dal sito Cultura romena.it 11 Aprile 2017
Relazione in occasione del convegno internazionale Cristiani perseguitati- oggi martiri
Facoltà di Teologia – Università della Svizzera Italiana (2016)
Violeta Popescu
Innanzitutto ringrazio sentitamente per l’opportunità concessa di inserire nel programma di questa ricca settimana questo intervento che tratta dei martiri della persecuzione comunista in Romania (1), soprattutto nel periodo che segue immediatamente la seconda guerra mondiale, quando le carceri comuniste erano veri e propri centri di sterminio per chi veniva arrestato a causa dell’opposizione al regime.
Sono onorata di poter contribuire a far conoscere, nel tentativo di recuperare la memoria dei martiri cristiani, un pezzo drammatico della storia recente del nostro Paese. Vorrei soffermarmi a portare le testimonianze cristiane di alcuni perseguitati in Romania – del mondo ecclesiastico, laico, esponenti di spicco della cultura romena del periodo interbellico –, persone con una profonda fede che sono riuscite ad liberarsi delle catene grazie alla preghiera, alla comunione santa creatasi nel buio delle carceri, nonostante fossero state sottoposte a torture inumane, persecuzioni e sofferenze psicofisiche inimmaginabili.
Senza mai piegarsi, senza mai rinnegare Gesù Cristo, hanno accettato con quella forza, che è propria solo della speranza e della fede, il loro doloroso destino. La repressione, la resistenza anticomunista in Romania fino alla rivoluzione dell’89 era un argomento quasi sconosciuto alla maggior parte della popolazione.
Purtroppo nell’opinione pubblica romena e in quella occidentale si registra ancora una scarsa conoscenza del passato e del modo in cui si è instaurato il regime comunista. Oltre ai fatti ben noti dell’89, l’opinione pubblica dell’Europa occidentale è a conoscenza solo dei maggiori episodi di ribellione popolare contro i regimi oppressivi, come la Rivolta ungherese del 1956 o la Primavera di Praga del 1968, mentre restano ancora in gran parte sconosciuti fenomeni come la repressione comunista e la resistenza anticomunista in Romania.
Se negli anni ’90, subito dopo la Rivoluzione romena, qualcuno avesse fatto un’indagine sulla strada rivolgendo alla gente domande sulle carceri comuniste, le risposte sarebbero state scarse.
Dopo la seconda guerra mondiale, la Romania entra a far parte del blocco sovietico, con gravi conseguenze per l’intera società romena e implicitamente per la vita religiosa del Paese. Con la conquista definitiva del potere nel 1945, il Partito comunista romeno scatena un terrore sistematico contro gli oppositori politici, fossero essi reali o immaginari (2).
Nel periodo più efferato dello stalinismo (1948-1964), il regime crea un nuovo universo concentrazionario, che possiamo chiamare, a tutti gli effetti, il Gulag romeno (3). Il regime comunista in Romania vieta qualsiasi forma di commemorazione per i morti nelle carceri oppure nei campi di lavoro forzato, senza contare tutti quelli che avevano pagato con la vita la difesa dei propri ideali, di cui mancano le informazioni.
Migliaia di detenuti nelle carceri comuniste romene hanno perso la vita e per molti anni non hanno avuto né una croce né un riconoscimento (4).
Secondo i dati forniti dall’Istituto di Investigazione dei Crimini del Comunismo in Romania (5), durante il regime comunista, nel Paese esistevano 44 carceri e 72 campi di lavoro forzato in cui sono passati oltre tre milioni di romeni, 800.000 dei quali sono morti. Soltanto dopo gli anni ’90 il passato e gli orrori del regime vengono rievocati dai sopravvissuti al dramma del carcere e i romeni entrano in contatto con la realtà delle catacombe soprattutto attraverso la memorialistica.
La loro testimonianza ha scosso la coscienza collettiva muovendola verso la consapevolezza di un passato fatto di dolore, tragedia e sofferenza per il popolo romeno (6).
