di Giovanni Guaita
Negli ultimi decenni del XIX secolo le cancellerie europee continuano a chiamare ufficialmente l’impero ottomano e il suo governo «la Sublime Porta», in riferimento all’uso dei sultani di ricevere gli ospiti di riguardo e rendere pubblici i propri decreti presso la terza porta del palazzo reale di Topkapi. In realtà, però, l’impero un tempo sublime è ormai in piena decadenza, al punto da far pensare piuttosto a un rudere pericolante (l).
I vari popoli sottomessi cercano con sempre maggior determinazione di ottenere dai turchi, se non l’indipendenza, almeno margini di autonomia e garanzie di diritti. In questo hanno il sostegno delle grandi potenze, che estendono ai cittadini cristiani ottomani la protezione che, per via del sistema delle «capitolazioni», già da alcuni secoli esercitano nei confronti dei propri sudditi residenti nell’impero (2).
Così alla fine del XIX secolo i cattolici ottomani, latini e dei vari riti orientali, sanno di poter contare sulla protezione della Francia, gli ortodossi su quella della Russia, i protestanti, gli ebrei e altre minoranze sull’appoggio britannico e americano. Per il governo ottomano, invece, le «capitolazioni» rappresentano sempre più una scomoda e umiliante ingerenza delle potenze occidentali negli affari interni dello Stato. Nonostante il suo progressivo smembramento, però, il gigantesco impero che abbraccia i due continenti sopravvive, grazie proprio agli interessi europei che si polarizzano attorno ad esso. Ognuna delle potenze europee, infatti, teme che le altre possano trarre troppo grandi vantaggi dalla totale sparizione dello Stato ottomano e così tutte si sforzano di mantenere in vita questo gigante agonizzante.
In questa situazione al trono ottomano accede il dispotico Abdul-Hamid II, destinato a passare alla storia come «il sultano rosso» o «il sultano sanguinario» (3). Egli ottiene il potere nell’agosto del 1876 in seguito a un doppio colpo di Stato: il Gran Visir Midhat-pasha, riformatore e sostenitore del movimento dei «Nuovi Ottomani», costituitesi nel 1865, alla fine di maggio aveva costretto il sultano Abdul-Aziz a abdicare in favore del nipote Murat V, e dopo soli due mesi aveva dichiarato Murat pazzo. Abdul-Hamid, subentrato al fratello Murat, sembra condividere le posizioni dei «Nuovi Ottomani» e di altri simili movimenti, sostenitori della necessità di riforme e del regime parlamentare. Alla fine dell’anno egli promulga la Costituzione che garantisce la libertà di parola.
Tuttavia ben presto il nuovo sultano comincia a vedere negli alleati di un tempo dei nemici, e cambia diametralmente le proprie posizioni. Destituisce Midhat-pasha (che poi farà esiliare e uccidere), scioglie il parlamento, introduce una severissima censura, abolisce la Costituzione e nel gennaio 1878 stabilisce un regime dispotico. Quanto ai «Nuovi Ottomani» e a simili organizzazioni politiche, non esita a metterli fuori legge e perseguitarli.
E non a torto: saranno infatti proprio gli eredi politici dei «Nuovi Ottomani», il movimento dei «Giovani Turchi» (che si forma nel 1889 e che in seguito si costituirà in partito «Unione e Progresso») a deporre Abdul-Hamid. Ma questo avverrà solo trentatré anni più tardi. All’inizio del regno di Abdul-Hamid II, negli anni 1877-1878, sui due fronti dei Balcani e dell’Armenia, si svolge l’ultima guerra russo-turca, che frutterà l’indipendenza di fatto della Bulgaria, della Romania e della Serbia. Davanti a quest’ennesima, grave manifestazione dello smembramento del suo impero, Abdul-Hamid decide di fare del nazionalismo estremo e sciovinista l’ideologia dello Stato, e del terrore e dello sterminio delle minoranze etniche la propria strategia di governo.
Quasi tutti gli imperi multietnici della storia umana, giunti al loro declino, sono stati mantenuti in vita – ancora per poco – dai loro governanti con lo stesso stratagemma: quello di suscitare presso la popolazione sentimenti di fanatismo nazionalistico e di fomentare l’intolleranza etnica. Nel caso dell’impero ottomano, l’alternarsi di governanti di opposte ideologie politiche, negli ultimi quattro decenni della sua esistenza, non cambia questa costante: il nazionalismo estremista e il terrore, come vedremo, saranno il denominatore comune della politica di Abdul-Hamid II, dei suoi acerrimi nemici, i Giovani Turchi, che lo destituiranno, e dei kemalisti che a loro volta subentreranno a questi.
La scelta politica di Abdul-Hamid porta subito a nefaste conseguenze per la popolazione armena dell’impero. Infatti, già nei primissimi anni del suo regno, gli armeni delle regioni di Bayazid, Diadin e Alashkert sono sterminati dalle truppe di volontari e irregolari, in buona parte curdi, di appoggio ai reparti dell’esercito ottomano; nella sola città di Bayazid sono uccisi 2.400 armeni. Ha così inizio il genocidio degli armeni.
La popolazione armena dell’impero ottomano era da sempre oggetto di episodi di violenza, di abusi e vessazioni di ogni genere, che a volte riguardavano anche gruppi molto numerosi. Ma è proprio dalla salita al trono di Abdul-Hamid II nel 1876 che l’operato delle autorità turche nei confronti dei sudditi armeni assume sempre più nettamente il carattere di un tentativo di eliminazione totale di questa comunità etnica.
Le violenze perpetrate in questi anni dai turchi e i loro sicari contro la popolazione armena sono inimmaginabili. Il celebre pensatore russo Vladimir Solov’èv, nei suoi Tre Dialoghi mette in scena un generale russo che avrebbe partecipato alla guerra del 1877-1878 con le truppe di Loris-Melikov; questo generale descrive un giorno a degli esterrefatti conoscenti gli orrori disumani compiuti dai bashibuzuki – i soldati della cavalleria irregolare turca -, di cui trovò le tracce entrando in un villaggio armeno: «Mi accorgo che i cosacchi a cavallo si sono avvicinati e si sono fermati, come impietriti (…). Un enorme convoglio con fuggiaschi armeni non aveva fatto in tempo a mettersi in salvo, [i bashibuzuki] l’avevano fermato e gli avevano fatto la festa. Avevano acceso il fuoco sotto i carri e avevano lasciato spenzolare sul fuoco gli armeni, legati ai carri chi per la testa, chi per la schiena, chi per la vita, arrostendoli lentamente. Attorno, donne coi seni mozzati, o sventrate (…). Ma c’è una scena che mi sta sempre davanti agli occhi: una donna, schiena a terra, legata a un’asse di carro per il collo e le spalle, in modo che non potesse voltare la faccia, non bruciata né lacera, ma col viso contratto, come se fosse morta di orrore; accanto a lei, un lungo palo conficcato a terra al quale è legato un bambino nudo – certamente suo figlio – tutto nero e con gli occhi fuori dalle orbite, e poco oltre, per terra, una rete con carboni ormai spenti».
