La Croce quotidiano 6 ottobre 2016
Di fronte alla tomba di San Francesco riposa “Frate Iacopa” (dei Settesoli), la nobildonna romana che procurava mostaccioli al Poverello. È possibile “mangiare da santi”? Certo, ma anche dannarsi con l’edonismo e l’eccessiva ricercatezza del cucinare. Occorre cucinare e mangiare “cum grano salis”
di Sara Deodati
Pochi giorni fa abbiamo celebrato la festa di San Francesco d’Assisi la cui esistenza, nell’immaginario collettivo e nei media, è sempre rappresentata come fatta di stenti e terribili mortificazioni. Per quanto riguarda il cibo, di conseguenza, si tratterebbe di questione che non lo riguardi, quasi che il Poverello non avesse avuto il primario bisogno di nutrirsi. Viceversa le fonti francescane ci danno notizia di un uomo che, nella sua comunità, si è liberamente mostrato come un moderato estimatore del buon cibo, che sa apprezzare come dono e segno di letizia.
Il passaggio determinante nella cultura della tavola, piuttosto, ha assunto connotati piuttosto distanti da quelli cristiani nel passaggio dal Medioevo al Rinascimento. Come ha ben descritto Claudio Benporat, direttore del quadrimestrale “Appunti di gastronomia”, l’unica pubblicazione in Italia che si occupa di storia della cucina, con il passaggio dal Quattrocento al Cinquecento matura in Italia una nuova sensibilità gastronomica che, superati i modelli degli autori classici, si ispira a una rinnovata visione sociale e culturale. Sono gli anni in cui nasce la “nuova cucina italiana” che, libera da ogni vincolo dietetico e ispirazione religiosa e comunitaria, punta soprattutto all’estetica ed a piatti ricercati (cfr. C. Benporat, Cucina e convivialità italiana nel Cinquecento, Olsckij, Firenze 2007).
Il Cinquecento, in particolare, è il secolo di Cristoforo di Messisbugo (Ferrara fine 1400-Ferrara 1548), considerato uno dei più grandi cuochi italiani moderni, del quale si ritrovano ancora in determinati ristoranti selezionati la ricetta per i “tortelli di Messisbugo”, saporita e calorica. Dopo la sua morte, del Messi detto “Sbugi”, venne pubblicato nel 1549 il celebre libro “Banchetti, composizioni di vivande et apparecchio generale”, più volte ristampato fino alla prima metà del Seicento. Si tratta di un vero e proprio trattato di costume, che eccelle per le preparazioni elaborate e spettacolari, che non avrebbero sfigurato in un banchetto di corte. Altri cuochi di questo periodo e della medesima tendenza sono per esempio Domenico Romoli, detto “il Panunto” e Bartolomeo Scappi (1500-1577), fra i massimi interpreti di una manualità complessa e raffinata che prende forma in una serie di ricettari frutto dell’esperienza maturata presso le più importanti corti italiane.
Da popolare, quindi, la tavola rincorre i modelli “cortesi”, poiché negli stessi anni diventa più artificiosa la cerimonia del convito, trasformata in evento mediatico, una tendenza giunta oggi al parossismo con le improbabili scuole dei “Master Chef”. Mentre nel Medioevo era soprattutto l’ampia comunità familiare e locale a servire, e la cucina un luogo privilegiato della casa, ecco apparire nel Rinascimento, solo per i ricchi ed i borghesi naturalmente, un nutrito stuolo di scalchi, trincianti, coppieri, bottiglieri etc., che animano la scena dove si svolge l’evento del pasto. L’ideale scristianizzato del pasto è quindi quello della spettacolarizzazione, del convito reso unico per lusso, fasto ed eleganza, immagine della magnificenza del “padrone di casa”, della sua ricchezza, del suo egocentrismo, del suo ruolo istituzionale o politico. Un “pendio scivoloso” che ha portato oggi anche agli “angoli cottura”, nei quali la stessa dignità della cucina, nella casa, è totalmente negata!
