Ecco perché nel suo momento di crisi, continuiamo a sostenere il regista de “La Passione di Cristo” e “Apocalypto”
di Rino Cammilleri
Quando un cattolico famoso (o almeno che si è esposto come tale) crolla sotto il peso delle sue debolezze umane una gioia segreta e maligna invade molti, anche tra quelli che dovrebbero essere ideologicamente contigui. Lo si è visto in occasione della notizia, uscita nell’aprile scorso, della domanda di divorzio inoltrata dalla moglie di Mel Gibson.
Non ho letto i commenti sulle testate di sinistra, perché mi bastava una modesta dose di fantasia per immaginarli. Ho letto a destra e ho trovato, sia pure a denti stretti, una malcelata soddisfazione. Eccolo lì, quello che faceva tanto il cattolico, quello che si alzava la mattina alle cinque per andare a messa (in latino, per giunta): è un poveraccio come tutti; anzi, peggiore perché ipocrita, e adesso finalmente la smetterà di atteggiarsi a devoto.
Aprile, tempo di Pasqua, mi ha fatto venire in mente quelli che «scuotevano la testa» davanti al Cristo in croce: guardatelo lì, il sedicente Messia, ecco com’è finito, lui che insegnava agli altri. Non è un paragone, naturalmente, solo una concatenazione di pensieri. Gibson, che menava vanto del suo quasi trentennale matrimonio con la stessa donna (caso non raro ma unico a HolIywood) e dei suoi ben sette figli (di cui una suora), è stato avvistato in spiaggia in compagnia di una giovane russa.
Così, come perle di una collana, ci è stato puntualmente ricordato che Gibson è un ex alcolista beccato in recidiva dalla polizia e che ha insultato gli agenti che lo ammanettavano dando loro degli «ebrei». Naturalmente, per lui non valgono le attenuanti specifiche e generiche. Eppure lo sanno tutti che, negli Usa, la polizia ti sbatte faccia a terra e ti torce le braccia dietro la schiena mentre ti recita i tuoi diritti.
Tutti sanno, anche, che per i due anni precedenti Gibson era stato il piccione da tiro per l’intera comunità ebraica mondiale, aizzata dai suoi esponenti di maggior spicco. Si era permesso, nel suo film The Passion, di far credere che Pilato era stato spinto a mettere a morte Gesù dal Sinedrio, quando il politically correct esige che la responsabilità storica di quella crocifissione sia solo romana. Quanto certo parere conti a Hollywood e sui mezzi di comunicazione è noto (anche alla Chiesa).
Ne è nota pure la suscettibilità sensibilissima: addirittura, quando il nostro Vittorio Messori propose sul «Corriere della Sera» una sorta di Anti-Defamation League cattolica, il presidente della medesima, intervistato sulla stessa pagina, neanche troppo velatamente ventilò il ricorso al tribunale per il copyright sulla denominazione. Comprensibile, dunque (anche se non giustificabile), che Gibson, ubriaco, continuasse a vedere «ebrei» in tutti quelli che lo contrastavano. Infatti, tornato sobrio, se ne scusò.
Mel Gibson aveva pagato di tasca sua quel film come ex voto per aver superato una tentazione di suicidio, per sua stessa ammissione. Già: un vero artista (specialmente uno di genio, come lui) è sempre un tormentato. Ciò è così assodato che c’è chi, non avendo alcun talento artistico, «fa» il tormentato per accreditarsi, di solito con risultati grotteschi ma non per i media che, anzi, enfatizza gente così.
Gibson, però, è cattolico, e allora per lui cambia tutto. Ha osato rincarare la dose, dopo The Passion, facendo Apocalypto, un film perfettamente in linea con quello in cui crede: i popoli precolombiani praticavano sacrifici umani su scala industriale e solo l’avvento degli spagnoli liberò le loro vittime da una sorte da incubo.
E allora, eccoli tutti lì, in agguato, a scrutare il cattolico Gibson, in attesa di un suo fallo. E finalmente Gibson è cascato. Più di una volta. Inezie (una sbronza, un solo divorzio), per tutti ma non per lui. Bene, siamo contenti, è un miserabile come noi; anzi, di più, perché ci ha provato, a essere migliore di quel che è, e non ci è riuscito. Certo, il vero cattolico credente e praticante sa bene che a lui non è chiesto di riuscire ma di provare continuamente, sa bene che è impossibile non cadere mai e che l’unica cosa di cui dovrà rendere conto nel Giudizio è quante volte si è rialzato.
Ma questo non interessa agli atei e agli agnostici, resi cinici dall’assenza di speranza (e di umiltà). Godono quando un cattolico li raggiunge nella polvere perché li conferma nell’idea (fasulla ma comoda) che non vale la pena di sforzarsi, che Dio non esiste o, se esiste, non è certo quello predicato dal Papa.
Quanto a noi kattolici, continueremo a tifare per il nostro fratello Mel Gibson, perché predica bene anche se talvolta razzola male. Come noi. Perché preferiamo chi predica bene e non riesce talvolta a essere eroicamente coerente (e a Hollywood di eroismo morale ce ne vuole) a quanti non solo razzolano nel fango ma predicano anche peggio, cercando di trascinare al piano terra tutti quelli che possono.
Coraggio, Mel Gibson, e dacci un altro dei tuoi capolavori. Magari sull’Inquisizione.