Massimo Introvigne
Non mi ritrovo né nelle celebrazioni né nelle accuse al cardinale Martini in occasione della sua morte. Non mi ci ritrovo perché il cardinale io l’ho conosciuto bene, negli anni in cui le sue idee hanno preso la forma che hanno sempre mantenuto: nei primi anni 1970, quando veniva spesso all’Istituto Sociale di Torino, dove io frequentavo il liceo dei Gesuiti. Per questa conoscenza, quando nel 1973 andai a studiare a Roma alla Pontificia Università Gregoriana, presi l’abitudine di attraversare la strada e andare a prendere spesso il caffè da lui, al Pontificio Istituto Biblico.
Martini non era un progressista nel senso in cui lo era, per esempio, il cardinale Michele Pellegrino (1903-1986) di Torino. Da Pellegrino, e da tanti come lui, Martini era diviso da un sentimento di fondo. Il cardinale gesuita non pensava affatto, come i veri progressisti, che la transizione dai valori della società tradizionale a quelli della società postmoderna, imperniata su un individualismo assoluto e sul rifiuto di ogni nozione di un’etica naturale, particolarmente in tema di sessualità, fosse uno sviluppo gioioso, trionfale e soltanto positivo.
Mi sentirei di dire che aveva perfino una certa nostalgia della società tradizionale e dei suoi valori. Pensava però che quella società fosse morta per sempre, che quei valori se ne fossero andati senza nessuna possibilità di tornare, e che l’unica possibilità di sopravvivenza per la Chiesa fosse prenderne atto. O la Chiesa incontra il postmoderno e si adatta, pensava, o il postmoderno distruggerà la Chiesa, riducendola a un piccolo e irrilevante residuo.
Qualcuno potrebbe dire che, con queste idee, Martini sbagliava teologia, dando troppo poco spazio alla speranza soprannaturale che anche corsi della storia che sembrano umanamente ineluttabili abbiano invece un esito diverso. Io penso piuttosto che sbagliasse sociologia. Interessato al mondo – minoritario, e che rimane tale negli anni – degli atei, e al protestantesimo storico del Nord Europa in via di sparizione – sono reduce da un seminario in Danimarca, dove i protestanti praticanti sono scesi sotto la soglia del due per cento -, il cardinale era singolarmente poco attento all’universo delle comunità protestanti pentecostali e fondamentaliste e ai nuovi movimenti religiosi di origine cristiana come i Mormoni. Notare questa disattenzione non è una mia deformazione professionale di studioso del pluralismo religioso, ma è una chiave per capire certe conclusioni di Martini.
Un dato che non gli era abitualmente presente era quello per cui, mentre le confessioni cristiane «liberal» come appunto quelle protestanti del Nord Europa, che accettano la nuova etica dall’aborto alle unioni omosessuali, perdono membri a un ritmo impressionante, le denominazioni conservatrici con un’etica sessuale perfino più rigida di quella cattolica, come quelle di orientamento fondamentalista o pentecostale – o anche, appunto, i Mormoni – crescono a un ritmo altrettanto spettacolare.
È vero che nella società secolarizzata la nuova etica è data per scontata. Ma non è meno vero che le Chiese e confessioni che si adattano alla nuova etica, mentre sono applaudite dai media, sono abbandonate dai fedeli. Che invece si affollano nelle denominazioni che offrono un’etica più rigida.
I sociologi hanno spiegato da anni perché questo accade. Chi accetta la nuova etica la trova dovunque nella società, e non ha bisogno di cercarla nelle chiese. La minoranza che va in chiesa invece in larga parte non apprezza la nuova etica, e sceglie quindi in maggioranza quelle Chiese, confessioni, movimenti che non accettano il mondo postmoderno ma lo contestano.
Detto in termini più crudi, accettando le conseguenze che Martini – ancora nell’intervista recente sulla «Chiesa indietro di duecento anni» – traeva con un procedimento impeccabile da premesse sociologiche che però erano sbagliate, la Chiesa Cattolica non risolverebbe i suoi problemi, ma si ridurrebbe come la Chiesa Luterana danese.
Dunque, nel caso del cardinale Martini, non tanto progressismo ideologico o cattiva teologia, ma cattiva sociologia. Un difetto, forse, più facile da perdonare a un uomo che aveva anche tante capacità e tanta cultura, oltre a quello che mi è sempre sembrato un genuino amore per la Chiesa. A patto di non seguire le cure che proponeva per la Chiesa, perché erano basate su una diagnosi sbagliata.