Per il resto della vita, il generale russo riterrà di aver esperimentato «la più piena soddisfazione morale e perfino una sorta di estasi» proprio quando, raggiunti i bashibuzuki nel villaggio vicino, ne sterminò qualche migliaio…(4)
Sul fronte armeno, le truppe russe comandate da Melikov, con una dura battaglia combattuta dal 20 settembre/2 ottobre al 3/15 ottobre 1877, infliggono una pesante sconfitta al forte esercito del pasha Gazi-Mukhtar sulle alture di Aladja, a est di Kars, e cingono poi d’assedio la città. Tuttavia, alla fine della guerra, alla Russia passano solo le terre di Kars (con le rovine della città di Ani) e di Ardahan, che costituiranno la «regione di Kars» (Karsskaja oblast’) dell’impero russo.
Preoccupati dal continuo ripetersi di episodi di violenza da parte dei turchi, gli armeni di Russia fanno foltissime pressioni sulle proprie autorità affinchè nel trattato di pace siano incluse garanzie di riforme da parte dell’impero ottomano per gli armeni di Turchia (5). Il patriarca armeno di Costantinopoli Nerses Varzhapetian si rivolge all’imperatore russo Alessandro II, implorandolo di fare qualcosa in difesa degli armeni occidentali.
In conseguenza di tutto ciò, alla fine del conflitto la Russia cerca di porre queste condizioni alla pace. Tuttavia, benché i russi propongano una «autonomia amministrativa» per l’Armenia turca, da promulgarsi prima del ritiro delle truppe dello zar dai territori ottomani, il testo finale dell’art. 16 del trattato che le due potenze firmano a Santo Stefano, alla periferia di Istanbul, il 3 marzo 1878 (19 febbraio del vecchio calendario russo), parla solo genericamente di «riforme e miglioramenti» che dovranno essere verificati dai rappresentanti degli zar (6).
Comunque, poco più di tre mesi dopo, anche queste già deboli garanzie sono rese ancora più aleatorie: succede infatti che la Gran Bretagna, tradizionalmente amica dei turchi, e gli austroungarici esigono la revisione degli accordi di Santo Stefano. Da quasi un secolo la Gran Bretagna sostiene il fatiscente impero ottomano, allo scopo di conservare la via delle Indie.
La Russia è invece tradizionalmente nemica dei turchi che, a Costantinopoli e nei Balcani, opprimono molti popoli ortodossi. I turchi e gli inglesi, dunque, nel giugno 1878 firmano a Cipro un accordo segreto col quale la Gran Bretagna si impegna a vigilare – al posto dei russi – all’applicazione delle riforme per i cristiani di Turchia e nel contempo a imporre un’immediata ritirata delle truppe russe dai territori ottomani occupati, ottenendo in cambio dal sultano l’isola di Cipro.
Gli inglesi dunque impongono alla Russia un nuovo congresso, a Berlino, che limita fortemente sia le conquiste che l’influenza dell’impero degli zar negli affari ottomani: così, nel giugno-luglio 1878, il nuovo trattato di Berlino sostituisce di fatto gli accordi di Santo Stefano.
Quanto alla questione armena, anche a Berlino, a parole, la Turchia promette ancora delle riforme. Secondo il nuovo trattato, infatti, nelle province armene di Turchia (7) la Sublime Porta «si impegna a realizzare, senza ulteriori ritardi, miglioramenti e riforme» e a garantire l’incolumità della popolazione armena dai cerchessi e dai curdi; inoltre il governo ottomano garantisce la piena libertà di religione e la restituzione dei beni confiscati.
Tuttavia, l’art. 61 del trattato di Berlino relativo alla questione armena, che viene a sostituire l’art. 16 di Santo Stefano, non vincola il ritiro delle truppe russe all’attuazione delle riforme, né stabilisce per queste termini concreti; inoltre la verifica delle riforme non è più prerogativa esclusiva dei russi, ma viene posta sotto il controllo generico di tutte le potenze.
Naturalmente, gli amministratori turchi si guarderanno bene dall’applicare le riforme previste e, dopo l’avvenuto ritiro dei soldati russi, le potenze non avranno più alcuna possibilità concreta di negoziarne la realizzazione. Anzi, nel 1878 la Costituzione ottomana è sospesa dal governo. La situazione dei cristiani dell’impero ottomano peggiora ulteriormente. Gli stati occidentali reclamano diverse volte l’applicazione delle riforme, ma i turchi ignoreranno tali richieste (8).
A partire dal 1881, poi, la posizione russa riguardo alla questione armena cambia radicalmente. Infatti, dopo l’assassinio dello zar riformatore Alessandro II, il suo successore Alessandro III, condizionato dal conservatore Pobedonostsev, persegue una politica di intolleranza verso le minoranze etniche, e teme che un’autentica applicazione delle riforme in favore degli armeni nell’impero ottomano possa ispirare anche gli armeni di Russia a rivendicare dei diritti.
Inoltre, dopo la fine delle campagne turche, la corte a Pietroburgo è amareggiata e delusa: tutti i popoli ortodossi che i russi hanno liberato dal giogo ottomano e per i quali hanno ottenuto l’autonomia politica (greci, serbi, rumeni e soprattutto bulgari) in seguito, invece di gravitare nell’orbita russa, si sono mostrati diffidenti nei confronti degli zar, alleandosi piuttosto con i loro nemici, come l’Inghilterra o gli austroungarici. La corte non intende quindi ripetere lo stesso errore per gli armeni – che, per di più, la Chiesa russa vede con sospetto come eretici – con il rischio di veder sorgere alle sue frontiere un avamposto delle potenze nemiche…
Intanto anche l’atteggiamento britannico nei confronti della Turchia sta cambiando. Installati a Cipro dal 1878 e in Egitto dal 1882, gli inglesi non hanno più stretta necessità dell’alleanza coi turchi per difendere la via delle Indie. D’altra parte, un impero ottomano moribondo che rischia di cadere da un momento all’altro nelle mani dei russi costituisce per l’Inghilterra una seria minaccia.
