Non è vero che il default sovrano di un grande paese del mondo sviluppato è un’ipotesi assurda. E non è detto che il fallimento di uno Stato provocherà la sua catastrofe economica. Anzi. Sciagure e vantaggi di una disgrazia (im)possibile. Pubblichiamo l’articolo uscito sul numero 37 di Tempi
di Rodolfo Casadei
Filippo continuò a spendere per le sue spedizioni militari, mentre le entrate dall’antenato dell’Iva attese dalla Castiglia e dalle colonie spagnole di allora, Olanda e Americhe, continuavano a diminuire. Così nel 1557 fu costretto a dichiarare la moratoria sul pagamento dei suoi debiti. Era la prima volta che uno Stato sovrano in epoca di capitalismo mercantile lo faceva.
Filippo ci prese gusto e dichiarò altre tre bancarotte nei successivi quarant’anni. Fece la felicità e la disperazione dei banchieri genovesi e tedeschi di Augusta, che giunsero a pigliarsi il 40 per cento delle entrate dello Stato spagnolo per il semplice pagamento degli interessi sui loro prestiti.
Da allora la storia si è ripetuta centinaia di volte, l’ultima è stata nel febbraio 2010, quando Standard & Poor’s ha degradato il rating della Giamaica dopo che le autorità hanno offerto di scambiare tutto il debito interno (702 miliardi di dollari giamaicani, pari a 5,7 miliardi di euro) con titoli a più lunga scadenza e a tasso di rendimento minore ma sicuro.
Nel giugno scorso la stessa agenzia ha reso nota la lista dei dieci paesi che avevano le maggiori probabilità di dichiarare bancarotta nei successivi dodici mesi: in testa alla lista c’era la Grecia, considerato il paese meno solvibile del mondo, ma non mancano paesi popolosi come Pakistan, Bielorussia e Argentina.
Uno studio del Fondo monetario internazionale (Fmi), opera dell’italiano Ugo Panizza e dell’argentino Eduardo Borensztein, conta ben 257 bancarotte nazionali fra il 1824 e il 2004; nei soli dieci anni fra il 1981 e il 1990 se ne sono avute 74, concentrate in Africa e in America latina al tempo della grande crisi del debito estero. In testa alla classifica ci sono Argentina ed Ecuador, che nel corso della loro storia hanno dovuto denunciare debiti dello Stato non pagabili ben sei volte.
La bancarotta è vecchia come il mondo, ma non è la fine del mondo. È la fine di un mondo. È una vicenda finanziaria che ha tremendi costi sociali, ma dai quali uno stato e un popolo normalmente escono cambiati in meglio. Con qualche eccezione, certo: la Germania che dopo anni di iperinflazione dovette dichiarare bancarotta nel 1932 come conseguenza delle riparazioni pagate in forza del Trattato di pace di Versailles, l’anno dopo si vendicò mandando Adolf Hitler al potere, con tutto quello che ne seguì. Le carriole piene di banconote da 50 miliardi di marchi con cui i tedeschi erano ormai costretti ad andare a fare la spesa vennero sostituite dai panzer, che portarono i loro cingoli a spasso per tutta l’Europa.
Tendenza Buenos Aires
Ma prendete il caso dell’Argentina: nell’ultima settimana del dicembre 2001 il suo governatore della banca centrale fu costretto a dichiarare che il paese non poteva onorare gli interessi di 82,26 miliardi di dollari di debito. Nell’anno che seguì il Pil crollò del 13,5 per cento rispetto all’annualità precedente, nei sei mesi successivi il peso si svalutò del 300 per cento rispetto al dollaro americano, mentre il numero dei poveri saliva a 19 milioni in un paese di 35 milioni di abitanti.
Da allora l’Argentina non è stata più riammessa al mercato internazionale dei prestiti, e solo l’anno scorso è stato abbozzato un accordo di ristrutturazione del debito coi suoi antichi e fino a oggi scornati creditori. Eppure nei sei anni fra il 2003 e il 2007 il Pil argentino ha ripreso a correre alla media dell’8 per cento all’anno, e dopo una flessione in coincidenza con la crisi mondiale del 2008-2009 ha ripreso la galoppata a tassi ancora più alti, vicini al 9 per cento. I poveri sono ridiscesi a 6 milioni circa e il reddito pro capite ora è leggermente superiore ai livelli pre default.
