto che i musulmani (e neppure i cristiani, del resto) non leggono le loro Scritture nell’ordine cronologico della loro proclamazione, ma in quello che si trova oggi nel Corano, vale a dire dal capitolo 1 al capitolo 114.
Questa classificazione non è stabilita cronologicamente, bensì secondo la lunghezza delle sura. Se si eccettua la bellissima prefazione, che costituisce la prima sura, il Corano inizia con la “sura della Vacca”, la seconda nonché la più lunga, per concludersi con le ultime sure che sono composte da due o tre righe soltanto.
Si tratta insomma dello stesso metodo di classificazione che viene utilizzato per le lettere di san Paolo, ed è in quest’ordine che ogni musulmano legge e conosce il suo Corano. E così come noi non leggiamo le lettere dell’apostolo in ordine cronologico, ma cominciando dalla più lunga (la lettera ai Romani), per terminare con la più breve (la lettera a Filemone, che si compone di una sola pagina), anche le sura del Corano rispettano il medesimo criterio di classificazione.
Tale classificazione rende difficile la comprensione del testo, tanto più che la lettura storica del Corano è assai più importante rispetto a quella del Nuovo Testamento. Poiché quest’ultimo rappresenta infatti più una riflessione globale che una descrizione, esso risulta subordinato al contesto storico in misura minore del Corano. All’Università Saint Joseph di Beirut, insegno Bibbia e Corano.
Spesso dico ai miei studenti: «Studiamo questi libri come documenti storici, dal punto di vista storico, filologico». Con i cristiani è possibile; ma non con i musulmani. L’unico modo di uscirne è di affermare che il Corano è un documento storico, scritto da un essere umano. La laicità non esiste ancora nel mondo islamico, se non in quei musulmani educati nella cultura occidentale. In arabo abbiamo la parola “laicità”, ma molto spesso la si confonde con “ateismo”. I musulmani hanno bisogno di un illuminismo.
Occidente e islam, dialogo impossibile?
Negli ultimi decenni, la situazione sociopolitica del mondo musulmano è peggiorata. Il senso di umiliazione è aumentato a causa di svariati fattori. Fattori anzitutto interni, dovuti all’evidente mancanza di democrazia dei regimi insediati, e all’enorme disparità economica fra Paesi musulmani ricchi e Paesi poveri, e fra le persone di uno stesso Paese.
Come se non bastasse, l’oltraggio ai diritti umani è diventato un fenomeno talmente banale che non ci si prende nemmeno più la briga di reagire. Peggio ancora, nel caso della condizione subalterna delle donne: molte di loro non si sognano neppure di protestare, visto e considerato che questa condizione è stata giustificata “scientificamente”! A questi fattori si aggiunge l’inadeguatezza delle istituzioni rispetto alla mentalità dei numerosi musulmani ampiamente “segnati” dalle idee occidentali.
Esistono anche vari fattori esterni imputabili al predominio del mondo occidentale. Tale fenomeno vede i movimenti islamici recepire l’Occidente alla stregua di un universo “empio” e “antimusulmano”. Gli islamici hanno infatti teorizzato che l’Occidente ha bisogno di un nemico, un tempo ravvisabile nel comunismo; caduto il comunismo, oggi lo si è sostituito con l’islam. Oltre a essere ben lungi dal risolvere i problemi reali del mondo musulmano, questa teoria contribuisce addirittura a svilirlo. Al contrario, per questi movimenti islamici, essa rappresenta uno sprone per combattere quell’ Occidente nemico.
Quando oggi, in Europa, i musulmani e i loro simpatizzanti parlano sempre più di “islamofobia”, è lecito pensare che si tratta probabilmente di una risposta implicita al fatto che gli ebrei e i loro simpatizzanti parlano di “antisemitismo”. È possibile che vi sia un consolidamento di queste tendenze all’esclusione. Credo, tuttavia, che simili accuse siano anche imputabili al senso di vittimismo, tipico del mondo musulmano non meno che del mondo ebraico del nostro tempo.
