Manuale per una politica cattolica

crepaldi_coverTempi n.38 29 settembre 2010

La diaspora degli eredi della Dc ha portato all’esclusione di Dio dall’ambito pubblico. Ecco il vademecum dell’arcivescovo di Trieste per ricostruire l’ “unità possibile” andata perduta. Oltre i facili moralismi sui leader “peccatori”

di Giampaolo Crepaldi

(Arcivescovo di Trieste e presidente dell’Osservatorio internazionale Card. Van Thuàn sulla Dottrina sociale della Chiesa)

L’espressione politica dei cattolici in un solo (o prevalente) partito dipende da un giudizio prudenziale di convenienza, non è una necessità assoluta, ma non deve nemmeno essere demonizzata come sbagliata. Le forme della presenza politica diretta sono oggetto di deliberazione, tenuto conto delle esigenze del tempo. Perfino nel caso del Partito popolare italiano e della Democrazia cristiana c’erano visioni diverse, non solo tra i politici cattolici ma anche nelle gerarchie ecclesiastiche.

Ci sono due estremi opposti da evitare. Da un lato l’appartenenza obbligata ad un solo partito come se si trattasse di un dogma di fede e come se questo partito non portasse avanti un programma politico ma un programma religioso, dall’altro la diaspora, ossia l’altrettanto dogmatica tesi della negatività di qualsiasi forma di unità e raccordo politico dei cattolici. Il primo atteggiamento non tiene conto della legittima discrezionalità del giudizio sull’appartenenza politica e stabilisce un nesso diretto ed obbligato tra appartenenza ecclesiale ed appartenenza partitica.

Il rischio è che si faccia coincidere partito e Chiesa, che si delegittimino automaticamente pensieri politici diversi espressi comunque da cattolici, che si trasferiscano dentro la comunità ecclesiale contrasti di tipo politico.

La seconda separa nettamente l’appartenenza ecclesiale con le forme della presenza politica, tra le quali invece c’è un profondo nesso dato che anche nelle scelte politiche si giocano significati assoluti. Uno degli aspetti più negativi della diaspora politica dei cattolici è proprio questo: si perde nella coscienza comune la consapevolezza del fatto che nelle scelte politiche si giocano significati assoluti e quindi che la religione cristiana è indispensabile anche per l’instaurazione dell’ordine temporale. (…) La diaspora, quindi, esclude Dio dall’ambito pubblico.

Il criterio più convincente potrebbe essere quello della “unità possibile”, laddove l’aggettivo possibile ha due significati: affermare che l’unità è fattibile, e che la si attuerà secondo il responsabile giudizio prudenziale relativo ai tempi, alle situazioni e alle scelte in gioco, ossia per quanto possibile, ma comunque cercando di volta in volta il massimo grado.

L’unità possibile, come ho appena detto, è anche importante come segno visibile della dimensione storica e pubblica della religione cristiana, elemento che andrebbe dimenticato se nessuno nella politica effettiva vi si rifacesse esplicitamente non solo a titolo personale ma anche di gruppo.

Si potrebbe forse adoperare qui il motto: in essentialibus unitas, in dubiis libertas, in omnibus caritas. Sulle questioni fondamentali ci vuole unità, nelle questioni dubbie è lecito adoperare il libero giudizio personale, in tutto ci vuole la carità. Se ci sono in gioco valori umani fondamentali – i princìpi non negoziabili – i cattolici in politica dovrebbe­ro essere uniti e collaborare insieme non tanto per difendere una opinione cattolica o interessi confessionali quanto per difendere una verità e un bene dell’uomo.

Si badi però che non c’è modo migliore di difendere la verità e il bene dell’uomo se non anche difendendo la proposta cristiana e non si deve denunciare di confessionalismo con troppa facilità la richiesta di riconoscimento pubblico per la religione. (…) Troppo spesso siamo indotti ad accusare di “gentilonismo” la richiesta pubblica di diritti religiosi. Si tratterebbe di nuovi Patti Gentiloni con i quali i cattolici trattano sul piano politico per la salvaguardia di alcuni loro interessi anziché fare proposte politiche incentrate sugli interessi di tutti.

Spesso si dice anche che si tratta, in questi casi, di immaturità politica. Però bisogna anche riconoscere che in tante richieste di riconoscimento pubblico del cattolicesimo ci sono implicite rivendicazioni di autentici diritti umani.

Se invece si tratta di problemi aperti a più soluzioni o perché il bene lo si può fare in molti modi o perché riguardano situazioni in evoluzione o infine perché la conoscenza della realtà è complessa ed è impossibile poter scegliere senza incertezza, allora è legittimo il pluralismo delle opinioni. In tutto, comunque, il cattolico in politica non deve mai dimenticare di esercitare la carità, intesa non solo come un atteggiamento morale e spirituale che si aggiunge all’agire politico, ma che anche lo rischiara e lo anima dall’interno.