Il comunismo, come altri sistemi politici, mettendo a dura prova il cristianesimo, ha dimostrato che l’uomo non può essere salvato se non attraverso la fede. Senza preghiera, senza misericordia e amore per il prossimo, senza lo sforzo continuo di entrare in contatto con Dio, l’uomo sottoposto a un sistema del genere, come dimostrano tante testimonianze, perde la speranza e si sente abbandonato.
Il regime comunista ha voluto cancellare Dio, ha impedito le funzioni pubbliche, ha distrutto chiese, ha formato all’ateismo, ma non ha potuto cancellare la fede dal cuore di molte famiglie. Il messaggio lasciato da queste persone che sono morte oppure che sono stati perseguitate ricorda essenzialmente che l’uomo ha in sé qualcosa che lo spinge a non perdere mai la speranza e a rischiare la propria vita in nome della dignità, della libertà e della fede.
Queste persone e altre migliaia di morti hanno vissuto un’esperienza simile a quella dei martiri, perché hanno affrontato supplizi di fronte ai quali era preferibile la morte, hanno sofferto a causa di un regime brutale, ma allo stesso tempo la loro sofferenza rappresenta una luce che rivela la fede e la perseveranza con cui è possibile superare i limiti umani.
Le testimonianze conservate attraverso i volumi di memorie (7) oppure i ricordi, le iniziative di alcune fondazioni per far conoscere il passato doloroso (8) danno l’immagine di una fede capace di resistere a ogni attacco di odio, senza rinunciare né alla verità, né all’amore, né alla carità, nonostante i momenti di scoraggiamento. «Il secolo del martirio» (9) non è solo la storia di qualche cristiano coraggioso, ma quella di un martirio di massa, e le testimonianze arrivate da varie aree geografiche mostrano la veridicità della tale riflessione.
Riporterò in questa breve relazione alcuni frammenti di testimonianze che rivelano la profondità della fede, il valore della sofferenza e il messaggio di speranza con cui questi autentici martiri hanno vissuto rinchiusi nelle carceri. Pur dovendo affrontare prove così dolorose e una sofferenza inimmaginabile, hanno sempre mantenuto la fiducia in Dio, nella certezza assoluta che le loro anime si sarebbero salvate. L’anima, infatti, rappresenta quella parte di loro che è sempre rimasta libera.
Quello che è accaduto nelle carceri romene negli anni 1945-1964 può essere definito come un tentativo di distruggere le anime, poiché l’«uomo nuovo» cui mirava il regime non doveva appartenere a nulla se non al partito comunista. Una particolarità che inoltre emerge nello spazio romeno, dove accanto alla confessione ortodossa – la confessione più diffusa in Romania – esistono anche le confessioni greco-cattolica, romano-cattolica, protestante: tutte sono state colpite dal regime comunista dopo la sua instaurazione (10).
E proprio nei luoghi di sofferenza i cristiani, divisi nel corso della storia, si sono scoperti più vicini o ritrovati solidali. Il martirio di queste comunità cristiane offre un messaggio molto chiaro anche per i cristiani di oggi: ritrovare la solidarietà, la comunione reciproca. Le persone venivano incarcerate non solo perché si opponevano al regime e non accettavano il nuovo potere, ma anche perché erano cristiani pronti a testimoniare la fede, un aspetto che agli occhi dei comunisti appariva la “colpa” maggiore da punire cercando anche falsi capi d’accusa.
«Per uscire da un universo concentrazionario – e non è strettamente necessario che sia un lager, una prigione o un’altra forma di carcere; la teoria si applica a qualsiasi tipo di prodotto di totalitarismo – esiste la soluzione (mistica) della fede. Non ne parlerò di seguito, poiché essa è la conseguenza della grazia […]» (11).
Sono parole di padre Nicolae Steinhardt (12) che spiega e sintetizza il messaggio di una realtà vissuta da molti dei carcerati che sono riusciti a sopravvivere attraverso la fede. Parlando della prigionia a Jilava (1961), racconta nel suo diario: «Periodo di inasprimento delle condizioni carcerarie. Quante persone ammirevoli intorno a me! E santi, un’immensità di santi! È come se dovesse essere proprio cosi, accettano la sorte con semplicità. La sofferenza, ogniqualvolta è sopportata o presa in considerazione con onestà, dimostra che la crocifissione non è stata inutile, che il sacrificio di Cristo dà i suoi frutti» (13).