Com’è possibile? «Per la fortuna dell’Argentina il loro default si è incrociato con il boom delle commodities: si sono impennati i prezzi internazionali della soia, della carne e del grano, tutte produzioni tipiche argentine», spiega a Tempi Giulio Sapelli, docente di Storia economica alla Statale di Milano e autore del recente Un racconto apocalittico. Dall’economia all’antropologia (Bruno Mondadori). «Non gli hanno ancora riaperto l’accesso al credito?
Nel mondo d’oggi si può vivere e quasi prosperare anche se si è tagliati fuori dai prestiti internazionali: come sanno molto bene quelli che lavorano nel mondo finanziario (ma non lo dicono in giro), la gran parte della liquidità mondiale non passa attraverso la sovranità degli stati, attraverso le borse, ma attraverso le banche ombra. E badate bene, questo vale anche per l’Europa: la gran parte della liquidità che arriva alle banche non è sorvegliata dalla Banca centrale europea. L’Argentina arriva a finanziarsi attraverso, diciamo così, il mercato finanziario secondario».
Effettivamente, se ci pensate bene, i fotogrammi delle conseguenze socio-economiche dell’ultima bancarotta argentina sono vividi ma fugaci: il “cacherolazo” sotto le finestre della Casa Rosada, pentole, coperchi e mestoli in libera uscita sonora; la fuga in elicottero del presidente Fernando de la Rúa; uomini, donne e bambini che scavano nei rifiuti alla ricerca di materiali di recupero; le file di aspiranti emigranti davanti alle ambasciate spagnola e italiana; le file non solo di studenti alle mense scolastiche eccetera.
Poi arrivano un presidente della sinistra populista come Nestor Kirchner e un ministro centrista dell’Economia come Roberto Lavagna, e le cose cominciano ad andare a posto. La cosa interessante è che gli studi di Panizza e Borensztein confermano la fondatezza delle impressioni superficiali.
Una questione politica
Secondo i due reputati economisti i costi di un default sono di quattro tipi: la perdita di reputazione internazionale, la contrazione degli scambi commerciali, i costi patiti dall’economia nazionale e i costi politici. La perdita di reputazione implica l’isolamento del paese in bancarotta dal mercato internazionale dei capitali, l’abbassamento del rating e un aumento dello spread dei titoli di Stato di 400 punti in media. Una bella botta, quando si considera che lo spread fra i Btp italiani e i Bund tedeschi oscilla sopra e sotto i 300 punti.
Tuttavia rating e spread tendono a tornare ai valori precedenti l’episodio di default nell’arco di tre-cinque anni, secondo gli studi di Panizza e Borensztein. Lo stesso dicasi dell’import-export fra il paese in bancarotta e quelli che ha danneggiato non rimborsando i debiti: all’inizio c’è un crollo degli scambi, ma, di nuovo «abbiamo scoperto che l’effetto tende ad essere a breve termine e dura solo dai due ai tre anni».
Ancora meno pesante l’effetto della bancarotta sui tassi di crescita del Pil nazionale: «Mediamente gli episodi di default sono associati con una diminuzione di 2,5 punti percentuali del tasso di crescita nell’anno stesso del default. Tuttavia non si notano effetti significativi negli anni seguenti». Anzi: una tabella dell’Economist dello scorso anno mostra i tassi di crescita (o di decrescita) del Pil di 12 paesi che hanno avuto dei default fra il 1999 e il 2006, nei cinque anni precedenti e nei cinque anni seguenti la bancarotta.
Risultato: 8 hanno fatto nettamente meglio nel quinquennio successivo e solo 4 hanno fatto peggio. Alla fine i costi meno gestibili sembrano essere quelli politici: è stato osservato che in media le coalizioni politiche che garantiscono la maggioranza a un governo perdono 16 punti percentuali al momento delle elezioni se l’anno precedente il voto è stato dichiarato un default. La temporaneità dei costi della bancarotta nazionale ha spinto capi di Stato latinoamericani ad atteggiamenti machisti.