La carità fa capire meglio i doveri politici, ci aiuta a chiarire la distinzione tra le cose fondamentali e secondarie. La carità fa amare, ma con ciò fa anche vedere, perché l’amore ci fa conoscere meglio la realtà amata. La carità è sempre connessa con la verità.

Una carenza dottrinale

È logico che una unità politica sulle questioni fondamentali ha bisogno di essere costruita a livello prepolitico, e che ci deve essere una unità culturale prima ancora che politica. Dal problema dell’unità politica si passa quindi a quello dell’unità culturale. (…) Se nella società i cristiani rinunciano a produrre cultura, o la producono in forme ambigue, è logico che i cattolici in politica troveranno maggiore difficoltà a conseguire una unità possibile.

Quanto abbiamo detto colloca in un rapporto particolare l’azione dei cattolici in politica, la cultura che i cattolici sanno fare nella società civile e la vita della comunità ecclesiale. Se tra questi tre elementi non si costruisce nessuna continuità, vale a dire se si pensa che la comunità ecclesiale non possa e non debba fare cultura, se si ritiene che i cattolici non debbano essere presenti nella società singolarmente e in modo organizzato per animarla anche culturalmente, finirà che i cattolici in politica saranno lasciati a se stessi. (…)

In altre parole: la possibile unità dei cattolici in politica comincia molto prima della politica. Quando si vede che cattolici che hanno responsabilità dirette nel campo legislativo assumono atteggiamenti diversi davanti a leggi che contrastano con la legge morale naturale e su cui il Magistero si è inequivocabilmente pronunciato, non solo loro devono fare un esame di coscienza, ma con essi l’intera comunità ecclesiale, perché significa che qualcosa non funziona nella continuità tra comunità ecclesiale, animazione culturale della società e militanza politica.

Con queste riflessioni si tocca un argomento ancora più fondamentale, che tuttavia esula, in un certo senso, dall’impegno diretto del cattolico in politica, anche se ha su di esso un’influenza determinante. Dietro la diaspora dei cattolici in politica c’è tutto quello che ho detto qui sopra, ma c’è soprattutto, alla fine, una carenza di tipo dottrinale.

Significa che la dottrina della Chiesa non è convenientemente promossa e recepita, che i pastori non vengono adeguatamente accostati, che i teologi non operano tenendo conto della loro funzione ecclesiale, che le università cattoliche non producono una coerente cultura cattolica, che le librerie cattoliche non fanno il loro dovere di evangelizzazione tramite la cultura, che i centri culturali cattolici non operano in coerenza con il Magistero.

Certamente non può essere il laico cattolico colui che agisce in questi nevralgici settori, però è chiaro che egli ne è il terminale ultimo e che la confusione dottrinale impedisce una unità possibile dei cattolici in politica, anche perfino sulle questione connesse con i princìpi non negoziabili. Anche in passato, infatti, sbandamenti dottrinali hanno poi prodotto divisioni e contrapposizioni sul piano della cultura politica.

O matrimonio o le coppie di fatto

Ci può essere il caso in cui nessun partito risponda alle esigenze fondamentali – i valori non negoziabili – del cattolico in politica. Dovrà egli (…) abbandonare l’impegno politico? In questo caso bisogna condurre un serio discernimento. Prima di tutto bisogna valutare se il contrasto del partito con i valori non negoziabili sia di diritto o solo di fatto. Facciamo un esempio, che come tutti gli esempi forse banalizza troppo, ma speriamo possa essere utile.

Tra un partito che contemplasse nel suo programma la difesa della famiglia fondata sul matrimonio e il cui segretario fosse separato dalla moglie e un partito che contemplasse nel programma il riconoscimento delle coppie di fatto e il cui segretario fosse regolarmente sposato, la preferenza andrebbe al primo partito.

È infatti più grave la presenza di princìpi non accettabili nel programma che non nella pratica di qualche militante, in quanto il programma è strategico ed ha un chiaro valore di cambiamento politico della realtà più che le incoerenze personali. Nel caso in cui invece tutti i partiti fossero di diritto contrarii ai princìpi non negoziabili al politico cattolico non resterebbe che fondare un altro partito.

