Wahhabismo o arabia saudista, quella che finanzia moschee, madrasse talebane, Al Quaida e “letteratura particolare” in Usa. Robert Spencer, direttore di “Jihad Watch” racconta a tempi del business del “problema musulmano”. (e dell’inchiostro invisibile che separa moderati e fondamentalisti)
Marco Respinti
Il wahhabismo sarebbe però rimasto un dettaglio della storia se non fosse che da poco meno di un secolo è il secondo nome dell’Arabia Saudita, fondata nel 1932 da quella piccola tribù dei Saud che si ritrovò a regnare con scettro di ferro sopra un oceano di idrocarburi e petrodollari. Da allora il wahhabismo è la religione più ricca del mondo, quella che ce l’ha con più persone contemporaneamente e decisamente la più missionaria.
La dinastia saudita finanzia centinaia di moschee, di centri islamici e di scuole nel mondo. Poi case editrici e centri di propaganda. Dappertutto il wahhabismo insegna il fanatismo. Wahhabite e pagate da Riad erano le madrasse del Pakistan da cui uscirono i talebani. Wahhabita e legata a quella stessa finanza è al Qaeda. Wahhabite e foraggiate dalla casamadre saudita è la miriade di pubblicazioni fondamentaliste di cui vive gran parte dell’islam statunitense.
Deepak Lal, docente all’Università della California di Los Angeles, definisce il wahhabismo la forma d’islam più virulenta e retriva esistente al mondo, e punta il dito contro il veleno che esso sparge nel mondo mediante un proselitismo capillare.
Quello ben documentato per esempio dal rapporto Saudi Publications on Hate Ideology Fill American Mosques, compilato da una commissione della Freedom House di New York, il Center for Religious Freedom di Washington. Fondato più di 60 anni fa da Eleanor Roosevelt, Wendell Willkie e altri americani spaventati da dittature e dispotismi, Freedom House sorveglia il livello della democrazia nel mondo. Difficilmente può essere definito neocon.
Anzi, ha più le stigmate di certo internazionalismo progressista che del tipico conservatorismo americano. Nondimeno è tranciante. I centri di cultura e le scuole islamiche degli Stati Uniti sono in gran parte emanazioni saudite, e in essi circolano libri di testo e opuscoli che incitano all’odio e alla violenza.
“Microstati islamici” dentro gli USA
È il primo studio completo sulla diffusione della propaganda wahhabita negli Usa. Testando i centri di cultura islamica di grandi città americane rileva come biblioteche, angoli della “buona stampa” e scuole part e full-time legate alle moschee pullulino di letteratura alquanto particolare. Raccolte di fatwa contro gli infedeli, “commenti” al Corano che istigano al jihad, libri di sentenze e di massime dei leader dell’islamismo contemporaneo dirette contro il Grande Satana e i suoi tentacoli nel mondo.
Non male se si pensa che – come afferma il rapporto finale della Commissione speciale sull’Undici Settembre – «queste scuole wahaabite finanziate dall’Arabia Saudita sono sovente le uniche scuole islamiche esistenti». La commissione di Freedom House ha raccolto oltre 2 mila fra libri e opuscoli di questo tipo diffusi negli Usa. Il 90 per cento sono in lingua araba, il resto si dividono fra inglese, urdu, cinese e tagalog.
Sono tutte pubblicazioni collegate direttamente ai Saud, talora così esplicitamente – libercoli stampigliati dal ministero dell’Educazione saudita o distribuiti ufficialmente dall’ambasciata di Riad negli Stati Uniti – da lasciare sconcertati.
Uno dei luoghi più noti dove fino a poco tempo fa era facile fare incetta di materiale così è l’Institute of Islamic and Arabic Sciences di Fairfax, in Virginia. Presidente del suo consiglio di amministrazione era il principe Bandar bin Sultan, l’ambasciatore saudita negli Usa. Con lui operavano nell’istituto altri 16 funzionari con passaporto saudita, espulsi nel 2004 dal Dipartimento di Stato con l’accusa di estremismo.