All’esatto opposto si pone quindi la cucina “povera” ma non di rado gustosa, naturale e non elaborata del convivio medievale, il cui centro è l’esperienza sacrale, comunitaria e di umanizzazione della tavola. Alcuni esempi? Si va dalla schiacciata di capperi e cipolle alla San Colombano, ricetta ancora utilizzata in alcune comunità, alla focaccia di Santa Chiara d’Assisi per finire con il pasticcio di gamberi per frate Francesco. Il messaggio di sobrietà e digiuno del Poverello d’Assisi, non si contrappone infatti al buon cibo, che è un bene e non un male. L’importante è la misura, cioè non farne un idolo ed eccedere con la golosità. Scriveva in proposito sant’Agostino: «Io non temo l’impurità delle vivande: temo l’impurità del desiderio».
Questo anche perché il cibo, come ogni altro dono ricevuto da Dio, è sempre fatto per essere condiviso con gli altri, soprattutto con i più poveri. Anzi il cibo, dono di Dio, cucinato grazie al lavoro dell’uomo può far crescere in bontà, carità e sapienza. L’importanza dell’alimentazione alla luce del suo valore simbolico, sacro e culturale, è un concetto perduto con la Modernità che, progressivamente, con il suo laicismo e individualismo, si distacca dal Cristianesimo.
Anche dall’esame di una rassegna pur minimale degli ingredienti di quell’esempio di Civiltà umana e cristiana che è stato il Medioevo, si comprende quella giusta dimensione di sobrietà, salute, convivialità e giustizia che dovrebbe ispirare anche questa dimensione importante del vivere. Focacce, cereali, erbe selvatiche, verdure, uova, formaggi, pesce, carni bianche e dolci (i mostaccioli di mandorle): tutti questi alimenti, se presi senza ingordigia, contribuiscono a lodare il Creatore nel creato ed a rinsaldare i rapporti fraterni tra gli uomini e le famiglie. E a rafforzare la fraternità tra gli uomini. Anche su questo bisognerebbe saper leggere nella sua interezza il messaggio di San Francesco, oggi riduttivamente inteso e presentato ai più.
Si legge per esempio nella “Regola non bollata”, composta dal Poverello d’Assisi intorno al 1221: «Colui che mangia, non disprezzi chi non mangia, e chi non mangia, non giudichi colui che mangia. E ogniqualvolta sopravvenga la necessità, sia consentito a tutti i frati, ovunque si trovino, di servirsi di tutti i cibi che gli uomini possono mangiare, così come il Signore dice di Davide, il quale mangiò i pani dell’offerta che non era permesso mangiare se non ai sacerdoti. E si ricordino che il Signore dice: “State bene attenti, che i vostri cuori non si appesantiscano nella crapula e nell’ubriachezza e nelle preoccupazioni di questa vita e che quel giorno non piombi su di voi all’improvviso, poiché cadrà come un laccio su tutti coloro che abitano sulla faccia della terra”. Similmente, ancora, in tempo di manifesta necessità tutti i frati per le cose loro necessarie provvedano così come il Signore darà loro la grazia, poiché la necessità non ha legge».
Far perdere il valore sacrale e comunitario del cibo per sostituirlo con quello edonistico, estetico e rituale, è stato uno dei peggiori errori del “Rinascimento”. Prendere esempio dalla spiritualità francescana, anche nell’uso e nel rapporto con il cibo, può aiutare a ricollocare oggi la tavola al posto che gli spetta. L’invito a godere del buon cibo e dell’amicizia a tavola, non vuole assolutamente far trascurare il digiuno come mezzo privilegiato di rinuncia a se stessi «per cibarsi solamente di Dio», come insegnava la Tradizione cristiana. Attraverso la tavola è possibile ritornare a fare esperienza di umanizzazione e di trasformazione del mondo.
Cominciamo a fare questa esperienza, invitando o partecipando a banchetti fraterni che, non di rado, possono trasformarsi anche in esperienze preziose di apostolato o edificazione.