A meno che le indicazioni espresse dalla Chiesa in svariati documenti siano aria fritta

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Ag Zenit (ZENIT.org).- giovedì, 7 ottobre 2010

Cattolici in politica e principi non negoziabili

Come coniugare la politica del “si”

di mons. Giampaolo Crepaldi*

ROMA, Benedetto XVI in un famoso discorso a dei politici europei ha parlato dei “principi non negoziabili” in politica, che egli ha identificato soprattutto nella difesa della vita dal concepimento alla morte naturale, nel rispetto della famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna e nella libertà di educazione, ossia della possibilità che i genitori non siano sostituiti da altri nel loro compito educativo.

Anche la Nota dottrinale del 2002 della Congregazione per la dottrina della fede usava l’espressione principi “non negoziabili” e così li aveva elencati: vita, famiglia, libertà di educazione, tutela dei minori dalle moderne forme di schiavitù, diritto alla libertà religiosa, economia a servizio del bene comune nel rispetto della sussidiarietà.

Il significato politico dei principi non negoziabili ha a che fare con i loro contenuti. Si tratta, per limitarci qui ai principali, della vita, della famiglia e della libertà di educazione, ai quali si può aggiungere, per la sua importanza, quello della libertà religiosa. Questi principi sono imprescindibili, ossia non c’è società pienamente umana che non li contempli. Non si tratta di tre principi tematici particolari, tre singoli argomenti della politica.

Certo sono anche questo e richiedono leggi e scelte politiche mirate, ma sono molto più di questo. Sono dei quadri di fondo con ricadute in tutta la vita sociale e politica, hanno un trasversalità generale per cui quando non vengono rispettati è l’intero corpo sociale a risentirne.

Facciamo l’esempio del diritto alla vita. La sua negazione comporta un sistematico rifiuto dell’accoglienza che certamente trova poi espressione anche in altri campi. Come dice la Caritas in veritate se l’accoglienza viene negata in quel punto iniziale, come potrà venire attuata in altri settori della vita sociale? E l’attenzione ai più deboli? Se non viene esercitata nei confronti del concepito, il più indifeso degli indifesi, come potrà essere esercitata verso altri deboli? L’intero tessuto sociale si impoverisce, le virtù sociali si indeboliscono, le relazioni si fanno più strumentali con costi molto alti per la convivenza.

Sul piano positivo, poi, la difesa della vita investe tantissime aree della politica. Non si tratta solo di disciplinare alcune pratiche di tipo sanitario – per esempio disciplinare la fecondazione assistita per proteggere l’embrione umano – o della ricerca scientifica. Si tratta anche di politiche giovanili, di politiche per la casa, di regolamentare meglio il rapporto famiglia-lavoro, di reimpostare il fisco, di tutelare la donna come madre e sposa, di asili nido e scuole, di proteggere i giovani dalle moderne schiavitù tra cui la droga, di vincere la denutrizione e la mortalità infantile, senza contare poi l’educazione, l’istruzione e il mondo dei mass media.

La difesa della vita la si fa nelle sale operatorie, ma anche in molti altri settori della vita sociale. difendere la vita richiede quindi un insieme di politiche coordinate tra loro e, diciamolo pure, un cambiamento radicale della politica stessa.

Per questo motivo il significato politico dei principi non negoziabili non consiste solo nel dire dei “no” – no all’aborto, per esempio; no al riconoscimento delle coppie di fatto e così via – ma si fonda su un prioritario “sì” e spinge per politiche del sì. L’originario sì è l’adesione a qualcosa che precede la politica e la trascende, e così la salva anche da se stessa.

Le politiche del sì sono tutte quelle politiche che i principi non negoziabili chiedono siano messe in atto. Quindi, prima di porre il problema della loro non negoziabilità, prima di mettere a tema il dover rinunciare alla trattativa perché c’è qualcosa che non è a mia disposizione, mettiamo in luce il tanto da fare che l’assunzione di quei principi richiede.

Altrimenti sembra che tali principi richiedano solo di rinunciare ad esserci, di tirarsi indietro, mentre fondano un ampio impegno a favore di una politica dal volto umano. Essi sono mobilitanti, indicano alle persone impegnate in politica i vasti orizzonti delle tante cose da fare che stanno loro davanti.

Non si pensi che il fatto di essere questi principi “non negoziabili” derivi da una incapacità dei cattolici al dialogo democratico. Né che siano non negoziabili in quanto principi “cattolici” e quindi a testimonianza dell’arroganza della religione nella vita politica. Il primo motivo per cui sono non negoziabili sta nei principi stessi: la vita è vita si o no? L’embrione è vita umana sì o no?

Non si può rispondere con un “sì, ma”, oppure a seconda delle circostanze, o in dipendenza dai punti di vista. La famiglia è fatta da un uomo e una donna o no? Il compito educativo spetta ai genitori sì o no? Come si vede in questi casi i compromessi non sono possibili, per la natura stessa dei principi e delle questioni in causa e non per una presunta volontà dittatoriale dei cattolici che vogliono che tutti la pensino come loro.

