Il presidente del Senato e la lezione che Giovanni Paolo II ha dato ai laici in politica
di Mario Sechi
«Allo sgomento dei credenti – dice Pera – si unisce il silenzio attonito di tutto il mondo che perde con lui un protagonista della nostra storia e una guida morale e spirituale delle nostre coscienze».
Presidente Pera, in quest’era di relativismo culturale che cosa ha significato per lei, uomo laico, il pontificato di Giovanni Paolo II?
«Proprio una grande battaglia contro il rischio del relativismo culturale. Per capirci: il relativismo è la dottrina secondo la quale le culture o le civiltà non si possono commensurare e giudicare da fuori. Perciò, per il relativista, non esiste la verità, se non come autocomplimento che ciascuna cultura fa a se stessa quando qualcosa le piace o le serve. Questa tesi, che è nata nel campo della filosofia del linguaggio e dell’ epistemologia, è penetrata anche nella teologia. Essa porta a dire che il cristianesimo non è migliore di altre fedi. Così il cristiano non potrà mai dite che Cristo è il figlio di Dio. E neppure ppiià consentire con Gesù quando dice: ego sum via, veritas et vita. Gesù è un profeta, come tanti altri, con la sua verità».
E perché questo è un rischio anche per un laico?
«Intanto, è chiaramente un rischio per un credente, perché, seguendo il relativismo, egli non diventa più tollerante o dialogante, come molti pensano, ma semplicemente perde la fede. Poi è un rischio per tutti, anche per i laici. Giustamente, nella Centesimus Annus, il Papa mise in guardia contro le insidie di quella che egli chiamò “la alleanza fra democrazia e relativismo etico”. Questa alleanza porta alla perdita di identità. Chi siamo noi se “tutto va bene”? In che cosa crediamo? Per che cosa combattiamo? Anzi: perché dovremmo combattere? Il rischio, come si vede, è enorme».
Si è detto che in politica non bisogna parlare troppo facilmente di bene e male. Nel libro «Memoria e identità» Giovanni Paolo II compie una grande indagine intorno a questi due temi e alle «ideologie del male». Quale insegnamento può trarne la nostra politica?
«Intanto, che il male esiste. Poiché il male va combattuto. E siccome il male non è mai definitivamente sconfitto – perché per i credenti è frutto del peccato originale e per i laici degli errori della volontà degli uomini – ne deriva che la lotta al male è un dovere per le persone e il compito della politica. Questo è ciò che fece il Papa contro il comunismo e che ha continuato a fare contro altri mali. Un compito inesauribile, perché il bene non è uno stato, bensì un processo».
Autorevoli pensatori hanno teorizzato lo scontro delle civiltà. Lei ha messo più volte l’accento sull’atteggiamento poco lungimirante dell’Occidente nei confronti della minaccia del fondamentalismo islamico. È sulflciente la via del dialogo interreligioso promossa da Giovanni Paolo II?
«Credo francamente che l’idea stessa di dialogo interreligioso sia sbagliata. E credo anche che il Papa stesso ne abbia compreso i limiti. Se Cristo è l’unica verità, come si può dialogare con chi afferma un’altra verità? Le religioni non dialogano tra loro, perché sono esclusive. Perciò tendono più facilmente a ignorarsi o separarsi o scontrarsi. Ma il dialogo è invece possibile e obbligatorio al livello sub-religioso dei valori secolari che dalle religioni derivano. Ad esempio, dal cristianesimo derivano i valori della dignità umana, della libertà, della tolleranza, dell’uguaglianza. Su questi valori, oggi negati dal fondamentalismo islamico, il dialogo è possibile e la politica è il miglior strumento per praticarlo. Lo scontro di civiltà, se ci fosse, sarebbe la fine della politica».
Guerra e pace, come l’antinomia tra male e bene. Giovanni Paolo II ha vissuto la Seconda guerra mondiale e l’orrore del nazismo, poi la Guerra Fredda e gli anni bui dell’Unione Sovietica. Secondo lei quanto questa esperienza ha influito sulle posizioni assunte da Giovanni Paolo II nei confronti della guerra? Definirebbe questo Papa un pacifista?
«Un Papa non è un pacifista. Non è scritto: “Beati i pacifisti”, bensì: “Beati i facitori di pace”, che è un’altra cosa e talvolta una cosa opposta. Non a caso Giovanni Paolo II è stato un combattente e non si è mai arreso. In questo, non solo il Vangelo, ma le sue tragiche esperienze di figlio della Polonia, prima invasa dai nazisti e poi dai comunisti, sono state determinanti».
Un’Europa ancora in cerca di identità e incapace di ritrovare le sue radici cristiane. Perché il magistero di Giovanni Paolo II è rimasto inascoltato?
«Perché i capi di Stato e di governo europei non sono ancora in grado di dire che cos’è l’Europa di cui parlano e che vogliono, quando la vogliono davvero. Siamo onesti: l’Europa come entità politica non è matura, se non per alcune cose importanti e utili, ma minori. Certamente l’Europa non è matura come entità culturale e spirituale, proprio quella che aveva in mente il Papa. La sua è l’Europa degli apostoli Pietro e Paolo e dei santi Cirillo e Metodio. La nostra è l’Europa dei mercati e dei diritti e valori connessi. Sarebbe sbagliato svilirla, soprattutto adesso che, dopo tanti sforzi, è a rischio anch’essa; ma non è lungimirante neppure fame un idolo o un’ideologia».