Troppo facilmente ci si sente la vittima designata dell’altro. Si potrebbe pensare che in realtà il mondo musulmano si sente incapace di affrontare l’attuale situazione politica, militare, sociale e culturale, e che si percepisce come un’entità debole.
Nel caso della Palestina, l’ingiustizia di fondo e l’oppressione appaiono evidenti. Ne consegue che i giovani palestinesi ritengono di non avere più nulla da perdere né da aspettarsi da chicchessia, non importa se dal loro leader piuttosto che dai Paesi arabi o dalla comunità internazionale. Per molti di loro, non si prospetta nessun futuro: né un lavoro, né una casa, né una terra né, tanto meno, una patria. Il senso di rabbia, di frustrazione e d’impotenza li rende dunque disponibili ad adottare qualunque soluzione alternativa.
A quel punto non rimane che Dio. Di lui, almeno, si può essere sicuri, e il Corano, interpretato alla lettera, infonde quella certezza che manca a molti credenti. È sufficiente adottare una lettura fondamentalista perché il messaggio passi con maggior facilità, tanto più che questa è la lettura maggiormente praticata e diffusa da secoli.
Dio promette dunque una via d’uscita, quella della jihàd: se liberi la tua patria, sei un eroe e ti guadagni il paradiso. Si giocherà pertanto sul termine “patria”, utilizzando la parola ummah che evoca spontaneamente la comunità dei musulmani; così, si viene automaticamente trasferiti dal registro politico secolare al registro religioso coranico. Si può ben comprendere, quindi, qual è la molla che spinge dei sedicenni a trasformarsi in kamikaze: non hanno più nulla da perdere, perché hanno raggiunto il gradino più basso.
Oltretutto, nel 1948 fu istituito uno Stato ritenuto intruso nella regione storica della Palestina, all’epoca per lo più abitata da musulmani, ma anche da cristiani. La nascita di questo Stato finì per innescare una situazione insostenibile, scatenando un immenso rancore e una frustrazione molto profonda.
Un simile dramma, alimentato per oltre mezzo secolo dall’indifferenza, internazionale non meno che araba, non può giustificare gli atti di terrorismo, ma forse permette di comprenderli. Un evento più vicino a noi come quello dell’11 settembre 2001 non è stato causato dall’ingiustizia che sarebbe stata perpetrata nei confronti dei musulmani, o più generalmente dalla situazione ingiusta che regna nel mondo.
E, questo, per il semplice motivo che l’ingiustizia è sempre esistita ed esisterà sempre. Resta comunque vero che questo senso d’ingiustizia, più o meno fondato, può incoraggiare certi atti di terrorismo, specie se si fa leva su una teoria che giustifica simili atti nel nome di Dio.
Il punto di vista dell’islam sul terrorismo
Come si esprimono l’islam e gli imam in merito a questi atti di terrorismo? A volte si ha l’impressione di cogliere nelle loro dichiarazioni una certa “tolleranza”, soprattutto quando le vittime non sono dei musulmani. In linea di principio, tutti condannano simili azioni. Nella tradizione musulmana, sono condannabili perché, secondo la legge della guerra (jus ad bellum), nessuno ha il diritto di attaccare soggetti disarmati, a maggior ragione se si tratta di persone anziane, di donne o di bambini.
Per gli Arabi, un simile gesto era contrario all’onore. Perciò, quando l’Occidente ingiunge al rettore di al-Azhar, per esempio, di pronunciarsi su queste azioni terroristiche, la sua risposta è chiara: l’islam le respinge totalmente.
D’altronde, il suicidio è disapprovato dal Corano e dalla tradizione attribuita a Maometto (l’hadith), benché ciò non risulti evidente dai testi. Pare che i giuristi abbiano indurito la posizione di Maometto, e che la maggior parte di loro si rifiuti di pregare per una persona che si è suicidata, laddove alcuni arrivano al punto di considerarla empia (kàfir) e dunque condannata alla geenna.