Ecco quindi che, subito dopo il Congresso di Berlino, nel giro di pochi anni avviene un capovolgimento degli equilibri strategici internazionali: proprio mentre gli inglesi – investiti dall’accordo di Cipro della protezione dei cristiani ottomani e scioccati dalle violenze di cui sono informati – da alleati del sultano diventano suoi accusatori (9), i russi da nemici atavici dell’impero ottomano si trasformano sempre più in suoi protettori, se non altro per avversione nei confronti degli inglesi. Questo ribaltamento diplomatico è però a netto svantaggio degli armeni, per i quali il sostegno russo sarebbe molto più importante di quello inglese.
Insomma, considerate le conseguenze che ebbe, il trattato di Berlino resta nella storia della diplomazia come un capolavoro di ingenuità (10). O forse, piuttosto, come un esempio di grave incoscienza umanitaria. Infatti, non è certo arbitrario ipotizzare che, se gli inglesi non avessero imposto la revisione del Trattato di Santo Stefano, probabilmente i massacri degli anni 1894-1896 non avrebbero avuto luogo, né forse la tragedia del genocidio del 1915. Ma la questione armena, cioè la sorte di milioni di esseri umani, era purtroppo soltanto una pedina della complessa partita tra francesi, austroungarici e, soprattutto, tra inglesi e russi sullo scacchiere dell’Asia Minore…
I FERMENTI POLITICI ARMENI
Nel frattempo, le idee di democratizzazione e libertà importate dagli studenti armeni formatisi nelle Università di Mosca, Pietroburgo, Parigi, Venezia, Berlino, Lipsia, Ginevra, Zurigo, si sono ben diffuse nelle comunità armene. Parallelamente alle repressioni operate dai turchi, pian piano si organizza la resistenza armena. Nascono così, in meno di un decennio, diversi partiti politici armeni, aventi tutti per fine la difesa della causa nazionale (11).
Nel 1885 a Van sorge il partito rivoluzionario Armenakan; dopo l’emigrazione del fondatore dall’Armenia occidentale alla Francia, il partito si ricostituisce a Marsiglia e si pone l’obiettivo della liberazione dell’Armenia turca.
Nel 1887 a Ginevra un gruppo di studenti armeni costituisce il partito di ispirazione socialdemocratica Hntchak, «La campana». Il nome del partito è la traduzione del russo Kolokol, titolo del giornale di opposizione al regime zarista che il filosofo russo A. Hertzen pubblicava fin dal 1857 a Londra. I fondatori del partito armeno, infatti, hanno studiato in Russia, conoscono Plekhanov e simpatizzano per il marxismo, ma sono soprattutto influenzati dal gruppo terroristico russo Narodnaja Volja, che nel 1881 ha assassinato lo zar Alessandro II.
Nel 1890 a Tiflis è fondato il partito Dashnag, o Unione, detto anche Federazione Rivoluzionaria Armena. Il programma corrisponde a quello dei socialisti rivoluzionari. Primo obiettivo concreto del partito è di ottenere l’applicazione del Trattato di Berlino (12).
I fini ultimi di Hntchak e Dashnag sono pressoché identici (la liberazione dell’Armenia dominata dai turchi) così come uguale è l’orientamento politico. Per via di questa affinità, i due partiti, per un certo periodo, cercano di fondersi; ma gli Hntchak hanno all’inizio un orientamento più esplicitamente socialista, il che sarà causa di una frattura interna.
Nel 1898 un gruppo che ritiene che la lotta per la liberazione nazionale debba prevalere sull’ideologia socialista si riorganizza in Partito Hntchak Riformato. Questo, dopo pochi anni, si scinde in estremisti e moderati. I primi, favorevoli al terrorismo, si chiameranno Azadakan; i secondi si uniranno agli Armenakan, assumendo il nome di Ramgavar. Nel 1921 i due tronconi si riuniranno nuovamente costituendo il Partito Liberal-Democratico Armeno (ADL).
In seguito, anche i Dashnag si avvicineranno al socialismo, fino a entrare nell’Internazionale. Comunque, tutti e tre i partiti, Hntchak, Dashnag e Armenakan, non hanno, almeno da principio, un’ideologia ben definita. Essi mescolano gli ideali del socialismo tedesco e francese al populismo russo e al nazionalismo, e soprattutto spingono gli armeni all’azione immediata, all’autodifesa, alla lotta armata. Tuttavia, a motivo della prossimità ideologica dei partiti armeni a comunisti e socialisti, la causa armena sarà considerata con estrema prudenza dalle potenze occidentali; d’altra parte, il nazionalismo degli armeni li renderà sospetti agli altri membri dell’Internazionale.
LE REPRESSIONI DI FINE SECOLO
È probabilmente già prima degli anni ’90 che Abdul-Hamid II concepisce l’idea dello sterminio degli armeni. Ma nell’ultimo decennio del secolo quest’idea si concretizza in un disegno politico preciso, applicato in maniera sistematica. Grecia, Serbia e Bulgaria si erano già staccate dal suo impero.
Gli armeni suoi sudditi – la «nazione fedele» (in turco millet-i-sadyka) – erano molto numerosi, stavano diventando troppo potenti e troppo ricchi, e costituivano in assoluto un’elite intellettuale (13); erano sostenitori delle idee liberali dell’Occidente, e per questo potenziali alleati dei suoi nemici, i «Giovani Turchi». In più, per via dell’opera di sensibilizzazione che la loro diaspora faceva in tutto il mondo, avevano il compatimento e in parte il sostegno di tutto l’Occidente, che troppo spesso si mescolava negli «affari interni» della Porta; infine, i russi, che avevano sostenuto le lotte di liberazione dei vari popoli ortodossi dell’impero ottomano, potevano decidere di abbracciare anche la loro causa.
Considerati questi fatti, il programma politico che si prefigge il «sultano rosso» riguardo alla questione armena è di una semplicità sconcertante: egli decide di porre fine una volta per tutte alla questione armena, facendola finita con gli armeni stessi. Temendo la reazione di Inghilterra, Francia e Russia, Abdul-Hamid si copre utilizzando l’alleanza con la Germania.