Patria, Europa, Chiesa, mondo. Il Papa ha detto che è inscindibile la storia dell’Europa da quella della Chiesa. II cristianesimo ha plasmato davvero quello che oggi chiamiamo spirito europeo?
«E impossibile negarlo. Chi volesse farlo, studi un saggio dei nostri classici o legga un nostro grande romanzo o faccia una passeggiata in una qualunque grande piazza europea o esamini le nostre costituzioni e i nostri codici. Che aria di famiglia vi respira?».
Il Papa ha detto che «dopo la caduta dei sistemi totalitari le società si sono sentite libere, ma quasi simultaneamente è sorto un problema di fondo: quello dell’uso della libertà». Esso attende ancora una soluzione?
«Credo che questo sia stato il grande problema del Papa, il perno della sua missione. Egli vedeva che i totalitarismi avevano negato la libertà, ma temeva fortemente che i regimi della libertà negassero la verità. La vittoria dell’Occidente sul comunismo, come prima sul nazismo e il fascismo, non equivaleva ancora alla vittoria della spiritualità. Anzi, nell’analisi del Papa, proprio l’Occidente rischiava di più, perché mentre sotto i regimi totalitari l’identità e l’appartenenza religiosa si rafforzano,nel mondo dei beni e dei mercati si affievoliscono.
Per questo, Giovanni Paolo II è sempre stato tenacemente avverso a tutte le “libertà” in materia di bioetica che l’Occidente sente invece come diritti. Per questo è stato diffidente, anche oltre i fatti, dell’America e della “cultura della moderna metropoli” come disse a Denver nel 1993 e per questo ha criticato il capitalismo. Per lui, la società secolarizzata era al tempo stesso un progresso e un regresso: un progresso verso la libertà, un regresso verso l’assenza di spiritualità. Alla base di questo atteggiamento c’era l’angosciata domanda: che farsene della libertà se è soltanto “da e non “per?».
Ricerca scientifica e religione. È dai tempi di Galileo che sembra impossibile superare (antagonismo tra queste due sfere della conoscenza. Le scuse date a Galileo dalla Chiesa le hanno riconciliate?
«Sul caso Galileo, Giovanni Paolo II è stato coraggioso. Ha riconosciuto l’errore della Chiesa e la grandezza di Galileo non solo come scienziato, ma anche come interprete della Scrittura. Ma le “scuse” si fermano qui. Sarebbe sbagliato concludere che Giovanni Paolo II abbia anche sostenuto il diritto alla totale libertà di ricerca scientifica. Questo non era, né poteva essere, il suo pensiero. Perché, per un credente, la scienza è una forma circoscritta di conoscenza che non può contraddire la vera conoscenza, che è quella di fede.
E perché la conoscenza scientifica, per acquisire le sue parziali e fallibili verità, non può usare strumenti che neghino la conoscenza di fede. In altri termini, si è liberi di sperimentare con biglie metalliche come Galileo o prismi di vetro come Newton o tubi pieni d’acqua come Torricelli e Pascal, non si è liberi di sperimentare su geni o cellule o embrioni. Se uno scienziato rivendicasse questa libertà con l’argomento che egli lavora nella sua “sfera di conoscenza” distinta e separata dalla “sfera della fede”, come dice lei, un altro caso Galileo sarebbe inevitabile».
E secondo lei, il conflitto che abbiamovisto a proposito della legge sulla procreazione e il referendum, non ripropone questo scontro?
«Esattamente. E su questo non c’è accomodamento, non c’è compromesso. Non si patteggia col Vangelo. Quelli che, su questo terreno, hanno accusato il Papa di tradizionalismo si ostinano a non capire la fede cristiana. O l’accetti, questa fede, o sei fuori. Non puoi fartene una a immagine tua e dei tempi».
Come è cambiato il rapporto tra Chiesa e politica durante il pontificato di Giovanni Paolo II?
«Giovanni Paolo II è stato il Papà più politico e meno politico al tempo stesso. Il meno politico, perché si rivolgeva agli individui e alle loro coscienze, più che alle nazioni e ai governi. II più politico, perché esigeva dalla politica il rispetto dei principi cristiani. Mentre rispettava la separazione StatoChiesa, sapeva che la separazione politicareligione non produce gli stessi frutti di libertà. Il risveglio religioso cui stiamo assistendo anche in Occidente è in gran parte merito suo».
Restò lontano dalle cose italiane?
«Rispetto ad altri suoi predecessori, sì. Con un’eccezione vistosa, mi sembra: il problema della giustizia, che egli sollevò con un gesto, l’abbraccio al senatore Andreotti, e con una richiesta, la clemenza per i detenuti. Per il resto, il suo orizzonte era altro. È stato un grande Papa, perché la sua parola, i suoi gesti, le sue sofferenze sono stati una sfida per tutti, credenti e non».