Il Foglio quotidiano – 3 maggio 2014
I dati dicono che c’è un nesso diretto tra l’introduzione del divorzio legale e lo sfilacciamento dell’unione tra uomo e donna e della procreazione. L’Italia è prima in Europa nel rifiuto del matrimonio
di Roberto Volpi
E così sono passati quarant’anni dal referendum che sancì la netta e inaspettata vittoria di quanti votarono “No” alla richiesta dei promotori di abrogare la legge che qualche anno prima, nel 1970, aveva introdotto il divorzio anche nel nostro ordinamento giuridico. Inaspettata quantomeno per le proporzioni, perché tra i “Sì” e i “No” c’era la convinzione generale che passasse poco più di un capello e che la partita si sarebbe decisa con uno scarto, a favore degli uni o degli altri, di qualche decimale di punto. Non andò in quel modo, la proporzione tra quanti espressero il loro voto fu di sei a quattro a favore del “No”. E fu così che il divorzio potette cominciare a macinare i suoi effetti anche in seno alla società italiana.
L’anno dopo – 1975 – i matrimoni scesero di 30 mila unità, perdendo oltre il 7 per cento. Le nascite di 44 mila unità, il 5 per cento in meno. In cinque anni i matrimoni lasciarono sul terreno un quinto, le nascite addirittura un quarto della loro consistenza. A ritmi più blandi la discesa delle nascite continuerà per un’altra ventina d’anni, senza poi riuscire a prendere la strada di una qualche effettiva ripresa. I matrimoni, invece, non smetteranno più di assottigliarsi: erano 400 mila sono 200 mila, in una popolazione di svariati milioni più grande di allora.
Se si vuole capire perché il divorzio risultò così indigesto alla famiglia italiana, così amaro per i suoi destini, è proprio da qui che occorre partire: dal flop delle previsioni relative al referendum e dalle ragioni che ne stanno alla base. Per tutta la campagna elettorale l’opposizione politica e sociale al divorzio che si batteva per il “Sì” alla sua abrogazione aveva agitato lo spettro del libertinaggio maschile – carattere che, si affermava piuttosto apertamente, solo un matrimonio intangibile, un’unione indissolubile, una famiglia che non si potesse abbandonare e disfare avrebbe tenuto sotto controllo.
E’ ancora celebre, a suo modo, il tentativo dell’allora segretario della Democrazia cristiana Amintore Fanfani, persona per altro di grande cultura e, da buon toscano, di spiccato senso dell’ironia, di alimentare l’allarme sociale nelle coppie, agitando lo spettro di mogli che, se il referendum si fosse chiuso con una vittoria del “No”, e dunque col mantenimento della legislazione divorzista da poco introdotta, si sarebbero involate con le cameriere piantando mariti e figli su due piedi, dimentichi di doveri diventati di colpo, appunto, dimenticabili con tanto di benedizione da parte della legge. E Fanfani integrò il concetto-limite parlando di imminenti nozze omosessuali.
In realtà il divorzio appariva allora come un’arma maschile, nel senso che solo o quasi esclusivamente i maschi sembrava sarebbero stati in grado di avvalersene, anche in considerazione ch’era il marito, l’uomo, il maschio, il soggetto forte della coppia, economicamente e socialmente parlando, ovvero quello che poteva consentirsi di adire al divorzio, di pagarne le spese e di reggerne le assai corpose conseguenze successive di tipo economico-materiale.
Calcoli sbagliati. La società italiana, ancora a netta supremazia maschile – e proprio nel mondo delle professioni intellettuali e liberali, a cominciare da quei veri e propri santuari maschili ch’erano le università – non soltanto non avvertì quel che si stava muovendo nel sottosuolo, ma neppure quel che già si era messo in moto alla superficie dell’universo femminile.
Non aveva capito l’effetto dirompente esercitato su questo universo, per citare la prima grande cesura col passato, dal riconoscimento del diritto al voto e dal larghissimo esercizio che a partire dal 1946, quando si trattò di scegliere tra monarchia o Repubblica, di quel diritto le donne italiane fecero al pari dei maschi. Quella conquista già aveva cambiato, e proprio nel senso del riequilibrio dei rapporti interni alla coppia e alla famiglia, più di cento norme ad hoc che riguardassero espressamente il diritto di famiglia.
