dal sito marco.respinti.org
Si è spento a Latina il medico bulgaro che denunciò l’evoluzionismo Nato a Sofia, figlio di madre ebrea, protestante, si era trasferito giovane in Italia: si appasionò allo studio delle origini
di Marco Respinti
Nella notte tra il 6 e il 7 giugno è scomparso Mihael Georgiev, vinto da un cancro sopportato e tentativamente debellata sino all’ultimo con serenità. Medico chirurgo, flebologo, Georgiev ha dedicato la vita alla scienza e alla ricerca della verità.
Nato nel 1949 a Sofia, in Bulgaria, figlio di madre ebrea, cristiano protestante, si era trasferito da giovane in Italia: gli amici più intimi, come l’epistemologo Stefano Serafini, del gruppo d’intellettuali e artisti che fa riferimento al matematico e urbanista statunitense di origine greca Nikos A. Salingaros, lo ricordano dire sempre «“il nostro Paese”, pur mandandomi ogni tanto canzoni bulgare».
In Penisola Georgiev ha conseguito la laurea in Medicina e Chirurgia, a Roma, nel 1974, e quindi la specializzazione in Angiologia, a Catania, nel 1989. Praticava come libero professionista a Latina. Diversi sono stati i suoi studi nel campo della flebologia, pubblicati su periodici specializzati, oltre al volume, scritto con Stefano Ricci, gli esperti dicono importantissimo, Ambulatory Phlebectomy: A Practical Guide For Treating Varicose Veins ( Mosby, Filadelfia 1995), poi tradotto in portoghese e in italiano.
Ma l’altra sua grande passione, praticata costantemente a norma di metodo scientifico come purtroppo dall’altra parte della barricata (ché a questo si è giunti, non più scienza sperimentale ma fede cieca) pochi fanno, era la colossale questione dello sviluppo della vita sulla Terra, quella che rimanda automaticamente al problema dei problemi, insoluto, e volentieri bypassato dagli evoluzionisti giacché piuttosto imbarazzante: la sua origine.
Sì, perché, a seguire il filo dell’evoluzionismo fideistico, si giunge, la logica è ferrea, a inferire che dalla materia inorganica la vita spunti automaticamente come per magia, nonostante una lunga tradizione scientifica legata ai bei nomi di Francesco Redi (1626-1697), Lazzaro Spallanzani (1729-1799) e Louis Pasteur (1822-1895) abbia sperimentalmente, cioè incontrovertibilmente, mostrato la falsità della cosiddetta “generazione spontanea” dell’animato dall’inanimato, altrimenti detta (solo con linguaggio di un poco più paludato) abiogenesi.
Da questo punto di vista, Goergiev non aveva certezze, almeno non di quelle preconfezionate e sfoderate a orologeria da certi “scienziati” odierni avvezzi ai rotocalchi e alla tivù. Georgiev, assieme a tutta la scienza autentica, non sapeva affatto come, sul piano naturale osservabile sperimentalmente, la vita sulla Terra sia sorta e poi si sia sviluppata. In questo lo confortava, su altro piano, la fede cristiana che nutriva, ma, appunto, era altra cosa.
Non che Georgiev ipotizzasse, come sempre evita di fare lo scienziato vero, l’esistenza di due verità parallele; come la scienza seria, Georgiev constatava invece dei limiti intrinseci dentro il concetto stesso di scienza, limiti che della scienza costituiscono il bello e il vero. Il saper condurre, cioè, l’osservatore umano sulla soglia del mistero più grande per poi allargare le braccia, come di fronte a un tramonto commovente e splendido, flirtando con qualcosa d’altro, di maggiore, di sovrastante, di esistente nonostante quelle nostre piccole idee, che la ragione non riesce a imbrigliare.
Per una vita intera, sin troppo breve, Georgiev ha combattuto questa buona battaglia di ragione e di esperienza. Da scienziato, da medico, conosceva bene le verità dell’osservazione scientifica, le sue falsificazioni e persino la malafede di certuni che vorrebbero far dire a essa che invece essa non dice né può dire.