«Io credo – confessa Nicolae Steinhardt – che se esci dalla prigione e, in seguito alle sofferenze patite, ti ritrovi con desideri di vendetta e con sentimenti di acredine, sono state inutili la prigione e le sofferenze. Se, invece, il risultato è un insieme di pace, di comprensione e di ripugnanza per ogni violenza e furbizia, allora le sofferenze e le prigioni sono state utili e appartengono alle vie misteriose che il Signore ama percorrere» (14).
Imprigionato nel carcere di Jilava il 15 marzo 1960, viene battezzato da Padre Mina Dobzeu, nel rito ortodosso. Uscito dal carcere dopo l’amnistia generale del 1964, inizia a condurre una vita cristiana autentica e nel 1973 entra nel monastero di Rohia, diventandovi monaco con il nome di Nicolae nel 1980. Padre Arsenie Papacioc (1914-2011) (15), che ha scontato 14 anni di carcere, affermava che la sofferenza vissuta nella carceri comuniste era stata una grande prova per un cristiano.
«Il comunismo – diceva spesso padre Popacioc – ha riempito il cielo di santi».
«Non esisteva un altro metodo di studio, di preparazione, un’altra possibilità di arrivare alla profondità dello spirito e al legame con Dio se non la sofferenza che ci accomunava, ci faceva vivere e capire il calvario divino. È stato un tempo di grazia e benedizione.
La sofferenza ci ha uniti, tra di noi e con Dio, sulla stessa croce» (16). Un altro personaggio rilevante è Mircea Vulcănescu (1904-1952) (17), la cui vita dimostra quanto sia importante per un vero cristiano l’amore verso il prossimo.
Morto a 48 anni, Vulcănescu ha lasciato ai posteri una testimonianza impressionante, vera espressione di santità, tanto che le sue ultime parole sono anche oggi un leitmotiv della sua generazione finita nelle carceri: «Non ci vendicate!». Dopo un periodo trascorso nelle prigioni di Văcăreşti e Jilava, Vulcănescu viene trasferito ad Aiud (18), dove è sottoposto a un regime carcerario disumano, di massima sicurezza, soprattutto nella famigerata zarcă, una cella di isolamento totale, dove il carcerato poteva dormire solo in piedi.
Molti di quelli che l’hanno conosciuto ricordano il coraggio che infondeva nei detenuti. Memorabile la lettera mandata alla sua famiglia, dove fra l’altro troviamo scritto: «L’inizio è stato difficile. Ho avuto paura della solitudine. Mi sentivo perso in fondo al mondo e portato su un’ala. Ho pianto, non di dolore, ma al pensiero di quanto devono essere stati tristi il Getsemani e il Golgota… Alla fine sono rimasto solo con me stesso. Ho parlato fra me e me della chiarezza, di me stesso, della natura, di Dio (…). Mi sono sentito straordinariamente lucido, ma spaventosamente libero (…)» (19).
In una cella fredda e buia di Aiud, Mircea Vulcănescu morirà da martire. Uno dei compagni stremati si accascia sulla fredda pietra della prigione. Sopraffatto dalla pietà e dall’amore, Vulcănescu si stende nudo sul pavimento di pietra e mette il compagno stremato su di sé in modo che si riscaldi. Valeriu Gafencu (1921-1952), forse uno dei personaggi più rappresentativi, è riuscito a ispirare a tutti i compagni di cella un modo autentico di vivere la fede cristiana.
Tante pagine di memorialistica delle carceri comuniste ricordano il giovane Valeriu Gafencu come un vero esempio attraverso cui molti detenuti atei hanno scoperto la fede religiosa. «Ringrazio di tutto cuore il buon Dio per la sofferenza che mi ha mandato, perché attraverso la sofferenza mi ha portato la luce dello spirito e ho trovato la strada della Vita» (20).
«Ogni cella dove Gafencu andava diventava un luogo di preghiera», ricorda padre Gheorghe Calciu Dumitreasa (21). «Oggi sono felice e, attraverso Gesù, amo tutti voi» (22). Secondo le testimonianze di alcuni compagni di cella, Valeriu Gafencu ha atteso la morte con una serenità che intimoriva persino le guardie carcerarie.