L’avvicinamento di responsabilità e autorità genitoriale tra maschio e femmina, tra moglie e marito, verrà, sulla spinta dell’acquisita eguaglianza sul piano elettorale, ulteriormente rafforzato negli anni Sessanta da una ancora più formidabile spinta, quella esercitata da un’espansione economico-produttiva che reclamava a gran voce, per sostenersi e proseguire nella sua traiettoria ascendente, l’autonomia della donna nel campo della produzione e, a maggior ragione se sposata e con figli, in quello dei consumi e delle scelte di spesa per se stessa e la famiglia.
Le donne entrano in modo massiccio nel mondo del lavoro e diventano soggetti autonomi che ordinano i propri consumi di donne e quelli, quando ne hanno, delle loro famiglie. Né si deve dimenticare che con gli anni Sessanta le porte delle università si aprono sempre di più alla presenza delle giovani, mentre alle scuole superiori era già cominciata l’erosione della prevalenza maschile a opera di contingenti sempre più numerosi e agguerriti di ragazze.
Così, quando nel maggio del ’74 si arriva al referendum sul divorzio, il quadro di riferimento dei rapporti tra uomo e donna in generale, e tra marito e moglie all’interno delle famiglie, è assai cambiato. Il ruolo della donna non ha fatto che crescere, quello dell’uomo non ha fatto che ridimensionarsi di conseguenza, anche se nessuna specifica legge è intervenuta a ufficializzare questo riequilibrio. La riforma del diritto di famiglia che sancirà la parità tra uomo e donna all’interno della famiglia anche per quel che riguarda la potestà genitoriale – non più del marito ma di entrambi i coniugi – seguirà infatti nel 1975.
Ma di essa si può ben dire ch’era già venuta maturando nelle cose, nella realtà sociale e culturale del paese. La donna italiana che si reca alle urne per esprimere il suo pensiero sul divorzio intende continuare a riequilibrare i conti dei diritti e dei doveri, e pure quelli dei poteri, con l’altro sesso, e coglierà proprio le nuove possibilità offerte dall’appena varata legislazione divorzista per farlo. Come interpretare altrimenti il fatto che le domande di separazione vengano avanzate più dalle donne e mogli che non dagli uomini e mariti?
E così il divorzio, che pure appariva “tarato” sulla maggiore forza dell’uomo – contrattuale ed economica prima di tutto: era lui che lavorava, lui che provvedeva in misura se non preponderante certo prevalente alle necessità materiali della famiglia – si sarebbe presto rivelato un ulteriore sgabello servendosi del quale la donna avrebbe ulteriormente recuperato il divario tra i sessi, affermando un’autonomia di giudizio e di movimento, e sembra quasi di poter dire uno spirito di rivincita su quello ch’era stato sino ad allora il rapporto di forza uomo-donna, che non farà che crescere e maturare negli anni che seguiranno.
Le previsioni elettorali sul referendum non avevano messo nel conto praticamente nulla di tutto ciò. La stessa famiglia italiana aveva sottovalutato l’energia di quella spinta – e forse perfino le donne che pure l’esprimevano. Tutti, forze politiche e sociali, la chiesa, gli intellettuali, mancarono di cogliere la specificità italiana di allora: il referendum sul divorzio agiva da detonatore di spinte e tensioni, aspirazioni e tendenze che si erano accumulate nell’universo femminile italiano da quando l’Italia era uscita dal disastro della guerra.
Ne sarebbe scaturita una famiglia sempre più marcatamente a trazione femminile anche nei ritmi e nelle modalità di formazione, e questo proprio quando le donne producevano il massimo sforzo per crescere all’esterno della famiglia, nelle relazioni sociali, nell’ambito del lavoro e delle professioni, in quello della scuola e dei saperi e – se l’espressione non appare troppo apertamente retorica – nella realizzazione di se stesse nel mondo.
C’è una sorta di dicotomia, nei dati. Per un verso l’Italia – anche se non sembra che sia così, e spiegheremo il perché – è un paese a bassa divorzialità. Per l’altro l’istituto della famiglia è venuto qui indebolendosi ben al di là di quanto è successo in quasi tutti gli altri grandi paesi europei e occidentali. I dati sembrano non quagliare, muoversi come non dovrebbero.