Il Magistero dice chiaramente che non è moralmente lecito dare il proprio appoggio ad un movimento o ad un partito che dichiaratamente affermi nel proprio programma di essere contro qualcuno dei suddetti principi non negoziabili. In un programma di partito ci sono molti punti riguardanti i vari aspetti dell’agenda politica proposta da quel partito. Si potrebbe quindi pensare che davanti ad un programma politico articolato, il cattolico dovrebbe soppesare i vari punti e trovare un bilanciamento tra i pro e i contro che lo soddisfi.

Se per esempio un partito propone l’aborto però contemporaneamente anche delle misure antipovertà che l’elettore cattolico giudica convincenti, si potrà pensare di votarlo se da questa comparazione uscisse un bilancio più positivo che per altri partiti. Invece le cose non stanno così, per una serie di motivi. Il primo è che i principi non negoziabili non possono essere comparati con altri.

La presenza in un programma di partito del diritto all’aborto e di politiche di lotta alla povertà non hanno lo stesso peso morale e nemmeno politico. Infatti, mentre nel caso dell’aborto ci si scontra con un divieto morale assoluto, quello di non uccidere, la lotta alla povertà può essere fatta in molti modi. Il primo è un assoluto negativo, un divieto di fare il male, il secondo è un invito positivo a fare il bene per il quale ci possono essere molte strade.

In secondo luogo la mancanza del rispetto dei principi non negoziabili in un programma di partito, dato che non si tratta solo di temi particolari, ma trasversali, tali da illuminare l’insieme della attività politica, devono godere della considerazione primaria rispetto a tanti altri temi a carattere settoriale. Il diritto alla vita e alla famiglia meritano una attenzione superiore che non le politiche dell’Imposta sul Valore Aggiunto (IVA).

Durante la campagna elettorale del 2008 negli Stati Uniti, i vescovi americani hanno fatto due importanti precisazioni a questo riguardo. A molti era sembrato che l’incentrare l’attenzione sui principi non negoziabili comportasse che l’elettorato cattolico fosse “single issue” cioè politicamente monotematico e non dimostrasse quindi una maturità politica nell’idea che questa comporta la capacità di crearsi un quadro dei problemi perché un paese non viene governato su un solo tema.

La vita e quindi anche la vita politica non è mai monotematica ma è sempre sintesi di una complessità. A questa critica è però possibile rispondere dicendo, che dare la priorità ai principi non negoziabili non significa trascurare gli altri, ma privilegiare gli architravi della costruzione politica senza dei quali tutto crolla.

Tenuto conto poi che quei principi non negoziabili illuminano anche tutti gli altri che, se non sono affrontati nel rispetto di quelli, non possono venire adeguatamente risolti. Assegnare a dei principi delle priorità non significa ragionare in modo monotematico. Secondariamente i vescovi americani hanno anche chiarito che se esiste una alternativa, l’elettore cattolico non può votare per un candidato presidente – ma il criterio può essere esteso a tutti i tipi di elezione politica – espressamente favorevole a politiche contrarie ai principi non negoziabili.

Un punto molto importante della questione dei principi non negoziabili è legata al bene comune. Il bene comune è, un concetto metafisico: esso non si riferisce al benessere materiale o alla soddisfazione degli interessi individuali. Se tutti gli stipendi aumentassero del 30% non si avrebbe per ciò stesso il bene comune. Il bene comune ha a che vedere con ciò che rende le persone una vera comunità umana.

Ne consegue che il bene comune non può consistere in un accordo al ribasso, in una negoziazione in cui tutti rinunciano a qualcosa e quindi anche i cattolici. Il bene comune, in questo caso, si trasformerebbe, come disse Benedetto XVI, nel minor male comune.

Il bene comune non è il minor male e la discussione politica non può essere al ribasso ma al rialzo. I principi non negoziabili sono quindi un invito per tutti a guardare in su e a non intendere il confronto democratico come una compromesso tra interessi. La fede cristiana gioca qui un ruolo insostituibile perché interviene a sostegno e stimolo della ragione politica quando questa dovesse piegare le ginocchia per debolezza e la testimonianza personale dovesse sentire la stanchezza.

Un punto però deve essere tenuto fermo: ci sono dei momenti in cui può essere doveroso anche abbandonare il tavolo della trattativa politica. Ci sono dei momenti in cui l’uomo politico è anche chiamato a fare un passo indietro. Anche questa è una forma, e delle più alte, di servizio politico.

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[Per ogni approfondimento: Giampaolo Crepaldi Il cattolico in politica. Manuale per la ripresa (Edizioni Cantagalli 2010)]

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