D’altra parte, per l’esecuzione materiale del suo piano, sfrutta anche le varie tribù curde, che da lungo tempo riscuotevano impunemente tributi dagli armeni dell’impero e compivano razzie a loro danno. Durante tutto il suo regno, un gran numero di curdi nomadi si erano stabiliti in mezzo agli armeni, nelle regioni di Mush, Van e Erzurum (14). Così, nel 1890 lo stesso sultano fa armare i curdi, arruolandoli in massa nella «cavalleria hamidiana».
Questi, da principio, torturano molti armeni per obbligarli a firmare documenti in cui si riconoscono rivoluzionari e membri di organizzazioni terroristiche, e denunce contro altri armeni. Con questi documenti, il sultano potrà facilmente giustificare la carneficina che sta preparando come una questione interna, un’azione volta a difendere la sicurezza dello Stato.
Una testimonianza lucida e precisa di questi avvenimenti ci è stata lasciata da Johannes Lepsius, un pastore tedesco, in quegli anni missionario nell’impero ottomano. La Chiesa armena cerca di difendere il popolo: il 2 febbraio 1890 il patriarca armeno di Costantinopoli denuncia alle autorità della Porta le vessazioni dei curdi nei confronti della popolazione armena e la passività dei funzionari turchi. Ma il governo resta sordo a ogni richiamo alla legalità da parte degli ecclesiastici. Anzi, decide di provocare la Chiesa.
Nel giugno 1890, sulla base di una falsa denuncia, la polizia turca decide di compiere una perquisizione nella cattedrale armena di Erzurum, alla ricerca di armi e munizioni. La popolazione armena si oppone, e le truppe intervengono con brutalità: 20 armeni sono uccisi e 300 feriti. Nei mesi seguenti, la polizia compie arresti di massa al fine di eliminare il partito Hntchak.
Gli ultimi anni sono particolarmente grigi per gli armeni di Turchia (15). Varie manifestazioni e tentativi di rivolta sono soffocati nel sangue. I curdi si costituiscono in autentici reggimenti che compiono incursioni nei villaggi armeni, uccidendo, saccheggiando e incendiando. Nel 1893 gli armeni della regione montuosa di Sassun (a ovest del lago di Van), da anni obbligati illegalmente a pagare tributi alle orde curde — oltre alle ingenti tasse ufficiali da versare al governo turco -, si ribellano e rifiutano di subire altre estorsioni.
Respinti con la forza dagli abitanti del Sassun, i curdi si rivolgono alle autorità turche e nell’agosto 1894 il governo ottomano reagisce con sanguinose repressioni: le truppe regolari turche si uniscono ai predoni curdi e per tre settimane massacrano la popolazione armena. 3.500 dei 12.000 abitanti del Sassun sono sterminati.
I fatti del Sassun e le altre violenze degli ultimi anni del secolo contro gli armeni scuotono l’opinione pubblica internazionale. In vari Paesi occidentali cominciano manifestazioni pubbliche di condanna delle violenze turche o in sostegno agli armeni; cittadini di vari Stati chiedono ai loro governi di intervenire, sono pubblicati articoli, studi e libri dedicati alla causa armena (16). II catholicos di tutti gli armeni Mkrtic I si reca personalmente a Pietroburgo e presenta all’imperatore Nicola II una supplica in cui chiede l’intervento della Russia presso il governo ottomano in favore della realizzazione delle riforme in Armenia occidentale.
In seguito a questi avvenimenti, nel marzo-aprile 1895 Gran Bretagna, Francia e Russia, in un Memorandum, ingiungono perentoriamente alla Sublime Porta il rispetto della legalità e l’applicazione dell’alt. 61 del trattato di Berlino; sulla base di tale Memorandum, un Progetto di riforme meno categorico per le province armene è presentato nel maggio successivo al sultano.
Ma il sultano non si affretta e ancora per qualche mese rifiuta di ratificare il Progetto. Il partito Hntchak, allora, organizza a Costantinopoli una grande dimostrazione politica in sostegno al progetto di riforme di maggio: il 18 settembre 4.000 armeni riempiono le strade del quartiere Bah Ali, la residenza del sultano, e si dirigono verso la Porta, per presentare al governo una petizione in cui chiedono con risolutezza che si dia corso alle riforme.
È la prima volta nella storia ottomana che una minoranza etnica osa opporsi apertamente alle autorità in pieno centro della capitale. Nonostante la manifestazione abbia, nelle intenzioni degli armeni, un carattere assolutamente pacifico, essa è spenta in un bagno di sangue dalle autorità, che disperdono con la forza i partecipanti e decidono di punire la riottosa comunità in maniera esemplare: per tutta la città vengono massacrati circa 2.000 armeni.
Anche questa volta l’opinione pubblica mondiale resta scioccata davanti all’ennesimo crimine di Abdul-Hamid; le potenze europee sollevano ancora la voce e infine il sultano nell’ottobre 1895 pubblica un decreto di riforme (ancora più limitate che nel Progetto di maggio) per le province armene. Ma proprio nel momento in cui promette alle potenze straniere di applicare le tanto attese riforme, il sultano sanguinario da contemporaneamente un ordine interno esplicito di annientamento degli armeni.
Così lo sterminio del popolo armeno, già da tempo iniziato, diventa ancora più sistematico. Dall’ottobre 1895 al gennaio 1896 un nuovo massacro tocca tutte le comunità armene del Paese: Sassun, Zeytun, Erzurum, Costantinopoli, Trebisonda, Sebaste, Van e molti altri luoghi. Emissari del governo, nelle province con forte presenza armena, aizzano la popolazione musulmana nelle moschee, dichiarando che il sultano ha le prove di un complotto ordito dagli armeni ai danni dello Stato. A queste istigazioni fanno seguito le distribuzioni di armi. In diversi posti, gli armeni oppongono un’eroica ma vana resistenza; alle varie rivolte, oltre alle nuove repressioni turche, fanno seguito le epidemie.
Insomma, in tutto l’impero ottomano, negli anni 1894-1896, non meno di 300.000 armeni (secondo alcune fonti, fino a 400.000) sono massacrati sia dalle truppe regolari di Abdul-Hamid II, che da reggimenti curdi o da bande di delinquenti. 100.000 sono costretti ad abbracciare l’islam, 100.000 donne e ragazze sono messe negli harem, 2.500 villaggi sono devastati. I sopravvissuti sono spogliati dei loro beni dai predoni curdi e dalle stesse autorità turche.