E questo il motivo per il quale il suicida (kuffàr), non ha diritto, per principio, alla sepoltura. Al lato pratico, le posizioni sono meno chiare. Per quanto riguarda i kamikaze, occorre distinguere i combattenti impegnati in una “guerra di liberazione”, specie in Palestina, dai terroristi che non si trovano in una situazione di guerra. I primi sono quasi sempre considerati alla stregua di martiri (šuhadà’) e ricevono tutti gli onori, a differenza dei secondi che in genere vengono reietti dalla maggior parte dei musulmani, pur attirandosi la simpatia di molti altri.
L’islam ufficiale e le grandi scuole ufficiali come l’Azhar (al Cairo) condannano categoricamente i terroristi non combattenti e condannano blandamente quelli che combattono; spesso, vengono assimilati ai partigiani della seconda guerra mondiale. In realtà, più che dalla convinzione religiosa, le loro posizioni sembrano dettate da considerazioni di natura politica. Quando un governo chiede al mufti di emettere una decisione giuridica (fatwah) in una direzione ben precisa, egli trova sempre un numero sufficiente di argomentazioni giuridiche per sostenere quell’opinione.
Così, all’indomani della dichiarazione resa dai grandi mufti del Cairo e dell’Arabia Saudita riguardo al fatto che le azioni dei kamikaze palestinesi in cui avevano trovato la morte decine di civili erano inaccettabili, in quanto contrarie allo spirito di tolleranza dell’islam, il più famoso degli odierni imam, l’egiziano Youssef al-Qaradàwì, insediatesi a Qatar, e seguito da milioni di telespettatori, affermava: «Sono solo ignoranti che parlano come nel Medioevo, senza conoscere la situazione attuale», giustificando le azioni dei mujahidìn e dei fidà’iyyìn.
Un episodio ancor più significativo è avvenuto alcuni giorni dopo questa dichiarazione, l’11 gennaio 2002, quando oltre duecento ulema sunniti e sciiti convenuti a Beirut hanno legittimato gli attentati suicidi dei terroristi palestinesi «nel nome dell’islam e del Libro di Dio». Come si può vedere, la situazione attuale pone una serie di problemi pressoché irrisolvibili, per via dell’esistenza, nel Corano, di passi contraddittori, legati alle circostanze storiche.
La differenza fondamentale risiede fra i passi della prima fase, quella della Mecca, di solito più tolleranti, e quelli della fase di Medina, la cui intolleranza cresce parallelamente al consolidarsi del potere del fondatore dell’islam.
Fra i musulmani di oggi non si riscontrano letture sistematiche poiché, a quanto pare, nessun pensatore musulmano ha elaborato un sistema d’interpretazione del Corano globale e omogeneo. Esistono al massimo alcune tendenze, per non parlare dei numerosi progetti che indicano come si dovrebbe interpretare il Corano. Potremmo distinguere queste tendenze in quattro gruppi:
1) La tendenza maggioritaria, tradizionale e che domina ampiamente fra gli “uomini di religione” (rijàl al-din) è piuttosto intollerante ed è seguita dalla stragrande maggioranza dei musulmani.
2) La tendenza estremista, che può sconfinare nel fanatismo, coinvolge una compagine ristretta di persone. Fortemente motivata, trova sostegno in quei leader che conoscono bene la tradizione musulmana, ma che la leggono in chiave parziale. Questa tendenza, in crescita numerica da circa trent’anni, si pone come l’islam autentico, quello di Medina. In nome della fede, lega indissolubilmente fede e politica, legittimando la guerra e perfino il terrorismo.
3) La tendenza liberale si sforza di leggere il Corano conciliandolo con l’etica dei diritti dell’uomo, grazie a un’interpretazione umanistica. Questo gruppo annovera alcuni intellettuali che propongono una lettura che tenga conto della mentalità contemporanea, per reinterpretare i testi del VII secolo. Diranno, ad esempio, che l’ingiunzione di “tagliare la mano al ladro” deve essere compresa nel suo significato di tagliare “lo strumento del furto” e la sua causa, che non è la mano bensì la povertà. Questo gruppo, che intende riformare e modernizzare la società musulmana, non gode però di grande prestigio fra le masse.
