La Michelin della Cena eucaristica spiegata dal suo autore e primo assaggiatore. E incensata a dovere
di Camillo Langone
Ci sono due partiti nella Chiesa, il Partito di Dio e il Partito dell’Uomo. Io appartengo al primo. Io non amo l’uomo, non amo gli uomini, se compiendo grandi sforzi posso arrivare a provare benevolenza per loro è solo perché me lo chiede Dio.
“Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. ” E’ proprio una novità assoluta, una goccia di miele in millenni di fiele, ed essendo un misoneista la cosa non mi provoca entusiasmo. Ma chi sono io per obiettare? “Vi ho dato infatti l’esempio”. Ci ha dato l’esempio e bisogna cercare di seguirlo.
La poca carità che sono riuscito a racimolare l’ho spesa scrivendo la “Guida alle Messe” in questi giorni in libreria (sono le recensioni liturgiche apparse sul Foglio più tante altre inedite). Ho voluto fosse una guida molto cattolica, più cattolica di me, e perché meritasse l’aggettivo ho cercato di immedesimarmi nei militanti dell’Uomo. Una domenica, al Padre Nostro, ho dato la mano ai miei vicini di banco per formare una catena umana, un’altra domenica, in un’altra chiesa, ho avuto un cedimento e ho perfino applaudito.
Quelli del Partito dell’Uomo li ho sempre pensati superbi travestiti da umili (avete presente come si abbigliano nelle parrocchie?) ma anche i superbi e i travestiti possono essere cristiani. Il problema è che molti di loro non sanno nemmeno dare un nome al peccato che li muove. Vito Mancuso e Alberto Melloni ci riuscirebbero ma preferiscono immaginarsi perfetti, altrimenti non darebbero l’assalto al Cielo, su lunghe scale sostenute da lettori che non riescono a eccitarsi senza l’eterodossia, come gli imprenditori parmigiani sembrano non riuscire a eccitarsi senza la cocaina.
Scale sempre più alte, come i grattacieli presenti e futuri delle città babeliche, però scale umane, non scale infinite. Gradini che terminano nel vuoto. Invece non ha nessuna intenzione di assaltare il Cielo chi va all’ambone in braga corta, chi schitarra “Il mio popolo in cammino” o analoghe hit anni Settanta, chi prende l’ostia con le zampe anteriori: pensa sinceramente di fare cosa buona e giusta, gradita a Gesù.
Oggi credo che la riforma liturgica postconciliare sia stata un male necessario. La liturgia doveva imbruttirsi, il clero doveva imbruttirsi, la Chiesa doveva imbruttirsi, perché all’inizio degli anni Sessanta nemmeno i cristiani tolleravano più la bellezza. Su queste pagine lo ha spiegato bene Roger Scruton: “La bellezza ci fa una richiesta: chiede di rinunciare al nostro narcisismo e di guardare al mondo con riverenza”.
Filosofia e politica, con lingue biforcute, avevano convinto ogni uomo di essere l’alfa e l’omega. Anche Dio doveva rimpicciolirsi per avvicinarsi ai nani narcisisti che partecipavano alla messa, altrimenti l’abbandono della pratica religiosa sarebbe stato forse ancora più massiccio. Non essendo il “pochi ma buoni” uno slogan cattolico, bensì settario, si cercò di tenere in qualche modo il popolo vicino al Santissimo Sacramento.
Ne risultò il messale di Paolo VI dove Dio, tuttavia, non era ancora nanificato abbastanza. Quando il Partito dell’Uomo prese il potere nelle curie e nelle parrocchie, il messale postconciliare, originariamente in latino, cadde nelle grinfie dei traduttori-traditori e degli improvvisatori, sia chierici che laici. E venne fuori non una divina liturgia ma un ampio ventaglio di messe troppo umane, ognuna capricciosamente diversa dall’altra, un’anarchia in cui nemmeno i periodici interventi papali sono mai riusciti a mettere ordine.
Immergendomi nella Guida alle Messe la storia dell’Eucaristia ho cercato di dimenticarla, aiutato nell’operazione- oblio dai tanti amici che hanno raccolto informazioni su messe per me irraggiungibili: pochi, fra loro, i formalisti. Alla fine anch’io me ne sono abbastanza fregato di lingue, paramenti, formule e messali.
A Sant’Antimo, dove ho partecipato ad alcune delle messe più coinvolgenti della mia vita, ho scoperto che scegliere fra Pio V e Paolo VI non è così decisivo come si pensa: i frati bianchi di San Norberto trasformano in adorazione ogni momento della celebrazione “versus populum”, che in altre mani scatena il soggettivismo. Non esistono quindi cattivi messali ma solo cattivi celebranti.
In giro per l’Italia, al Nord, al Centro, al Sud, fra secolari e religiosi, movimenti e Azione cattolica, in cattedrali e parrocchiette, santuari e cappelle, ho constatato che la liturgia è sempre teologia in azione. Ho finalmente trovato il discrimine, il gesto che più di ogni altro segnala l’appartenenza a un partito o all’altro: l’inginocchiarsi alla consacrazione.
La genuflessione, che riconosce la presenza reale di Cristo nel pane e nel vino, è prescritta da tutti i messali possibili e immaginabili, vecchi e nuovi, romani e ambrosiani, latini e italiani, quindi non piegare le ginocchia (salvo casi di impedimento fisico) è rompere la comunione.
Ebbene, laddove non ci si inginocchia davanti a Dio si può star sicuri che il Partito dell’Uomo ha la maggioranza e che parecchi dei presenti sono pronti, svoltato l’angolo dell’apostasìa, a inginocchiarsi di fronte a Maometto, Mammona, la Costituzione, quello che passa il mercato delle convenienze e delle mode.
Soprattutto sulla base di questo ho giudicato le messe, fissando come meta un rito insieme teocentrico e cordiale, capace di riscaldare i tiepidi, di convertire gli agnostici, di liberare da se stessi gli egocentrici. Non ho dato peso agli ori, agli stucchi, ai damaschi, come sostiene chi mi accusa di estetismo. Non faccio mica l’antiquario.
Liturgicamente parlando la mia definizione di bellezza è strumentale. “Pulchrum est splendor veri” e quindi bello è l’oggetto, il movimento, la parola, il suono che avvicina a Dio, brutto il resto. Brutto il tamburello dionisiaco. Brutta l’acquasantiera vuota accidiosa. Brutta la candela elettrica profana. Brutta la predica politica. Sommamente bello il Crocifisso che papa Benedetto XVI vuole sia posto al centro di ogni altare per orientare lo sguardo di sacerdote e fedeli, orribili i preti, tanti, che non ce lo mettono manco morti.
(A.C. Valdera)