In occasione dell’ultimo default dell’Ecuador (dicembre 2008), allorché non furono pagati alla scadenza fissata 3,2 miliardi di dollari di interessi sul debito nonostante il paese disponesse di risorse sufficienti per rispettare la scadenza, il presidente Rafael Correa si vantò pubblicamente di aver dato personalmente l’ordine di tenere chiusi i cordoni della borsa. Una commissione da lui nominata aveva studiato il debito estero del paese e concluso che la parte riferita alle imminenti scadenze andava considerata «illegale e illegittima». Quelle rate non sono state più pagate e la finanza ufficiale ha disertato il paese. Ma la vita continua come prima, grazie all’industria petrolifera che attrae investimenti esteri.
I pericoli per la moneta unica
Il governo della Grecia o di un paese dell’Unione Europea ancora più grosso – senza fare nomi – potrebbe fare il gradasso come Correa, in caso di bancarotta? Panizza e Borensztein dicono di no: «L’esperienza recente suggerisce che i costi economici di un default possono non essere così alti come si pensa comunemente, e che una ripresa economica spesso è iniziata subito dopo il fallimento. Bisogna però notare che in tutti i casi da noi studiati la ripresa fu aiutata dalla svalutazione del tasso di cambio.
Dal momento che questa non è un’opzione disponibile ai paesi dell’Eurozona, la Grecia pagherebbe un alto prezzo se dovesse andare in bancarotta». E l’euro sarebbe in pericolo? «No, all’euro non succederebbe niente: solo i greci, tranne gli armatori con le loro navi battenti bandiere panamensi e le loro ricchezze all’estero, si ritroverebbero malissimo», commenta Sapelli. «Per mettere in crisi l’euro ci vorrebbe la bancarotta di un grosso paese. Le sofferenze sociali conseguenti sarebbero molto pesanti, ma le economie europee finalmente ricomincerebbero a crescere».
Il default di un grosso paese dell’Eurozona, per anni ritenuto un’ipotesi da non prendere nemmeno in considerazione, è un incubo non solo per i potenziali diretti interessati. BlackRock, la piu grande società di investimento nel mondo, con sede a New York, ha annusato l’aria e prontamente creato il Sovereign Risk Index, che classifica le economie dei paesi industrializzati in base al loro rischio di bancarotta.
«La gente pensava che il rischio sovrano fosse qualcosa di riservato ai mercati in via di sviluppo, e questo si vede molto bene nella composizione dei portafogli di investimento», dice Benjamin Brodsky, direttore di dipartimento a BlackRock. «Se guardate all’industria degli hedge funds e ai fondi pensionistici, vedete che sono massicciamente esposti verso i mercati sviluppati e i loro titoli di Stato. Questi sono stati sempre percepiti come virtualmente privi di rischi. Ma privi di rischio non sono mai stati». Il default di un paese importante della zona dell’euro sarebbe una catastrofe per i grandi investitori, detentori di ampie quote del suo debito pubblico, considerato un investimento a rendimento basso ma arcisicuro.
Finanzieri in conflitto d’interesse
Giulio Sapelli si esprime in termini più coloriti: «Oggi la finanza è molto più “leverata” che in passata, ci sono masse finanziarie molto più grandi, e il ceto sociale che controlla la finanza è molto più coinvolto. Andrebbero in bancarotta anche i top manager delle grandi istituzioni finanziarie mondiali, per questo creano la leggenda secondo la quale il default di un grande paese nel mondo globalizzato non è pensabile».
Intanto BlackRock ha presentato il suo indice, che classifica 44 economie. In fondo al plotone naturalmente ci sta la Grecia, ai primi tre posti ci sono Norvegia, Svezia e Svizzera. E i grandi paesi dell’Unione Europea? Al quintultimo posto, appena quattro posizioni meglio della Grecia, c’è l’Italia. Quattro caselle sopra l’Italia c’è la Spagna. In mezzo a questi due paesi, l’Argentina. Magari è solo lo scherzo di una società di investimento interessata a lucrare le commissioni di chi vuol spostare i suoi soldi dai paesi dell’Europa meridionale a quelli scandinavi. Magari.