Laogai Research Foundation
14 marzo 2016
Marchi contraffatti che tolgono 5 miliardi all’erario. Riciclaggio. Prostituzione. Metanfetamine anti-fatica. Come la criminalità cinese fa affari nel nostro Paese.
Traffico di umani, contraffazione di marchi, droga, riciclaggio di denaro, estorsione prostituzione e altro ancora. È il business della “Mafia cinese”. Un rapporto del 2013 pubblicato da Transcrime.it riferiva che questa organizzazione si stava ramificando in vari stati dell’Unione europea, come Francia, Spagna, Regno Unito, Paesi Bassi e l’Italia. Non è affatto unitaria come Cosa nostra o altri gruppi, ma si articola a più livelli, in bande giovanili, organizzazioni criminali indipendenti e nelle Triadi (strutturata in modo complesso e con la caratteristica di infiltrarsi in altre organizzazioni).
ACCORDI SUL TERRITORIO. Da noi si sta evolvendo, spiega il sostituto procuratore Antimafia Olga Capasso, e in zone dove le mafie sono radicate agisce «attraverso alleanze e accordi» con questa. «I clan cinesi si appoggiano così alla camorra e alla ‘ndrangheta per poter usufruire della protezione necessaria per insediarsi sul territorio». Non mancano le frizioni, come nel 2002, quando a Napoli i cinesi scesero per strada e manifestarono per chiedere alla camorra di abbassare il pizzo, ottenendo quanto richiesto per non avere gli occhi dei media addosso. Oggi la mafia cinese è “testa di ponte” dell’espansione imprenditoriale camorrista in Cina.
FENOMENO SOTTOVALUTATO. Nonostante tutto è sottovalutata, anche se parliamo di un fenomeno che – spiega la Direzione investigativa antimafia (Dia) – si concentra in Lombardia, Toscana, Lazio, Emilia-Romagna e Campania, entro una comunità composta da circa 200 mila soggetti che aumenta del 5% l’anno (si pensi a Prato, con 50 mila unità, cioè il 30% dei residenti) che ha costruito una rete di imprese – 50 mila nel 2009 con un picco del 131,1% rispetto al 2002 – dove, per via dell’impenetrabilità delle comunità cinesi, è facile l’infiltrazione mafiosa. Le varie Chinatown, in cui si tendono a ripristinare le tradizioni cinesi, portano molti abitati chiudersi in se stessi, non facilitando né le indagini né l’integrazione.
IMMIGRAZIONE ILLEGALE. Alla base vi è l’immigrazione illegale che, spiega Capasso, è in continua crescita dagli Anni 70 poiché i cinesi in Italia con un regolare posto di lavoro e la possibilità di richiedere un permesso di soggiorno sono un numero limitato. I viaggi, via aerea, marittima o addirittura via terra, partono dal Sud della Cina, dalle coste dello Zhejiang e del Fujian, fino all’Europa attraverso la Russia e l’Asia dopo migliaia di chilometri. All’arrivo è facile “mimetizzarsi”, visto che i cinesi hanno documenti originali ma falsificati, con l’apposizione della foto dell’immigrato, che vengono poi ritirati e riutilizzati per altri irregolari.
PREZZO DEL VIAGGIO: 15 MILA EURO. Una volta arrivati a destinazione le vittime vengono smistate e indirizzate chi alla prostituzione, chi allo sfruttamento in nero, dopo aver contratto un debito di oltre 15 mila euro, il prezzo del viaggio. Chi non paga – e in parte ci si rifà con lo sfruttamento citato, in parte è a carico dei parenti in patria -, può andare incontro a tristi conseguenze per lui o per i suoi cari, come il sequestro di persona o peggio.
GLI AFFARI SI FANNO CON LA CONTRAFFAZIONE DEI MARCHI
Uno dei traffici più redditizi del crimine organizzato cinese è la contraffazione dei marchi che, spiega la polizia, dai principali porti italiani di Genova, Gioia Tauro, Napoli e Taranto arrivano nei nostri mercati, specie nel Nord, un traffico stimato fra il 2 e il 7% dell’intero commercio mondiale, influenzando negativamente le finanze già oberate del nostro Paese. Uno studio del Censis quantificava il peso della contraffazione in termini di mancato gettito in oltre 5 miliardi di euro, il 2,5% delle entrate tributarie: un costo eccessivo se rapportato alla qualità scadente rispetto agli originali.
SOTTRATTI 6 MILIARDI. L’ufficio d’analisi d’intelligence della Guardia di finanza denuncia che «l’industria del falso sottrae ogni anno alle imprese manifatturiere 6 miliardi di euro, bruciando 1,5 miliardi in termini di evasione di Iva e circa 120 mila posti di lavoro in tutta l’Unione europea». Non è un fenomeno velleitario: in una rapporto del 2006 la polizia parla del sequestro di «30 mila capi di abbigliamento con marchio contraffatto a Prato, 1.700 scarpe griffate […] a Pescara, 13 mila capi […] a Bologna, 6 container con oltre 250 mila prodotti di pelletteria e abbigliamento con marchi contraffatti […] a Napoli». A Torino «si calcola che i prodotti con marchi contraffatti sequestrati siano più di 20 mila», 50 mila a Lecce, 90 mila capi di pelletteria a La Spezia, 150 mila a Udine, eccetera.