In questi stessi anni, circa 100.000 armeni di Turchia si rifugiano nell’Armenia Orientale. Gli armeni della diaspora, naturalmente, fanno sentire la propria protesta in Europa e in tutto il mondo. Cominciano anche le azioni di forza e gli attentati terroristici dei partiti armeni per esigere (purtroppo invano) l’applicazione delle norme del Trattato di Berlino. L’azione più famosa è l’occupazione della Banca Ottomana a Istanbul da parte di un gruppo di giovani dashnag il 26 agosto 1896.
Occupando il più importante centro della finanza internazionale in Oriente, i terroristi volevano ricordare alle grandi potenze il loro dovere di far applicare le norme del Trattato di Berlino, come affermavano in una nota distribuita lo stesso giorno alle ambasciate a Istanbul.
Per 14 ore i rivoltosi armeni resistono agli assalti della polizia turca. Infine il direttore della banca, sir Edgar Vincent, e il rappresentante dell’ambasciata di Russia, Maksimov, promettono l’interessamento dei Paesi europei alla questione armena ed ottengono dalle autorità turche il diritto per i rivoltosi di potersi rifugiare incolumi in Francia. In risposta a quest’episodio, i funzionari del sultano incitano la popolazione turca della capitale alla vendetta, distribuendo bastoni e mazze di ferro: in tre giorni, sotto gli occhi degli ambasciatori di tutti i Paesi, sono massacrati più di 7.000 armeni. Tale sarà, almeno nell’immediato, la sola conseguenza concreta della presa della Banca Ottomana.
L’OPPOSIZIONE AL SULTANO ALL’ALBA DEL XX SECOLO
Con l’inizio del nuovo secolo la situazione dei sudditi armeni dell’impero ottomano peggiora ulteriormente.
La resistenza alle brutalità di turchi e curdi prende forma in un autentico movimento rivoluzionario, che sceglie come motto «Libertà o morte». Già nel 1897 il partito Dashnag aveva organizzato una spedizione punitiva di armeni della Persia in Turchia contro una tribù curda che l’anno prima aveva sterminato molti armeni del luogo.
Nuove rivolte si moltiplicano in varie città della Turchia. Nel 1901 un gruppo di partigiani armeni, comandati dal condottiero Andranik Ozanian (che in seguito diventerà un eroe popolare), per 19 giorni resistono all’assedio delle truppe turche nel monastero di Arakelotz, poi riescono ad attraversare le linee nemiche e a scappare verso i monti. Nel 1904 gli armeni del Sassun insorgono nuovamente.
Sempre sotto il comando di Andranik – vero Garibaldi armeno —, formati due fronti, sulle loro montagne resistono all’esercito ottomano e alle truppe curde per due interi mesi. L’insurrezione però termina in un bagno di sangue: le truppe turche uccidono 7.000 armeni; nel paesino di Talvorik in una sola giornata (4 maggio 1904) sono straziate 3.000 persone. Dal marzo al maggio 1904 nella pianura di Mush sono uccisi altri 6.000 armeni.
Il 21 luglio 1905 una giovane armena del partito Dashnag, Rubina, compie un attentato contro Abdul-Hamid; l’attentato fallisce, e decine di armeni sono soppressi. Il «sultano sanguinario», però, è destinato a cadere solo tre anni più tardi. L’opposizione al regime dispotico di Abdul-Hamid, anche da parte di intellettuali turchi, si va facendo sempre più forte. Già da tempo molti oppositori hanno scelto la via dell’esilio. Tra gli altri, anche i «Giovani Turchi», che hanno filiali attive tra gli emigrati ottomani, a Parigi, Ginevra e al Cairo.
I «Giovani Turchi» nel 1895 costituiscono il partito nazionalistico «Unione e Progresso» (in turco, Ittìhad ve Terakki), avente per programma il rinnovamento dell’impero ottomano. Esso raccoglie sempre più consensi in Turchia – dove stabilisce il suo centro a Salonicco – non solo tra gli intellettuali, ma anche tra gli stessi funzionari e militari dell’impero. Nella loro opposizione al sultano sanguinario, i «Giovani Turchi» hanno il sostegno dei partiti armeni.
Nel luglio 1908 i «Giovani Turchi», con l’appoggio dell’esercito turco di Macedonia, compiono un colpo di Stato. Abdul-Hamid è imprigionato a Salonicco e costretto a ripristinare la costituzione liberale del 1876 che aveva abrogato già nel 1878. L’impero ottomano diventa una monarchia costituzionale, la legge riconosce e garantisce la libertà individuale e la perfetta uguaglianza di tutti i sudditi.
La fine del regime dispotico è salutata inizialmente con entusiasmo da tutta l’Europa e, naturalmente, dagli armeni di Turchia, di Russia e della diaspora. Essi infatti hanno appoggiato il partito dell’Ittihad che si è sempre presentato come liberale. Della prima camera del parlamento dei «Giovani Turchi» fanno parte anche 10 rappresentanti della comunità armena.
I massimi dirigenti del partito, Enver e Talaat, visitano scuole e chiese armene e dappertutto sono accolti fraternamente; preti armeni rendono visita alle moschee. Per la prima volta, agli armeni è concesso di portare le armi e servire nell’esercito, anzi il governo li incoraggia ad arruolarsi. Insomma, per il popolo dell’Ararat sembra rinascere la speranza.
Ma il nazionalismo estremo dei «Giovani Turchi» porterà a conseguenze ancora peggiori del regime oscurantista di Abdul-Hamid.
IL PANTURANISMO DEI «GIOVANI TURCHI»
L’impero ottomano, nei suoi tempi di più grande splendore, doveva la sua prosperità al rapporto proporzionale da tempo stabilitesi tra la popolazione turca e le minoranze cristiane (17). Le comunità cristiane, più ricche e più istruite dei turchi, erano utili all’impero sia nell’amministrazione statale che come risorsa per l’erario, dato che da esse lo Stato riscuoteva la maggioranza delle tasse. Ma i sultani, prendendo in tenera età i maschi cristiani per i giannizzeri e le femmine per gli harem, si erano curati di limitarne la crescita demografica, mentre l’aumento della popolazione turca era costante.