Georgiev fu tra i creatori e poi tra i più assidui alimentatori dell’AISO, l’Associazione Italiana Studi sulle Origini (www.origini.info), e ha compendiato i propri studi di una esistenza intera nel bel libro, uscito alla fine dell’anno scorso, Charles Darwin. Oltre le colonne d’Ercole (Gribaudi, Milano, 2009), una vera e propria e sontuosa somma di osservazioni, esperimenti, constatazioni scientifiche, che andrebbe studiata da ogni buon professore di scuola per poi esser riversata con grazia e onestà sugli studenti.
Ma il mondo in cui viviamo è un altro, e così uno scienziato scrupoloso come il compianto Georgiev ha dovuto lavorare parallelamente. Viviamo infatti in uno mondo strano dove le fedi sono viste solo come superstizioni, epperò l’antiscientificità più ripugnante alla ragione è difesa con zelo dogmatico. Resta infatti, come sapeva Georgiev, tutto da dimostrare che l’evoluzionismo esista (la speciazione, ossia la comparsa di nuovi gruppi di viventi attraverso mutazioni genetiche) e che esso si muova (come oramai pure alcuni famosi evoluzionisti dicono apertamente) per effetto di caso, selezione naturale e tempi enormi.
Tre postulati, questi, imprescindibili dell’evoluzionismo ma tra loro contraddittori, oltre che per definizione non sperimentalmente osservabili e riproducibili a norma di metodo scientifico. Chi è in grado, infatti, di vedere e di misurare il caso, la volontà di scelta criteriale sottratta a Dio e consegnata a una non meno qualificata “natura” e quelle ere geologiche lunghe centinaia di milioni di anni? E come postulare, poi, il tutto in virtù solo di quelle mutazioni genetiche che la scienza – la scienza praticata bene da Georgiev – e la vita – la vita inclemente con Georgiev – sanno e dimostrano e insegnano esser tutte sempre degenerative, cioè patologiche, quindi distruttive, o al massimo sterili?
Qualcheduno privo di pietà e senso del ridicolo taccerebbe forse Georgiev di “creazionismo”, ma lui era ben altro. Era uno di quei tali che, scienziati, in Dio credeva, come vi credevano Luigi Galvani (1737-1798) e Alessandro Volta (1745-1827), per esempio, o i citati Redi, Spallanzani e Pasteur, o l’abate Gregor Mendel (1822-1884) oppure il vivente Antonino Zichichi.
Un uomo, insomma, che studia senza derogare mai ai dettami certi della propria disciplina e che poi conosce, in altra sede, il Credo: quello del «Dio padre onnipotente, creatore del cielo e della Terra». Quel Credo a cui debbono rispondere non certo gli atei, ma sicuramente i concordisti, per i quali Maria Vergine e Immacolata verrebbe allora da una scimmia.
Georgiev, protestante serio, lottava, come Giacobbe, con l’angelo del suo Dio. Ma nutriva un rispetto per la vera teologia e il vero Magistero cattolici che a molti cattolici difettano; e, con lo studiò, imparò che da quelle parti l’evoluzionismo, per squisite ed uniche motivazioni razionali e sperimentali, non abita. Georgiev mancherà alla scienza e ai suoi amici. Dell’uno e dell’altra.
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La fede è un’esperienza comunitaria e non solo personale. Nella presente testimonianza è invece presentata come se fosse personale
di Mihael Georgiev
Per me la fede ha due aspetti. Intellettuale e di vita da vivere, cioè in cosa crediamo e come viviamo. Per quanto riguarda in cosa crediamo, la scelta è ampia: tanti dèi quanti filosofi, poi quello Rivelato che sarebbe Uno (o Trino), ma che è compreso in modo diverso sai diversi credenti. Non intendo discutere gli aspetti comunitari della fede, perché in realtà per me la fede è più un rapporto tra l’uomo e Dio che appartenenza ad una particolare comunità.
