Un comune del vicentino restituisce la medaglia d’argento al valore. Per colpa di una strage provocata dai partigiani
di Luciano Gulli
Dodici anni di baruffe, di muro contro muro, di velenose polemiche, prima che a Pedescala si svolgesse una cerimonia come quella di ieri mattina: con la bandiera del Comune «smedagliata» e senza la presenza dei partigiani, che negli anni passati, barando al gioco, si erano impadroniti di quei mori facendoli diventare «cosa loro». Cosa loro furono, in effetti; ma nel senso che quegli 82 inutili morti pesano dal primo all’ultimo sulle coscienze dei «fazzoletti rossi». Stavolta, perciò, i partigiani sono rimasti dove i pedescalesi volevano: fora dale bale.
A raccontarla in due parole, la storia è questa. Il 30 aprile 1945, a guerra finita da cinque giorni, una colona di tedeschi in una ritirata da Schio verso Trento cadde in un’imboscata tesale, nei pressi di Pedescala, da una formazione di partigiani. I tedeschi ebbero sette morti. La rappresaglia, crudele e spietata, scattò immediata. Entrati nel paesello, i tedeschi ammazzarono 63 persone mutilandone orrendamente i cadaveri e dandoli poi alle fiamme.
Altri 19 civili cadevano intanto sotto il piombo dei tedeschi nei vicini villaggi di Forni e Setterà. La carneficina durò tre giorni interi senza che i partigiani (e se ne contavano a migliaia all’intorno) muovessero un dito per difendere la popolazione inerme. Spararono, insomma, e sparirono.
Le pratiche per ottenere una medaglia d’oro in ricordo di quelle povere vittime vennero avviate dal comune di Valdastico nel 1958, ma si dovette aspettare il 1980 perché la richiesta venisse esaudita. La medaglia era d’argento, ma i pedescalsi erano contenti lo stesso. Senonchè, invece di celebrare il sacrificio dei loro padri, delle madri, dei figli, dei fratelli, delle sorelle morti senza sapere perché, la ricompensa veniva assegnata «al valor militare per attività partigiana».
Nella lunga e dotta motivazione si spiegava come Valdastico avesse valorosamente «contribuito alla lotta partigiana, opponendosi con fierezza ai rastrellamenti e alle distruzioni operati dall’invasore». Un falso storico bello e buono, insomma. Per i parenti delle vittime che si appellarono inutilmente a Pertini , buon’anima, quella motivazione suonò come un affronto. «Veder premiati coloro che provocarono l’uccisione di 63 persone inermi ci sembrò allora, e continua a sembrarci oggi, un insopportabile insulto», dice Camillo Pretto, 58 anni, che del Comitato vittime civili è l’infaticabile animatore.
Pedescala, un paesello di 250 persone, sorge ai piedi dei monti che orlano a ovest l’Altopiano di Asiago, all’inizio della Valdastico. Nell’aprile del ’45 vi abitavano 400 persone. Camillo Pretto, ultimo di undici fratelli, aveva 8 anni ma l’orrore di quei giorni gli è rimasto scolpito per sempre nella memoria. «Mio padre cadde sotto i miei occhi, colpito da una pallottola. Mio fratello Franco, di 17 anni, fu obbligato a pendere il corpo di mio padre e ad accatastarlo assieme ai cadaveri di altri compaesani in piazza. Poi ammazzarono anche lui».
«I partigiani erano il terrore della vallata – denuncia con rabbia Maddalena Mattielli, 82 anni, che nell’eccidio perse il padre, il marito, un cognato – . Rubavano, saccheggiavano, sparavano. Altro che valor militare. Una manega de farabutti, erano». A Giovanna Dal Pozzo, che ora ha 83 anni, i tedeschi uccisero il padre, il marito e il figlio Claudio, un bambinetto di 4 anni. «Li ammazzarono e li bruciarono – ricorda ora, con gli occhi velati di pianto -. Se i partigiani non avessero attaccato i tedeschi, non sarebbe successo. Questo è quello che io ho da dire. Ma non odio nessuno. Che Dio li premi secondo i loro meriti».
La medaglia «falsa e bugiarda» è rimasta in comune, mentre dall’Australia e dal Canada, per festeggiare l’evento, sono arrivati anche i fratelli di Camillo Pretto, Battista, Fausto ed Ernestina. E per la prima volta, davanti alla chiesa di Sant’Antonio, i pedescalesi hanno avuto la cerimonia che volevano: la messa cantata, il picchetto d’onore degli alpini, i discorsi e la «banda di Mosson», giacche rosse e pantaloni neri, che ha dato il meglio di sé. Repertorio classico, naturalmente: dal «Piave mormorò» al «Silenzio fuori ordinanza».