Vittime, quindi, di continue discriminazioni, le minoranze cristiane avevano però diritto di esistenza e di salvaguardia della propria identità etnica e religiosa, se non altro perché ciò era negli interessi stessi dell’impero. Ora, l’avvento dei «Giovani Turchi» cambia totalmente la situazione. Appena preso il potere, già nel luglio 1908, Enver aveva dichiarato: «Oggi il governo dell’arbitrio è scomparso.
Noi siamo tutti fratelli. Non vi saranno più in Turchia bulgari, greci, serbi, rumeni, musulmani e giudei. Sotto lo stesso ciclo noi tutti siamo orgogliosi di essere ottomani» (18). Così l’ottomanismo laico dei «Giovani Turchi» veniva opposto al “vecchio” dispotismo teocratico del sultano. Tuttavia questo sogno originario di uno Stato ottomano moderno e aperto all’Europa scade presto nella gretta idea di una Turchia in mano ai soli turchi. In realtà questa degenerazione era logica: affermare che in Turchia non vi sarebbero più state differenze tra le varie comunità significava innanzitutto negare ogni possibilità di autonomia per queste, e in definitiva negare le comunità stesse in quanto tali.
L’identità ottomana propugnata dai nuovi dirigenti verrà a coincidere sempre più con quella turca. Ma c’è di più: i «Giovani Turchi» non vogliono soltanto assimilare o sterminare tutte le minoranze non turche dell’impero ottomano; essi si abbandonano a un nuovo delirio di grandezza e sognano di riunire in una grande Turchia – che vada dal Bosforo all’Asia Centrale – tutti i popoli cosiddetti turanici, cioè di antiche origini turco-tartare: azeri, turcomanni, uzbeki, kirghizi, kazaki, tatari.
Si passa così dall’islamismo fondamentalista di Abdul-Hamid e dall’ottomanismo dei «Giovani Turchi» dei primissimi tempi, a quello che è stato definito come panturanismo del governo dell’Ittihad (19). Tale grandioso piano espansionistico, naturalmente, non è realizzabile se non provocando lo smembramento dello Stato russo, sotto il cui potere si trovano vari popoli turanici, per la qual cosa la Turchia si trova un potente e interessatissimo alleato, la Germania.
Secondo ostacolo alla realizzazione di uno Stato panturanista è l’esistenza stessa della nazione armena, che da sempre abita un territorio posto proprio tra i turchi e i loro fratelli d’Oriente, territorio che all’inizio del secolo scorso si trova diviso tra i due grandi imperi, ottomano e russo.
Questa nuova forma di nazionalismo è, al solito, molto comoda per i governanti che possono agevolmente scaricare le responsabilità di ogni insuccesso sul «nemico interno» e tenere così nella povertà e nell’ignoranza il proprio popolo. A questo viene i somministrato l’anestetico di un ideale grande e lontano (la costruzione del Grande Turan), in nome del quale alienare ogni insoddisfazione, e viene inculcata una chiave di interpretazione degli avvenimenti semplice e sicura che non conosce esitazioni, basata sulla chiara identificazione: amico/nemico, musulmano/cristiano, turco/armeno.
Il nuovo sogno fa subito presa sulla popolazione turca: nascono associazioni panturaniste, si organizzano viaggi, si stabiliscono contatti coi «fratelli turanici», bardi e poeti cantano il nuovo ideale… Nella scelta ideologica del panturanismo l’Ittihad dimostra una grande capacità strategica. Infatti, solo un’ideologia semplice e banale come il nazionalismo fanatico, unita a un grande sogno utopico, poteva essere compresa e accettata da un popolo ridotto alla fame e immerso nell’ignoranza. I «Giovani Turchi», dunque, sia per convinzione fanatica che per semplice calcolo, proseguiranno il triste operato di Abdul-Hamid II. Ma con un rigore e un accanimento ancora maggiori (20).
Il 31 marzo 1909 Abdul-Hamid con un colpo di Stato si rimpossessa del potere a Istanbul; il resto del paese, però, resta sotto il controllo dei «Giovani Turchi» che il 27 aprile, sempre grazie all’appoggio dei reparti dell’esercito di Macedonia, rioccupano la capitale. Nei giorni critici in cui il sultano sembra avere la meglio, gli armeni di Istanbul aiutano i «Giovani Turchi», nascondendoli e sostenendoli. Intanto però una nuova tragedia si sta consumando in Cilicia: in mezzo al caos del colpo di Stato e della successiva reazione dei «Giovani Turchi», nella città di Adana e poi nel resto della provincia si perpetrano nuovi massacri di armeni.
In questi massacri alcuni hanno visto gli ultimi colpi di coda del mostro agonizzante che era stato il regime di Abdul-Hamid; altri ritengono invece che si sia trattato del primo eccidio organizzato dal nuovo potere. È molto probabile che entrambe le versioni siano vere, che cioè gli agenti del sultano abbiano cominciato una strage, portata poi a compimento con piacere dai «Giovani Turchi».
In effetti, non appena Abdul-Hamid riprese il potere a Istanbul, a Adana si sparse la voce che il sultano invitava tutti a punire gli infedeli. Nei giorni seguenti cominciò la strage della popolazione armena. Ma gli eccidi si intensificarono dopo il 14 aprile, data in cui il governo dei «Giovani Turchi» fece arrivare in città le truppe dell’esercito col pretesto di riportare l’ordine.
Furono quindi proprio i soldati dei «Giovani Turchi» a compiere la maggior parte degli abusi che poi attribuirono al sanguinario sultano. Gli armeni, dal canto loro, preferirono sforzarsi di credere, più col desiderio che con la ragione, che responsabile fosse il regime uscente. Comunque siano andate le cose, in meno di un anno in Cilicia furono massacrati circa 30.000 armeni.
SPERANZE E FERMENTI DELL’ANTEGUERRA
Nel 1912 l’impero ottomano perde la Macedonia e quasi tutta la Tracia. Per timore di vedere smembrarsi ulteriormente il loro debole Stato, i «Giovani Turchi» intensificano la lotta contro le minoranze più attive e per loro più temibili: primi tra tutti, gli armeni. Inoltre, in seguito alle due guerre balcaniche (1912-1913) centinaia di migliaia di rifugiati musulmani abbandonano i territori persi della parte europea dell’impero ottomano.