Non è questa la sede per discutere se Dio si considera rappresentato dalle persone che credono in Lui secondo scienza e coscienza ma appartengono a diverse culture, etnie, nazioni, religioni o chiese, oppure solo da quelle che appartengono ad un gruppo particolare ad esclusione di tutti gli altri.
Per quanto riguarda la vita individuale, la fede si riassume nei rapporti tra l’uomo e Dio e fra l’uomo e il suo prossimo, codificati entrambi nel Decalogo e riassunti in soli due comandamenti in Deuteronomio 6:5 e Levitico 19:18, poi citati da Gesù in Matteo 22,37-39 (a proposito di continuità tra i due Patti): «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente; Amerai il tuo prossimo come te stesso».
Pur cresciuto in famiglia e comunità di credenti, per alcuni decenni non sono stato, tranne che nei rapporti grossolani soprattutto di tipo professionale, un gran esempio di buon credente, o comunque così mi sembrava. Ora il mio corpo è devastato dal cancro ma non sto morendo, sono solo gravemente invalidato. Il cancro – parlo da medico – è stato “concimato” da me per decenni con una vita piuttosto dissoluta, con l’aggravante di esserne consapevole – quindi c’è poco da piangere ora. Invece Dio, in cui credo (e in cui ho sempre creduto), mi ha benedetto proprio ora più che mai. Sono più attivo di prima.
Libero dallo stress della vita quotidiana e dalla possibilità di usare le parti fisiche del mio corpo – a partire dal camminare o uscire di casa (proprio io, per chi mi conosce) – ora posso usare la mia mente in modo più proficuo, dedicandomi alle cose che – a parole – ho sempre ritenute prioritarie, ma di cui da sano mi occupavo solo nei ritagli di tempo.
Nel momento del bisogno non ho avuto a fianco solo il mio Dio, ma anche molte altre persone. Gamma completa di umanità, dai famigliari ai credenti vicini alle mie personali preferenze, ad “altri” credenti, agli atei e ai marxisti. Coloro che sono credenti – senza distinzioni di appartenenza – hanno pregato e pregano per me, e le loro preghiere sono fondamentali. Ma tutti mi hanno aiutato e mi aiutano, anche quelli che non credono nel Dio del Decalogo, ma osservano, per così dire, la seconda parte del Decalogo o il secondo grande comandamento che ho citato sopra.
Qualcuno è venuto apposta dall’estero per trovarmi, altri dalle regioni più remote d’Italia. Chi non poteva venire mi telefonava, uno addirittura mi mandava bellissime cartoline che mi hanno aiutato molto e che conservo tutte. Poi c’è chi ha addirittura lavorato a fianco a me per un anno intero, aiutandomi nell’attività che ora svolgo, cioè nella scrittura, chi mi ha segnalato o fornito libri, articoli, riferimenti bibliografici, reperito antiche fonti di riviste cattoliche, per non parlare dei tanti altri piccoli – ma per me grandi – regali che ho ricevuto.
Ma c’è di più. Ci sono altri che mi sono stati sempre vicini quando ero sano e mi sono vicini anche ora, lo so, ma non vengono e non telefonano, perché si sentono male e non vogliono piangere davanti a me. Poi c’è un’altra persona con la quale ho avuto per diversi anni un contenzioso, non mi salutava e non salutava i miei famigliari, ma quando mi sono ammalato non solo ha iniziato a salutare, ma è stata tra le prime a partecipare alla nostra tragedia e offrire aiuto. Così, grazie alla mia malattia, ho un nuovo amico!
Quando ero sano mi capitava spesso – per libera scelta o per dovere professionale – di visitare persone gravemente malate. In tutti quei casi ero consapevole che, o così credevo, facevo bene alle persone. Non sapevo però quanto bene e comunque sentivo che faceva ancora più bene a me. Immagino che sia così anche con i miei amici che mi stanno vicino ora. Sono sicuro che neanche si rendono conto, perché non possono, di quanto fanno per me e auguro loro di non avere mai la possibilità di capirlo. Lo capisce però benissimo Colui che è l’unico Giudice giusto e non mancherà di ricompensarli.