Il 2 febbraio 1952, secondo le testimonianze, chiede un cero e una camicia bianca da conservare fino al 18 febbraio dello stesso anno. Vuole che gli sia messo in bocca, nella parte destra, un piccolo crocefisso. Il 18 febbraio, tra le 14 e le 15, dopo momenti di intensa preghiera, con il viso trasfigurato, Gafencu muore.
I suoi ultimi giorni, gli ultimi istanti sono pieni di emozioni, così come li racconta Ioan Ianolide nel libro Întoarcerea la Hristos [Il ritorno a Cristo]: «Con le sue ultime forze [Gafencu] mi ha detto: “Innanzitutto il mio pensiero e la mia anima rendono omaggio a Dio. Ringrazio di essere arrivato qui. Vado da Lui senza nessuna incertezza. Sono felice di morire per Cristo”» (23)
Nel cimitero del monastero romeno di Cernica, vicino alla città di Bucarest, si trova una croce con un messaggio che spinge alla riflessione: «Tutto in Cristo!». Lo ha scritto Ioan Ianolide (1919-1986), un uomo che ha sperimentato l’inferno delle carceri comuniste.
Tutti coloro che l’hanno conosciuto raccontano che Ioan, nelle sue preghiera a Gesù, chiedeva costantemente perdono per la sua condizione di umile peccatore. Condannato a 23 anni di carcere e a una sofferenza inimmaginabile, scrive Întoarcerea la Hristos [Il ritorno a Cristo], un libro importante che racconta l’esperienza della vita in carcere. «So bene che personalmente non posso fare niente di pratico per il mondo. Vivo, infatti, solo, isolato, anonimo. La malattia ha accentuato la mia solitudine, perché mi sposto con difficoltà. La mia camera è la mia cella. Il mio cuore è il mio mondo. I miei pensieri sono il mio lavoro. La preghiera è la vita per me. Amo! Amo gli uomini che Cristo ama. Sanguino ininterrottamente nella speranza della redenzione del mondo. Credo nella redenzione del mondo. Credo negli uomini simili a Dio» (24).
Il volume, terminato nel 1982, è apparso però solo dopo la Rivoluzione grazie all’opera delle monache del monastero di Diaconeşti. «Cerchiamo di annunciare Gesù crocifisso nel XX secolo. Qui sono accaduti miracoli, qui sono rinati la santità e il martirio, qui dei martiri hanno donato la loro vita per la fede» (25).
Nella stessa introduzione Ianolide afferma: «Noi abbiamo parlato partendo dalla pienezza della vita in Cristo, dal profondo della persecuzione più orrenda, dalla dedizione fino al sacrificio. Abbiamo visto in mezzo a noi persone che hanno realizzato la pienezza dell’uomo, la santità, il martirio, ma attraverso una selezione terribile» (26).
Monsignor Vladimir Ghika (1873-1954) è stato un sacerdote romano-cattolico (27). Arrestato con la falsa accusa, rivolta a molti, di minaccia all’ordine pubblico, monsignor Ghika in realtà viene incarcerato per la sua attività missionaria con cui attirava molte persone verso Dio.
Per tutta la durata dell’inchiesta – quasi un anno – viene interrogato, picchiato a sangue, torturato e infine condannato al carcere duro con l’accusa di «complicità nel crimine di alto tradimento». Rinchiuso nel carcere della Jilava, Vladimir Ghika continua, come testimoniano i suoi compagni di cella, in condizioni impossibili, la sua missione di confessore spirituale e conciliatore di anime.
Nonostante le torture subite, Vladimir Ghika offre in prigione conforto spirituale ai suoi compagni così come aveva sempre fatto durante tutta la sua vita: «Amare Dio significa trovare la forza di essere felici persino nelle disgrazie più spaventose» (28).
Occorre a questo punto menzionare una realtà unica per l’ambito romeno, e non solo: l’esperimento Pitești (31), che fu attivo tra il 1949 e il 1952. Il carcere fu ideato per la rieducazione dei giovani oppositori del regime comunista, metodo denominato «Rieducazione attraverso la tortura».