SOLDI INVESTITI IN LOCALI. Un fenomeno enorme che rivela una capillarità del problema e una disponibilità di liquidi molto alta; soldi poi reinvestiti sul territorio con l’acquisto di immobili, bar e ristoranti. Questa “colonizzazione del territorio” permette alla mafia cinese di radicarsi tramite esercizi dove spesso lavora personale taglieggiato e costretto a regimi di sfruttamento. Il locali sono spesso acquistati in contanti, rilevati ai precedenti proprietari con cifre altissime come buona uscita nonostante le norme anti riciclaggio limitino i pagamenti liquidi al massimo di 5 mila euro.
TASSI D’INTERESSE D’USURA. Successivamente le organizzazioni criminali, dopo essersi impossessati del locale, collocano una famiglia immigrata a loro scelta alla gestione del locale per restituire a tassi d’interesse d’usura i soldi prestati e il costo delle merci da vendere. Non solo: un’altra fonte di reddito prolifera è il gioco d’azzardo, svolto in bische clandestine situate o in anonimi appartamenti o nel retro di bar. Il fiume di denaro sporco ricavato delle giocate illegali, che coinvolgono cittadini italiani e cinesi, viene in parte reinvestito con l’acquisto di altri immobili, in parte trasferiti direttamente in Cina e riciclati.
SI SPACCIA UNA METANFETAMINA CHE CONTRASTA LA FATICA DEI LAVORATORI Un documento del 2015 della Direzione antimafia «nota un trend di crescita per i delitti di riciclaggio» confermato da un’inchiesta della procura di Firenze, l’operazione “Cian Liu”, partita nel giugno 2010, che ha toccato più di 100 aziende, riconducibili a imprenditori cinesi, portando a un blitz della Gdf in varie regioni d’Italia e all’arresto di 24 persone, 18 cinesi e sette italiani, accusati dal 2006 di riciclaggio di 2,7 miliardi che dall’Italia finivano in Cina, alla Bank of China. Il magistrato Pietro Sucan ha parlato della scoperta di «un fiume di denaro fra Italia e Cina e un fiume di clandestini dalla Cina all’Italia, in una palude di connivenze, omissioni e interessi illeciti, non solo di cinesi, ma anche con la complicità interessata di diversi italiani».
DENARO SPORCO TRASFERITO. Un’associazione a delinquere italo-cinese legata alla famiglia cinese Cai che trasferiva il denaro sporco tramite la Money2Money, società di money transfert bolognese – con succursali a Prato, Sesto Fiorentino, Empoli, Milano, Roma e Napoli – che trasferivano capitali in Cina. Per quanto riguarda la droga, il crimine cinese si è specializzato nella produzione e spaccio di Shaboo, o Crystal meth, una forma di metanfetamina diffusissima negli Usa e in Asia usata per tenere svegli e utilizzata nei laboratori clandestini gestiti dal crimine cinese sui lavoratori per farli resistere alla fatica fisica. Per ora è quasi assente in Europa, ma potrebbe conquistare il mercato, tanto che la Direzione antidroga si è spinta a dire che i cinesi «stanno iniziando a inserirsi, anche se al momento principalmente all’interno delle proprie comunità locali, nel mercato nazionale degli stupefacenti», ipotizzando che, oltre a bordelli e bische clandestine, gli appartamenti in mano alla mala cinese potrebbero nascondere laboratori di ‘meth’.
PROSTITUZIONE, CHE BUSINESS. Ma la voce più “gettonata” e nota del business mafioso cinese è la prostituzione. Mentre il grosso delle prostitute lavorano per strada, quelle cinesi “esercitano” in appartamenti privati presenti nelle comunità, mentre oggi la principale copertura sono gli arcinoti centri massaggi, sorti come funghi in tutte le città italiane, postriboli dove giovani donne orientali vendono il proprio corpo a clienti italiani per poche decine di euro. Un mercato del sesso low cost per far concorrenza a quello dominato da altre nazionalità, coi cinesi che si sono accaparrati il 35-40% dell’intero mercato italiano. Un’indagine a campione condotta dal Codacons in tre delle maggiori città italiane, Milano, Roma e Napoli, ha fatto emergere che nel 40% dei casi abbiamo donne cinesi, contro il 25% di italiane, il 20% dall’Est, il 12% di sudamericane e il 3% per altre nazionalità.
CONTRASTO DIFFICILE. Che fare? Secondo la Capasso «alle organizzazioni viene contestata l’associazione a delinquere – articolo 416 del 1982 – mentre in pochi casi, soprattutto a Prato in Toscana, è stata contestata l’associazione mafiosa (art. 416 bis)». Ma è difficile applicare tale legge perché «l’organizzazione deve avere un organo al vertice e il radicamento sul territorio, caratteristiche non sempre riscontrabili nelle associazioni cinesi che spesso agiscono anche in luoghi diversi». Insomma, una durissima sfida per la legalità e l’economia italiana.