Il tasso di nuzialità precipita da oltre 7 matrimoni annui per mille abitanti agli scarsi 3,5 odierni, ben al di sotto della media europea di 4,4 matrimoni. E questo mentre il tasso di divorzialità cresce sì fino al livello attuale di 0,9 divorzi annui ogni 10 mila abitanti, ma pur sempre senza arrivare a rappresentare neppure la metà di quello europeo di 1,9. La tendenza piuttosto modesta alla divorzialità non dà ragione, in altre parole, della paurosa discesa della nuzialità, tant’è che si assiste al curioso fenomeno di paesi come la Svezia, la Finlandia, la Danimarca e altri ancora che hanno tassi di divorzialità più che doppi di quello italiano ma al contempo tassi di nuzialità più grandi del nostro almeno del 50 per cento.
Il fatto è che divorziamo abbastanza poco ma, in rapporto ai divorzi, ci sposiamo ancora meno. Così, nella classifica tanto dei divorzi quanto dei matrimoni stazioniamo in fondo, ma proprio in fondo tra tutti i paesi europei. La stessa cosa ci succede, inutile aggiungere, per quanto concerne la natalità e le dimensioni medie della famiglia. Ultimi o quasi ultimi anche qui. Siamo diventati una società per sottrazione.
Non facciamo che sottrarre: al matrimonio, ai figli, alla famiglia. E’ quasi come se da noi il divorzio non avesse ormai terreno e materia sufficienti cui applicarsi. Il divorzio ha dato il la a un’inversione di rotta ch’era in certo senso nelle cose, per le ragioni che si sono dette, ma poi le dinamiche matrimoniali per un verso e famigliari per l’altro hanno continuato nelle loro corrispondenti tendenze verso il non matrimonio e la famiglia minima con intensità e oscillazioni che appaiono a esso collegati in modi meno stringenti.
Com’è, allora, che la realtà di divorzi e separazioni ci appare come marea che non fa che montare? Si prendano proprio i dati di quell’anno fatidico, il 1974. E quelli di oggi. Se sommiamo divorzi e separazioni del 1974 arriviamo a 34 mila unità, contro 403 mila matrimoni celebrati quell’anno. Nel 2011 arriviamo tra separazioni e divorzi a 143 mila unità, contro neppure 205 mila matrimoni. Da poco più dell’8 per cento dei matrimoni, separazioni e divorzi sono arrivati a rappresentare oggi il 70 per cento degli stessi, cosicché la sensazione è proprio quella di matrimoni che non riescano a sottrarsi alla “regola” del cedimento e della rottura.
Vale precisare che non si possono rapportare separazioni e divorzi di un anno ai matrimoni di quello stesso anno, in quanto derivanti da matrimoni celebrati nel corso degli anni precedenti e nient’affatto da quelli celebrati in quello stesso anno? Non molto, perché la sensazione che si crea è comprensibilmente quella. Né vale la considerazione che sommare separazioni e divorzi è poco meno che un delitto contabile, oltreché una vera e propria nefandezza statistica, dal momento che i divorzi procedono proprio dalle separazioni e che queste ultime sfociano due volte su tre in divorzi, insomma che si tratta grosso modo delle stesse poste e, più ancora, delle stesse coppie, delle stesse famiglie.
E’ più vero del vero che i circa 54 mila divorzi del 2011 derivano da separazioni di anni precedenti già conteggiate nelle statistiche, ma frattanto nello stesso anno ci sono state altre 89 mila separazioni che si sommano ai divorzi e questo “fattuale” sommarsi produce l’effetto di una instabilità che sembra raddoppiare l’instabilità della famiglia. Cosa peraltro non del tutto fuori sesto, se si considera che una quota di separazioni non si traduce in divorzi e si trascina in questa forma per tempi indefiniti – ovvero che si può davvero sommare ai divorzi per ottenere una misura più realistica della nostra instabilità matrimoniale e famigliare. Complicato, forse. Ma è la separazione legale, istituto praticamente tutto italiano, a mettersi di mezzo.
E infatti per quanto si possa disquisire sul basso tasso di divorzialità, divorziati e separati sono passati dalle quote minime dell’immediato post divorzio a un milione nel 1991, un milione e 800 mila nel 2001 e quasi 3 milioni e 200 mila nel 2011. L’accelerazione è evidente.