Per risolvere due problemi in un sol colpo il governo fa stabilire queste folle di sudditi, che hanno perso tutto e sono esasperati contro i cristiani, proprio nelle regioni dell’Asia Minore, popolate prevalentemente dagli armeni.
Nel gennaio 1913, approfittando dello scontento dovuto alle sconfitte nei Balcani, il comitato centrale del partito Ittihad, fautore di una politica più dura nei confronti delle minoranze, si impossessa del potere politico con un nuovo colpo di Stato. Da questo momento i veri capi della Turchia sono Talaat e Enver, personaggi di oscure origini. Mehmed Talaat era un impiegato della posta di Costantinopoli, mentre Ismail Enver, benché molto giovane, aveva già vissuto in Germania ed era militare a Salonicco. Ad essi si aggiunge un altro militare, Ahmed Djemal, e poco più tardi questi tre «uomini forti» stabiliranno una dittatura costituendo una sorta di triumvirato militare: Talaat sarà ministro dell’Interno, Enver della Guerra, e Djemal della Marina (21).
La dittatura si irrigidisce ancor più dopo che nel giugno il Gran Visir ittihadista Mahmud Shevket è assassinato a opera del maggior partito dell’opposizione. A tutti i posti di responsabilità del governo centrale e delle regioni sono nominati uomini di fiducia del triumvirato, provenienti dalla leadership dell’Ittihad.
Molti appartenenti ai partiti dell’opposizione in tutto il Paese sono processati da tribunali militari e condannati all’impiccagione. Il nuovo potere turco si orienta sempre più decisamente verso la Germania, mentre all’interno del Paese cerca di indebolire i gruppi etnici non-turchi (greci, arabi, macedoni, ecc). Come già Abdul-Hamid, anche i «Giovani Turchi», nonostante il sostegno precedentemente avuto dai partiti armeni, in primo luogo combattono gli armeni. A questo scopo anche loro si serviranno soprattutto dei nomadi curdi.
Intanto, all’inizio del 1912 il neoeletto catholicos Gevorg V chiede al diplomatico armeno egiziano Boghos Nubar (22) di sollecitare le potenze a esigere dalla Porta la fine degli abusi contro gli armeni dell’impero. Per due anni la Russia e in parte la Francia e l’Inghilterra, esercitano forti pressioni diplomatiche per ottenere dal governo ottomano riforme a vantaggio degli armeni (23).
Tuttavia, i continui disaccordi tra i tre Paesi, che perseguono interessi diversi, permettono ai funzionari turchi di temporeggiare. Contraria a queste riforme rimane la Germania, che sostiene sempre più l’impero ottomano e vuole mantenerlo in vita tale e quale, allo scopo di farne una sua colonia. Quando l’arrivo della missione militare tedesca a Costantinopoli suscita l’indignazione dei Paesi della Triplice Intesa (cioè di Inghilterra, Francia e Russia), i tedeschi diplomaticamente cedono e accettano di non impedire l’applicazione delle riforme in favore degli armeni.
Così l’8 febbraio 1914 un progetto di riforme è accettato. Esse prevedono la nomina di due ispettori generali stranieri, rappresentanti di Paesi neutrali (all’inizio si pensa ai Paesi scandinavi) che devono vigilare all’applicazione delle norme del Trattato di Berlino nelle due nuove province di Van e Erzurum, nelle quali sono ora raggruppati tutti i vilayet armeni di Turchia. Nell’aprile 1914 i due ispettori sono nominati: si tratta dell’olandese Westenenk e del norvegese Hoff. Un’epoca nuova sembra iniziare per gli armeni di Turchia.
Ma non appena Hoff arriva alla sua destinazione di Van, nel luglio 1914, sta per scoppiare la Prima Guerra mondiale. Il primo agosto 1914 la Germania dichiara guerra alla Russia. L’indomani il governo dell’impero ottomano conclude un accordo segreto con la Germania che fa prevedere chiaramente l’intervento in guerra; viene infatti annunciata la mobilitazione.
Quello stesso giorno i «Giovani Turchi» riorganizzano un corpo speciale di polizia politica chiamato Organizzazione Speciale (Teshkilat-i-Mah-susa) e sottomesso al ministero della Guerra. Il fine di quest’organizzazione è di porre le basi concrete per la realizzazione del progetto panturanistico: una Turchia monoetnica, islamica, abitata da soli turchi e che allarga le sue frontiere a tutti i territori in cui vivono altri popoli turanici.
Poco prima, a cavallo tra luglio e agosto, i dirigenti dell’Itti-had si erano incontrati con rappresentanti del partito Dashnag, riunito in congresso a Erzurum. Il governo proponeva all’organizzazione armena, nel caso della probabile guerra tra Russia e Turchia, di fomentare la ribellione degli armeni di Russia per facilitare la penetrazione delle truppe turche nell’impero degli zar. In cambio, prometteva la formazione di un’Armenia indipendente.
A questa proposta i leader Dashnag avevano risposto che, in caso di guerra tra i due imperi, gli armeni di una parte e dell’altra sarebbero rimasti fedeli ai Paesi di cui erano cittadini e avrebbero combattuto nei rispettivi eserciti. L’Ittihad, naturalmente, aveva visto in questo rifiuto una scelta degli armeni di sostenere la Russia.
Pochi giorni dopo la dichiarazione di guerra della Germania, il catholicos armeno da Etchmjadzin scrive al rappresentante dello zar in Caucaso e poi allo stesso zar a Pietroburgo per ricordare la causa armena ed esortare la Russia ad attaccare la Turchia (24). Nicola II risponde a Gevorg V, lasciandogli capire di essere ben disposto nei confronti del suo gregge. L’iniziativa del catholicos però in seguito si ritorcerà contro gli armeni che anche sulla base di questa corrispondenza saranno accusati dai turchi di tramare con i russi contro di loro.
Appena conclusa l’alleanza con la Germania, i «Giovani Turchi» si affrettano a sbarazzarsi di ogni controllo straniero. Già nel mese di agosto il governo espelle l’appena arrivato ispettore norvegese Hoff; ai primi di settembre notifica alle potenze occidentali che le «capitolazioni» sono abrogate a partire dal 1 ottobre successivo (25).
All’inizio di novembre la Turchia entra in guerra accanto alla Germania. Immediatamente gli ambasciatori delle potenze nemiche (Francia, Gran Bretagna e Russia) devono precipitosamente lasciare il Paese. Italia e Stati Uniti entreranno in guerra più tardi (26) e le loro rappresentanze diplomatiche svolgeranno un ruolo importante nella denuncia delle stragi di questi anni al mondo.
