Il Mattino di Napoli 21 giugno 2015
Editoriale
di Massimo Introvigne
La piazza della manifestazione di Roma per la famiglia «Difendiamo i nostri figli» ha vinto la sua sfida. Si diceva che, senza l’appoggio esplicito della Conferenza Episcopale Italiana, che si mobilitò per il Family Day del 2007, sarebbe stato impossibile replicare il successo di quella giornata. Sulle cifre delle grandi manifestazioni si può sempre discutere, ma le fotografie non mentono. Confrontiamo le immagini di Piazza San Giovanni del 2007 e del 2015: il colpo d’occhio è lo stesso, la piazza era strapiena e, se c’erano un milione di persone nel 2007, altrettante ce n’erano ieri.
Da qui discende una prima considerazione, di natura sociologica. Sì, i tempi sono cambiati dal 2007, ma non nel senso che ipotizzavano alcuni che temevano – o auspicavano – il fallimento della manifestazione. Saggiamente gli organizzatori non hanno sollecitato adesioni di associazioni o movimenti, ma solo del popolo delle famiglie. Alcuni movimenti hanno aderito ufficialmente – i neo-catecumenali, il cui leader e fondatore Kiko ci ha messo la faccia e ha parlato dal palco, Alleanza Cattolica, e pezzi importanti del mondo protestante di matrice pentecostale e conservatrice – ma alla fine la manifestazione è stata davvero delle famiglie.
La non adesione, con motivi diversi, di importanti organizzazioni cattoliche non ha avuto un’influenza decisiva. Lo si era visto all’analoga Manif pour Tous francese: non importa quali sigle aderiscono, viviamo nell’epoca dei social network e dei flash mob e migliaia di iscritti ad associazioni i cui dirigenti avevano annunciato la non adesione si sono presentati comunque in piazza. Oggi le associazioni non controllano più i loro membri. Gli stessi vescovi – ma tanti alla fine si sono schierati a favore – non influenzano più del tanto le decisioni dei loro diocesani. Lo aveva detto ai vescovi italiani, con la sua capacità unica di scegliere formule immediate, Papa Francesco: è finito il tempo dei «vescovi-pilota», ormai i laici decidono da soli, cercate di farvene una ragione.
Seconda osservazione: le associazioni omosessuali che hanno gridato all’omofobia e lo stesso sottosegretario Scalfarotto che ha parlato di «manifestazione inaccettabile» – errore grave, in democrazia non ci sono manifestazioni inaccettabili – non hanno capito esattamente chi è che è andato in piazza. Se frequentassero il mondo cattolico e leggessero i suoi blog saprebbero che il piccolo mondo più oltranzista, quello che detesta Papa Francesco e il Concilio Vaticano II, a Roma non c’era e anzi ha attaccato violentemente gli organizzatori, accusandoli di non essere «contro» gli omosessuali e di volere riconoscere loro alcuni diritti individuali fondamentali.
Papa Francesco è stato fra i più citati a Roma – anche nell’intervento più «politico», quello dell’ex sottosegretario Alfredo Mantovano – e il popolo di Piazza San Giovanni ha mostrato di saper distinguere fra le persone omosessuali, da non giudicare e accogliere con rispetto, le leggi – che si ha sempre il diritto di criticare – e il più generale problema della famiglia, «bastonata da tutte le parti» – sono parole dello stesso Pontefice -, a partire da un fisco che la ignora e a finire con la scuola che impone ideologie sgradite ai genitori.
Il successo politico della manifestazione deriva proprio dal non essere stata «contro» le persone omosessuali. Non contro qualcuno, ma contro qualcosa: l’ideologia del gender e le sue trascrizioni legislative. E dall’essere stata prima «per» e solo dopo «contro»: per la famiglia, la più grande risorsa della nostra società assurdamente eclissata dalle politiche degli ultimi anni.
In questo senso, compresa bene, la piazza di Roma può parlare anche a coloro che la pensano diversamente. Sarebbe un errore contrapporre la piazza al confronto tra posizioni diverse. Le due cose possono e devono stare insieme. Né si può negare che il luogo dove si fanno le leggi è il Parlamento, e che lì si deve operare per soluzioni conformi al bene comune. Sbaglierebbero Matteo Renzi, il governo, la maggioranza parlamentare se ignorassero la manifestazione di Roma con un’alzata di spalle. Dal palco romano non è venuto nessun rifiuto acritico del confronto. Ma il confronto è possibile solo a partire da un’identità e da posizioni espresse con chiarezza, di cui nessuno deve avere paura.
In concreto, la trama possibile di un confronto è indicata dal Comitato dei parlamentari per la famiglia, partito con un centinaio di adesioni ma che cresce continuamente.
Riconoscimento del fatto che le convivenze omosessuali esistono, e che le persone che le vivono hanno diritti – individuali e patrimoniali, non matrimoniali – già riconosciuti da tante leggi italiane, che possono essere coordinate con la formula di un testo unico o con altre che la politica potrà inventare. Diritti ragionevoli – ebbe a dirlo anche il Papa, in un’intervista a Ferruccio de Bortoli – ma che sono altra cosa dalle unioni civili della legge Cirinnà.
Con queste ultime si crea un simil-matrimonio, che apre nel suo articolo 5 all’adozione del figlio biologico o adottivo di uno dei conviventi e quindi alla barbarica pratica dell’utero in affitto, e alza una facile schiacciata ai giudici italiani e europei per l’introduzione dell’adozione omosessuale senza alcun limite. I sondaggi lo dicono, e la piazza lo ha confermato.
La maggioranza degli italiani sta con Papa Francesco, vuole riconoscere ai conviventi omosessuali ragionevoli diritti individuali ma non vuole le adozioni e detesta l’utero in affitto. Su queste basi cattolici e laici, il popolo di Piazza San Giovanni e chi dalla manifestazione si è sentito disturbato, possono sedersi intorno a un tavolo e iniziare un confronto serio.