4) Infine troviamo la tendenza sufi. Abbastanza diffusa in Occidente, pratica una lettura spirituale poco tradizionale; è soprattutto diffusa fra gli europei convertiti all’islam; presenta un carattere nettamente apologetico e ha uno scarso impatto sul mondo musulmano. Combattuta in alcuni Paesi musulmani, come l’Arabia Saudita o la Turchia, è tacitamente ammessa, se non addirittura incoraggiata, in Occidente, in virtù della sua “efficacia” nella conversione degli occidentali all’islam.
La grande difficoltà del pianeta-islam oggi è riconducibile all’assenza di un’autorità religiosa riconosciuta, contrariamente a quanto accade, per esempio, alle Chiese tradizionali (ortodosse e soprattutto cattoliche). Finché esisteva un’autorità politica unica, nel caso specifico il califfo, si poteva contare su un certo consenso. Oggi questa figura è scomparsa, generando quel profondo senso di smarrimento avvertito in particolare nel mondo arabo.
Per l’islam è l’ora dell’aggiornamento
Quale atteggiamento deve adottare chi non è musulmano? Esiste una pista da seguire, che sia in grado d’infondere speranza? Ne segnalerò due. Anzitutto, partendo dalla tipologia suggerita in questo contesto specifico, converrebbe puntare sulla prima categoria, quella degli “uomini di religione”, che avrebbero necessità di un’altra formazione. È un’impresa difficile, poiché si scontra con secoli di tradizione.
D’altro canto, essa presuppone la presenza di “istruttori” perfettamente rodati alle scienze tradizionali, che, pur padroneggiandole come i migliori specialisti, siano capaci, al tempo stesso, di fornirne una diversa chiave di lettura. Oggi, questa categoria di eruditi latita. Si può contare sulla presenza di ulema imbattibili sul testo del Corano, sui suoi commenti, sugli hadìth attribuiti a Maometto, sulle opinioni dei giuristi, ma i quali sono quasi sempre sprovvisti di una formazione accademica al di fuori dell’ambito religioso.
Di contro, esistono eruditi musulmani che hanno ricevuto un’eccellente formazione accademica non religiosa, e sono capaci di riflettere sui problemi del mondo con una grande ampiezza di vedute, ma che di solito non possiedono nessun tipo di formazione religiosa islamica; tutto ciò non li rende credibili presso gli “uomini di religione”. Manca, insomma, un “clero” profondamente ancorato alla tradizione musulmana e alla tradizione accademica “profana”. È questa la lacuna che bisognerebbe colmare a ogni costo
In secondo luogo, credo che i musulmani europei potrebbero ricoprire un ruolo importante, se non addirittura essenziale, in questo “aggiornamento” e lo potrebbero intraprendere, ma a una condizione: nella misura (ed è questa la parola-chiave) in cui accettano pienamente la civiltà dell’Occidente, con tutto quello che significa in termini di norme e di princìpi, e vi si integrano appieno senza nessuna concessione, facendo lo sforzo (ijtihàd) di discernere in questa civiltà ciò che è positivo e ciò che non lo è, e di ripensare l’islam dall’interno.
Si tratta di creare un islam che si senta a suo agio nella civiltà occidentale, ben integrato nella modernità, senza per questo rinnegare la sua fede. Un simile sforzo di rilettura del Corano deve essere compiuto. Mi pare che l’aspettativa dell’islam si collochi in Europa, alla quale il mondo musulmano è accomunato da un lungo tratto di storia. Ne consegue l’importanza, da un lato, di creare insieme ai musulmani relazioni fraterne e amichevoli, che, dall’altro, rappresentino un’esigenza e una sfida.
È un tipo di relazione che risulta particolarmente benvenuto se i due partner sono presenti; questo spiega l’importanza che possono avere i cristiani in Europa nell’approfondire simili relazioni. Una civiltà comune, fondata sui diritti dell’uomo, la vera tolleranza – che non è né indifferentismo né relativismo – e il valore assoluto della pace ricercata con tutti i mezzi mi sembra possibile. È questa la sfida da raccogliere insieme.