Ci sono voluti più di vent’anni di legislazione divorzista per arrivare nel 1991 a un milione di separati e divorziati nella popolazione. Ma nei soli dieci anni tra il 2001 e il 2011 divorziati e separati sono aumentati di un milione e 400 mila. A costoro corrispondono qualcosa come 2 milioni e 300 mila famiglie monogenitoriali, ovvero formate da un solo genitore più i figli: il dieci per cento del totale delle famiglie. Altra posta in ascesa.
Del resto, occorre considerare due tendenze che stanno cambiando il panorama dell’instabilità matrimoniale e famigliare in Italia. L’interruzione dell’unione coniugale riguarda sempre più anche coppie con molti anni di matrimonio alle spalle e, più in generale, anche donne e uomini sposati di età avanzata. Il peso percentuale dei coniugi che all’atto della separazione avevano almeno 60 anni sul totale di quanti si sono separati è raddoppiato in soli dieci anni, passando dal 5 a quasi il 10 per cento.
L’altra e ancora più importante tendenza è la propensione dei matrimoni a durare sempre di meno. I dati Istat al riguardo sono chiari: di 1.000 matrimoni celebrati nel 1975 ne sopravvivevano dieci anni dopo 954, mentre di 1.000 matrimoni celebrati nel 2000 ne sopravvivevano dieci anni dopo solo 876. Insomma, il fronte è in movimento e sta sempre più omologandosi alle tendenze continentali, con un’instabilità che non risparmia più neppure le coppie di vecchio corso e che tende a sfociare nella separazione sempre prima. E infatti mentre la stagione d’oro del divorzio s’è conclusa in Europa, dove negli ultimi anni il tasso di divorzialità è diminuito, in Italia dove una stagione d’oro non c’è forse mai stata davvero la divorzialità s’è, al più, limitata a segnare il passo in questi tempi di crisi.
Dove poi proprio non ci omologhiamo all’Europa è in relazione a una variabile assai importante dei separati/divorziati: il titolo di studio. La propensione a sciogliere il matrimonio è infatti in Italia assai più elevata tra quanti possiedono titoli di studio medio-alti: diploma di scuola superiore e laurea. Sia i coniugati maschi che femmine con questi titoli hanno tassi di separazione più che doppi rispetto ai coniugati con titoli di studio bassi.
Non succede così negli altri paesi europei, dove le persone con titoli di studio non elevati presentano semmai un rischio maggiore di divorziare. Anzi, è proprio la bassa propensione a rompere il matrimonio che si osserva in Italia tra quanti hanno titoli di studio bassi a tenere sotto il livello europeo i tassi di divorzialità italiani. La cosa meriterebbe indagini più approfondite. Forse questo succede perché in Italia più che altrove si osserva un’alta associazione tra posizione socio-professionale e livello del reddito da una parte e titolo di studio dall’altra, cosicché il divorzio – ch’è questione che richiede disponibilità economico-finanziarie – “segue” il titolo di studio in quanto “segue” i più alti redditi a esso connessi.
O forse succede perché più che altrove in Italia la rottura del vincolo matrimoniale ha una valenza culturale, nel senso che la forza del matrimonio e della famiglia tiene meglio dov’è più forte il radicamento di una tradizione che nelle aree a più alto grado di modernità, innovazione e ricchezza va invece indebolendosi.
Di come il divorzio ha operato, e con quale intensità, nella specificità famigliare e socio-culturale italiana, si continuerà a discutere. Per concludere, credo che basti ricordare che il divorzio relativizza il matrimonio, lo rende intercambiabile e sostituibile con altre tipologie di legami tra uomo e donna a minor tasso di coinvolgimento e responsabilità. E che in questo senso rappresenta il fattore che più e prima degli altri si ripercuote sulla forza interna dei legami famigliari, indebolendoli.
Ma se questo è vero, non è meno vero che in molti altri paesi a maggior propensione divorzista del nostro il matrimonio continua a mostrare una vitalità che sembra invece avere perduto in Italia. Ed è su questo che occorre interrogarsi a fondo. Perché è per il rilancio del matrimonio che occorre spendersi, più che non per contrastare il divorzio. Questa seconda è una battaglia per limitare i danni, la prima per riaprire le prospettive. Senza dimenticare che il rilancio anche culturale, tutt’altro che facile, del matrimonio e della famiglia è forse il modo migliore per depotenziare l’azione della separazione e del divorzio.