I detenuti erano accolti con tranquillità, e poi sottoposti a persecuzioni inimmaginabili. Le torture inflitte ai prigionieri erano sistematicamente attuate giorno e notte, secondo regole precise affidate all’iniziativa di un gruppo di detenuti guidati da Eugen Turcanu (32).
A Pitești fu sperimentata una terribile forma di tortura che neppure i gulag sovietici avevano e avrebbero mai conosciuto, definita da Alexander Solzhenitsyn (33) «la peggiore barbarie del mondo contemporaneo». L’obiettivo dell’esperimento era quello di far rinnegare le convinzioni e le idee politico-religiose ai detenuti, annullare la persona, ma senza ucciderla: pugni, calci, violenze in ogni momento, con una tortura spinta fino al confine con la morte, ma restando in vita.
I “rieducati” erano obbligati ad autodenunciarsi, a negare se stessi, a denunciare la propria famiglia, gli amici e le fidanzate. Annullare il proprio credo, i propri valori e rinnegare la fede in Dio e nell’Eucaristia rappresentavano la massima tortura. Dopo due anni il governo comunista, per non compromettere troppo la propria immagine, fermò l’esperimento nel 1952.
Nel 1954 tutto il gruppo e il promotore Eugen Turcanu furono accusati di aver fatto ricorso alla tortura dei detenuti per screditare il regime comunista e, in seguito a un processo farsa, furono tutti condannati a morte.
Dopo gli anni ’90 sono nate numerose associazioni e fondazioni per custodire i luoghi del dolore e della sofferenza e trasformarli in punti della memoria sulla cartina geografica (Il memoriale di Aiud, Il Memoriale Sighet – Il “Memoriale delle Vittime del Comunismo e della Resistenza”, Il Memoriale Jilava – “Il carcere dell’inferno comunista”, Il Memoriale Piteşti – “Il Genocidio delle anime”, ecc.).
L’idea è venuta in primo luogo agli ex-detenuti, ai sopravvissuti alle carceri, alle persone che hanno deciso di ricordare i segni e i traumi dei compagni che hanno vissuto la stessa tragedia. Abbiamo assistito così, per la prima volta dopo il 1990, alla celebrazione di messe in ricordo dei morti nelle carceri comuniste.
Ogni domenica i preti della Chiesa ortodossa pregano per loro. I sopravvissuti, oggi ormai ridotti a un numero esiguo, sono invitati ai vari convegni dedicati al tema delle carceri comuniste, per raccontare la loro esperienza e far conoscere ai giovani la storia che non si trova nei libri di scuola.
Note.
1) Il decreto del 3 gennaio 1950 stabiliva l’arresto di chi «mette in pericolo o tenta di mettere in pericolo il regime di democrazia popolare».
3) La Romania, appena trasformata in paese comunista, decide di adattare il proprio sistema penitenziario al modello sovietico e trasforma le prigioni esistenti in una sorta di gulag in miniatura, copie fedeli del Gulag sovietico.
4) Dopo il 1945 in Romania avvengono migliaia di arresti in seguito ad alcuni decreti governativi o ministeriali, mai pubblicati e rimasti segreti.
5) Istituto per l’Investigazione dei Crimini del Comunismo e la Memoria dell’Esilio Romeno (IICCMER), un ente governativo di ricerca, documentazione e supporto che mira a divulgare la storia del comunismo in Romania, con progetti educativi, editoriali e museali.
6) Si veda Il memoriale del dolore, un film prodotto dalla Televisione pubblica romena.
7). Dopo gli anni ’90 verranno pubblicati da parte degli alcuni sopravvissuti numerosi volumi di memorie.
8) Un’iniziativa molto importante all’insegna del recupero della memoria e del passato del popolo romeno è rappresentata dalla rivista «Memoria. Revista gândirii arestate» [Memoria. La rivista del pensiero imprigionato].
9) A. Riccardi, Il secolo del martirio. I cristiani del novecento, Milano 2000.