Il ruolo del medico – uno dei ruoli, quello “classico” – per me è riassunto nella scena dove il “medico” toglie dalla zampa di Pantera rosa un chiodo o corpo estraneo, e la pantera gli si getta al collo per baciarlo: una parabola che spiega in modo efficace come è percepito da chi ha bisogno aiuto il “piccolo” aiuto. Fin lì credo di essermela cavata bene, professionalmente. Invece ho avuto sempre un senso di disagio e inadeguatezza di fronte al paziente terminale. Il fatto che visitarlo mi sembrava più utile a me che a lui non è paradossale. A me riportava alla realtà e rafforzava la fede. Per lui – tranne i pochi veri credenti che però pensavo non avessero bisogno del mio conforto – mi sentivo inutile.
Spesso trovavo in casa di questi malati il parroco. Il fatto mi sollevava, perché supponevo che a confortarli ci avrebbe pensato lui. Don Vincenzo era un uomo di cultura e i fedeli lo consideravano un vero padre. Un giorno andai da lui e gli confessai la mia angoscia. Gli dissi come mi sentivo e che mi confortava la sua presenza vicino al malato, poi gli chiesi come si poneva lui di fronte al paziente terminale, come lo confortava e cosa gli diceva. Mi rispose: “Purtroppo non è facile neanche per noi fare molto. Per accettare la sofferenza e la morte ci vuole tanta fede. Tutti sono battezzata, ma pochi hanno fede forte. Ecco perché anche io e i miei colleghi non affrontiamo il problema, ma ci limitiamo a seguire l’orientamento dei famigliari”.
Un discorso a parte meritano i miei famigliari. Se dopo 25 anni di matrimonio mia moglie non condivide la mia fede, vorrà pure dire che non sono stato un buon esempio (o a lei così è sembrato), oppure no? Per fortuna nessuno mi ha legato al collo la famosa macina da mulino, che forse meritavo pure. Ora, data la situazione di inevitabile sofferenza per i miei famigliari – più grande della mia, perché non sanno dare un senso a questa storia – io sicuramente qualche volta li maltratto (o così a loro sembra), e allora sono diventato davvero un buon esempio? Semmai esempio di cosa può fare la fede per chi c’è l’ha, ma non certo perché io sia diventato un vero esempio.
Nel frattempo, nella battaglia contro il cancro ho perso degli amici. Altri loro malgrado sono stati “arruolati”, perché c’è, per così dire, servizio di leva obbligatoria a sorteggio, nessuno parte volontario per questa guerra. Penso a Marco, vent’anni più piccolo di me, moglie e piccolo bambino, esempio di fede più di me, è venuto – con sofferenza – persino a trovarmi a casa da 100 km di distanza, ora non c’è più. Penso al nipote di uno dei miei migliori amici, più giovane ancora, con figlio più piccolo ancora, anche lui ora non c’è più.
Lo zio invece c’è, è ateo, viene tutti i giorni a trovarmi (dal nipote andava spesso lo stesso, ma la distanza lì era di 160 km, non poteva andare tutti i giorni). Penso all’amica ventenne di mia figlia appena arruolata nella battaglia. Penso ad Alessandro, figlio di miei pazienti, morto all’età di 12 anni, che andavo a visitare al Reparto di Oncologia pediatrica del Policlinico Umberto I di Roma. Raccomanderei ad ogni persona di fede di visitare almeno una volta un simile reparto, magari per portare un regalo per Natale, non lo so.
Ora che il malato sono io, quando penso a molti di quelli che mi stanno vicino mi sento di nuovo a disaggio e inadeguato, ma nei loro confronti, non di fronte alla mia malattia. Molti di loro dicono che sono un esempio di vita e roba simile, ma loro allora cosa sono? Io almeno credo che la vita un senso c’è l’ha. Molti di loro non credono nemmeno questo. Qualche volta, di notte, quando mi sveglio e il pensiero va a loro, ai miei famigliari, ai miei amici senza fede e piango per loro. Di me non ho di cosa piangere, ho solo da ringraziare. Ringraziare il mio Dio, e tutti loro.