Fino a quasi tutto il 2003 l’istituto era ufficialmente un campus aggiunto dell’università islamica Imam Mohamed Ibn-Saud di Riad: faceva cioè parte del sistema universitario statale saudita, finanziato e controllato dal ministero dell’Educazione di re Fahd. Anche gli Stati Uniti hanno insomma un “problema musulmano”. Sia chiaro: non “tutti i musulmani sono un problema”, ovvero “i musulmani sono un problema”. Ma una parte del mondo islamico crea problemi anche al Paese che per definizione rima con immigrazione, assimilazione e addirittura melting pot.
Analizzando il documentato rapporto di Freedom House, lo afferma schiettamente Robert Spencer, direttore di “Jihad Watch”, un osservatorio informatissimo e disincantato che tiene costantemente sott’occhio l’islamismo mondiale. Cattolico di rito greco-orientale (ne è diacono), saggista, commentatore radiofonico e autore di cinque libri, a Spencer, che studia dettagliatamente l’islam dal 1980, piace precisare come negli Usa siano molti i musulmani che rispettano il pluralismo religioso e il principio di distinzione fra Stato e Chiese.
Epperò ricorda che ce ne sono pure altri, molti altri, che fanno di tutto per far saltare in aria un equilibrio a tratti delicato ma comunque funzionante. Addirittura c’è chi, dice Spencer a Tempi, «si adopera per creare enclave parastatuali islamiche dentro gli Stati Uniti». Una prospettiva fantascientifica, ma rischia d’incendiare animi già bollenti.
Corde saudite in casa dell’impiccato usa
C’è per esempio Ibrahim Hooper del Council on American-Islamic Relations, un «organismo comunemente riconosciuto come un gruppo neutrale pro diritti civili», il quale si è fatto sorprendere a dire cose così: «Non vorrei dare l’impressione di non gradire l’idea di vedere, in un qualche futuro, il governo degli Stati Uniti divenire musulmano».
L’affermazione tiene, – commenta Spencer – «ma è la cartina di tornasole di un problema enorme. Nel suo insieme, la comunità islamica statunitense non conosce soluzione di continuità fra jihadisti e moderati. Proprio come negli altri Paesi». Non vuol dire, certo, che i moderati non esistano, ma significa che il confine che li separa dai fondamentalisti è tracciato con inchiostro invisibile.
E soprattutto che se le scuole e i centri di cultura islamici formano studenti e frequentatori con il profluvio di materiali wahhabiti che provengono dall’Arabia Saudita, il musulmano medio fa presto (fidandosi delle proprie guide e dei propri maestri) ad “approfondire la dottrina” tramutandosi, giorno dopo giorno, in un jihadista fanatico.
Negli Stati Uniti di oggi è peraltro impensabile che i grandi mass-media indaghino su ciò che davvero s’insegna in certe scuole confessionali. Non è politicamente corretto e nessuno ha voglia di fare la figura dell’intollerante. Nel Paese della libertà, nemmeno le scuole confessionali cristiane subiscono la persecuzione amministrativa che è invece una triste realtà in altri Paesi.
Però, dato che il liberal perde il pelo ma non il vizio, spesso si montano colossali quanto infondati processi alle intenzioni per dire che sì, insomma, certi cristiani troppo convinti – magari usciti da certe scuole cristiane sul serio – violano la laicità del Paese con i loro gesti pubblici e politici. Il fondamentalismo wahhabita applaude e sotto i baffi ride di certi babbei.
«È il classico autogol – commenta Spencer – della cultura progressista che contrabbanda il rispetto e la libertà con lo smarrimento e l’afasia». Una versione del famoso detto leniniano secondo cui i capitalisti comperano dai comunisti la corda con cui questi stessi poi l’impiccheranno. Oggi, al di là dell’Atlantico, quella corda reca il marchio “made in Saudi Arabia”. O forse è un coltello.