10) Le Chiese greco-cattolica romena e romano-cattolica erano considerate dal regime comunista i nemici più grandi per via del loro legame con il Vaticano: nel 1948 la Chiesa greco-cattolica romena sarà cancellata; la Chiesa romano-cattolica è spinta ai margini della tolleranza; invece la Chiesa ortodossa fu sottomessa a un rigoroso controllo da parte delle autorità politiche, subendo decisioni da parte dello Stato, seguendo un necessario «compromesso per sopravvivere».
11) N. Steinhardt, Diario della felicità, Bologna 1995, 23 (or. Jurnalul fericirii, Cluj-Napoca 1991).
12) Nicolae Steinhardt (1912-1989), ebreo di origine, nasce a Bucarest. Frequenta la Facoltà di Giurisprudenza e Lettere, ottenendo il dottorato in diritto nel 1936. Nel 1959 viene arrestato con un gruppo di amici e gli è chiesto di testimoniare contro «gli intellettuali mistico-legionari». Viene condannato a dodici anni di lavori forzati per «crimine contro l’ordine sociale».
13) N. Steinhardt, Diario della felicità, 344.
14) Ibid., 333. Padre Arsenie Papacioc è una delle figure più importanti della spiritualità romena.
16) Monah Moise Iorgovan, Sfântul închisorilor. Mărturii despre Valeriu Gafencu [Il santo delle carceri. Testimonianze su Valeriu Gafencu], Alba Julia 2007, 44-45 [trad. nostra].
17) Mircea Vulcănescu (1904-1952), intellettuale poliedrico, tra le più grandi personalità culturali romene del periodo interbellico.
18) Aiud è una città della Romania, situata nella regione della Transilvania, in passato sede di un campo di concentramento per gli oppositori al sistema comunista, un vero centro di sterminio per la gente arrestata.
19) In http://www.art-emis.ro/jurnalistica/581-o-miorita-ntoarsa-intr-alt-chip.html [trad. nostra] (ultimo accesso: 6 novembre 2013). Una copia di questa lettera fu sottratta alla redazione della rivista «Curentul» [La corrente] da un giovane ufficiale sotto copertura, a quei tempi spia della Securitate. Per approfondire lo studio della figura di M. Vulcănescu, è utile la lettura di un saggio curato da Marin Diaconu e pubblicato grazie all’intervento del Ministero della Cultura romeno, cioè M. Diaconu (a cura di), Mircea Vulcănescu. Cunjuncturi internaţionale. Cronici externe 1935 [Mircea Vulcănescu. Congiunture internazionali. Cronache esterne 1935], Bucureşti 1998.
20) Lettera di Valeriu Gafencu dal carcere di Aiud, 25 maggio 1945 [trad. nostra], in http://valeriugafencu. wordpress.com (ultimo accesso: 5 novembre 2013).
21) Padre Gheorghe Calciu Dumitreasa in C. Voicilă (a cura di), Mărturisitorii din închisorile comuniste. Minuni. Mărturii. Repere [I testimoni delle carceri comuniste. Miracoli. Testimonianze. Riscontri], Bucureşti 2011, 127 [trad. nostra].
22) Lettera di Valeriu Gafencu dal carcere di Aiud, 25 maggio 1945
Violeta P. Popescu. Dopo la laurea in Storia e Filosofia (Università Babes-Bolyai Cluj Napoca), la laurea in Teologia (Università Lucian Blaga – Sibiu) e un Master in Studi di Storia e Teologia presso l’Università di Bucarest (2002-2004), ha lavorato come redattore per varie riviste di storia, insegnante di religione, storia e filosofia. Svolge attività come museografo e redattore nel periodo 1997-2004 presso la Diocesi Ortodossa Romena di Covasna e Harghita. È autrice di articoli su studi interdisciplinari di storia, sociologia, teologia, antropologia. Vive in Italia dal 2005 e ha fondato a Milano nel 2008 il Centro Culturale Italo-Romeno (www.culturaomena.it) dove tiene conferenze, relazioni presso scuole, università, biblioteche italiane in rigurado ai rapporti culturali italo-romeni. Attualmente dottorato di ricerca presso l’Università Svizzera Italiana- Facoltà di Teologia- Lugano-Svizzera