Dal momento dell’entrata in guerra i «Giovani Turchi» approfittano della confusione e della quasi totale assenza di scomodi osservatori stranieri per “risolvere” una volta per tutte la questione armena, e poi per liberarsi anche del problema delle altre minoranze. A questo punto, infatti, all’Organizzazione Speciale, diretta dai due medici Mehmed Nazim e Behaeddin Chakir, è affidato il compito di liberare l’Anatolia dalle comunità etniche non turche.
Essa dispone di pieni poteri, utilizza la polizia e l’esercito, ha legami col ministero degli Interni ed è comandata direttamente dai gerarchi del partito. Per la “liberazione” dell’Anatolia, l’Organizzazione costituisce dei «corpi di milizia islamica» composti da ceté, in sostanza bande di predoni, reclutati soprattutto tra i curdi o tra criminali comuni, cui viene concessa l’amnistia e la liberazione dal carcere in cambio di questo “servizio” allo Stato.
Ha così inizio la fase centrale, senza dubbio la più terribile, del primo grande genocidio del XX secolo.
GLI ARMENI ALL’INIZIO DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE
A partire dall’inizio della Prima Guerra mondiale il ritmo della storia armena sembra subire improvvisamente una straordinaria accelerazione. Gli avvenimenti che vanno dalla fine del 1914 alla fine del 1920 – la guerra mondiale, le deportazioni del genocidio, la rivoluzione bolscevica, la separazione dei Paesi caucasici dalla Russia, la guerra con la Turchia, la nascita e il tramonto della Repubblica indipendente armena, la nuova invasione turca, l’annessione alla Russia Sovietica —, questi avvenimenti, non soltanto per la loro tragicità, ma anche per la rapidità con cui si susseguono e si accavallano, sconvolgono la storia del plurimillenario popolo dell’Ararat, ne cambiano la consistenza numerica e la distribuzione e ne determinano per lungo tempo il destino.
È stato calcolato che nel 1914, prima della guerra e del genocidio, gli armeni in tutto il mondo erano circa 4.100.000 (27). Di essi, 2.100.000 vivevano nel territorio dell’impero ottomano, 1.700.000 in quello dell’impero russo, 100.000 in Persia e 200.000 nel resto del mondo. Nel territorio dell’Armenia storica facente parte dell’impero russo ne abitavano 1.300.000, in quello invece dell’Armenia storica e della Cilicia sottomessi ai turchi ne vivevano 1.400.000. Sia l’Armenia russa che quella turca erano abitate anche da molti non armeni. Le due città col maggior numero di armeni erano Costantinopoli e Tiflis; importanti dal punto di vista numerico, economico e culturale, anche le comunità armene di Baku e Smirne.
La Turchia entra in guerra a fianco della Germania il 2 novembre 1914. Nello stesso novembre, dopo che la Turchia aveva attaccato la Russia senza alcuna dichiarazione di guerra, i russi penetrano nell’Armenia turca. I sudditi armeni dell’impero ottomano e di quello russo prestano effettivamente servizio nei rispettivi eserciti. 60.000 armeni dell’impero ottomano sono incorporati nell’esercito turco.
Gli armeni mobilitati nell’esercito russo sono molto più numerosi, probabilmente circa 200.000 (28). Tale sproporzione è dovuta al fatto che, come abbiamo visto, nell’impero ottomano essi avevano appena ottenuto il diritto di far parte dell’esercito, mentre gli armeni di Russia erano sottoposti al servizio militare da quasi trent’anni. Comunque, solo un terzo degli armeni russi combatterà nel Caucaso, mentre gli altri saranno inviati al fronte austroungarico.
Oltre a quelli mobilitati dalle autorità zariste, almeno altri 5.000 volontari dell’Armenia russa si arruolano per liberare il Paese dai turchi. Inoltre diversi armeni della diaspora si arruolano volontariamente tra le file dell’Intesa (29).
I primi risultati della guerra sono catastrofici per le truppe ottomane. A capo di una numerosa armata, Enver non ha però fatto i conti col rigore dell’inverno dell’altopiano armeno. Già indeboliti dal freddò intenso e dalle malattie che cominciano a diffondersi, tra il dicembre 1914 e il gennaio 1915 i suoi soldati subiscono una clamorosa sconfitta: 70.000 di essi perdono la vita in battaglia (secondo altre fonti 90.000), 12.000 sono fatti prigionieri; le perdite russe ammontano invece a 20.000.
Subito il governo turco trova una giustificazione e un capro espiatorio per questa clamorosa disfatta: dichiara che gli armeni di Turchia stanno complottando contro lo Stato e sono pronti ad unirsi ai russi. In tal modo, incapace di vincere il nemico esterno, la Turchia si fabbrica un “nemico interno” sul quale riversare lo scontento della popolazione, secondo il più banale e, purtroppo, il più ricorrente stratagemma delle dittature in crisi.
Sugli armeni si abbatte così l’odio della popolazione musulmana delusa ed esasperata. Oltre ai sentimenti nazionalistici, il governo utilizza la religione. Alla fine di novembre è decretata la Jihad, la guerra santa. Vari abusi nei confronti degli armeni hanno luogo in tutta la Turchia. Ma oltre alla violenza anarchica della folla, gli armeni sono oggetto di un piano di annientamento prestabilito dal governo ed eseguito minuziosamente. È infatti già in questi primi mesi dell’anno che comincia lo sterminio sistematico concepito da Talaat, Enver e Djemal.
Nel gennaio 1915 lo Stato ottomano disarma e fucila un gran numero di armeni, ufficiali e soldati, arruolati nel proprio esercito. Il 25 febbraio il ministro Enver decreta il disarmo di tutti i soldati di nazionalità armena, che vengono ufficialmente destinati a squadre di lavoro. In queste squadre, i «soldati lavoratori» (amelè taburì) armeni vengono utilizzati come spaccapietre e bestie da soma per aprire le strade all’esercito e trasportare a spalle i pezzi di artiglieria attraverso le irte montagne del Caucaso. Moltissimi di questi soldati retrocessi armeni muoiono di stenti, freddo e fatica nei primissimi mesi dell’anno. Verso l’estate, poi, cominceranno le loro fucilazioni di massa.