Avvenire 12 luglio 1995
False campagne e incassi miliardari: così lavora Greenpeace
di Maurizio Blondet
Guarda chi si rivede: a bordo del gommone che beffa la marina francese a Muroroa c’è David McTaggart, 63 anni, canadese. Riapparso dopo una dubbia eclisse. Era presidente internazionale di Greenpeace fino al 1991, quando dovette dimettersi perché s’era diffusa la cifra esatta dello «stipendio» che s’era attribuito: 562 milioni di lire annue, presi dai fondi dell’organizzazione.
Quisquilie, in fondo. Greenpeace ha un incasso annuale di oltre 150 miliardi. Pagati non solo dai suoi milioni di soci in 25 Paesi (particolarmente numerosi nel Nord Europa: 700 mila solo in Germania, 200 mila in Svezia), ciascuno dei quali contribuisce con almeno 50 marchi l’anno alle imprese della multinazionale ecologista.
Tra i sostenitori privilegiati di Greenpeace si contano anche personalità che non badano a spese: dalla famiglia Rockefeiler alla Occidental Petroleum (la multinazionale petrolifera di Armano Hammer, «il miliardario rosso» morto nel ’91), da David Hamburg (presidente della Fondazione Carnegie) a Robert McNamara (ex presidente della Banca Mondiale ed ex ministro della Difesa Usa durante la guerra dei Vietnam) a Gerome Wiesaner, presidente del Massachusetts Instìtute of Technology, fino al principe Filippo d’Edimburgo (per anni presidente del Wwf) e alla famiglia reale olandese, insomma gli stessi ambienti che promuovono con ogni mezzo la «crescita zero» demografica ed economica. Quanto alla difesa legale di Greenpeace, se ne occupa (gratis) uno celebre studio di avvocati americano: lo studio «Wilmer, Cutler & Pickering». lo stesso che cura gli interessi della Shell, deil’Ibm e del quotidiano Washington Post.
McTaggart, dunque, si pagava un emolumento adeguato al boss di un’azienda con un così ragguardevole fatturato. Del resto il canadese ha praticamente creato Greenpeace: nel 70 mise a disposizione dell’organizzazione il suo panfilo Vega, l’unico bene che aveva salvato dalla bancarotta in cui era incappato, come agente immobiliare, pochi anni prima. A bordo della Vega i primi ecologisti osteggiarono un esperimento nucleare francese nel 71.
McTaggart ha dato a Greenpeace anche la tipica struttura verticistica, basata sul «peso» del contributo finanziario: su 25 delegati della cosiddetta «assemblea internazionale di Greenpeace», solo 12 hanno diritto di voto. E sono i delegati dei Paesi i cui uffici ecologisti sono abbastanza ricchi da poter versare a Greenpeace almeno il 24% dei loro bilancio annuo. «Le delegazioni di Francia. Italia e Belgio», scriveva il 16 settembre 1991 Ber Spiegel, «non hanno diritto di voto perché non sono riusciti a raggiungere questa quota. E in Germania, su 700 mila soci, solo 30 hanno potere decisionale: una rappresentanza dello 0,0004%».
Il vulcanico McTaggart ha anche il merito di aver orientato le azioni di Greenpeace verso cause di grande presa presso i mass-media: fra cui le campagne contro lo sterminio delle foche (1976) e quella contro la caccia alle balene (1989). La campagna a difesa delle foche che si fondò su crudeli filmati, diffusi da Greenpeace in tutto il mondo, in cui si vedevano malvagi cacciatori islandesi che uccidevano a randellate tenerissimi cuccioli di foca, fi raccapriccio fu universale; gli Usa ne approfittarono per imporre l’embargo sulle importazioni di pesce dalla Groenlandia (i cui 50 mila abitanti, molti meno dei soci di Greenpeace, vivono di pesca), e già che c’erano anche contro l’Islanda, la Finlandia e la Norvegia, tutti grandi esportatori di pesce negli Stati Uniti, con svantaggio per la bilancia commerciale americana.
Un giornalista della tv islandese, Magnus Gudmundsson, dimostrò nei 1989 che le sequenze delle sevizie alle foche diffuse da Greenpeace erano state girate e montate ad arte, e che i cattivi cacciatori erano delle comparse pagate. Così tramontò la stella di McTaggart, ora tornato alla ribalta come «pirata verde».