Alla ricerca dei motivi della «crisi», parlano compositori e direttori
di Massimo Iondini
Grandi titoli sui giornali, all’indomani della presentazione del Congresso nazionale di musica sacra di Bologna, conclusosi domenica: Mozart «cacciato» dalle chiese, le sue note bandite dai “controriformatori” della musica sacra.
Titoli anche accattivanti, ma niente più. A parte la solita deprimente superficialità di fondo: «In tutti i grandi compositori — precisa infatti monsignor Luciano Migliavacca, da anni maestro di cappella del Duomo di Milano e presidente del comitato organizzatore del Congresso di Bologna — si possono trovare degli splendidi brani pienamente inseribili in ambito liturgico: come, ad esempio, l’Ave verum di Mozart. Del quale, comunque, è legittimo supporre una non profonda concezione della liturgia eucaristica».
A “riabilitare” Mozart dunque, ci pensa proprio uno dei veterani della musica sacra contemporanea, compagno di scuderia (anche lui infatti fa parte dell’Associazione Santa Cecilia, sorta nel 1880 per riformare la musica sacra a quel tempo fortemente condizionata dalla lirica) di colui che, con le sue dichiarazioni di due settimane or sono, aveva in qualche modo innescato la miccia della presunta polemica: don Franco Baggiani, maestro di Cappella del Duomo di Pisa e direttore del segretariato di organologia della «Santa Cecilia».
«Sui giornali — chiarisce subito don Baggiani — si è avuta l’impressione di una sorta di crociata restauratrice, ma non è così. Non si può dire che la “Santa Cecilia” sia arroccata su posizioni vecchie: ma, essendo l’unica associazione di compositori e musicisti di genere sacro, vogliamo che si mantenga un certo equilibrio. La musica sacra deve entrare nella liturgia, non deve quindi essere genericamente religiosa, come quella che, invece, può ben trovare spazio in concerto o anche nei luoghi di culto, ma fuori dalla liturgia».
Rimandata cosi ai mittenti l’infondata accusa di escludere certi autori per la loro inadeguatezza — per così dire — «ideologica», don Baggiani mette però il dito in una piaga che si è aperta successivamente alle “concessioni” post-conciliari: «Dal concilio Vaticano II c’è una nuova realtà che prima non esisteva, vale a dire il canto del “popolo”. Ma, purtroppo, questo ipotetico passaggio dal canto delle corali a quello di tutta l’assemblea è stato in balia della più totale improvvisazione. Così è successo che la gente, il popolo, rimaneva in silenzio come prima e hanno via via cominciato a prendere il sopravvento strumenti e stili giovanili quasi pop».
«Ora, è da decenni che non si compone vera musica sacra perché chiunque si sente in diritto di comporre per la liturgia. Sbagliano quei vescovi che dicono: noi dobbiamo andare incontro ai giovani. Perché, se è cosi, allora noi musicisti e compositori sacri usciti dal conservatorio, accusati di fare soltanto il gregoriano e la polifonia, dovremmo abdicare al nostro ruolo e lasciarci invece trascinare dalle mode facili».
Il giornalista musicofilo Michele Straniero sembra d’accordo. Alcuni anni fa pubblicò un volume che esemplificava il cammino della musica liturgica, dal gregoriano alle chitarre, intitolato provocatoriamente Mira il tuo pop: «La tesi di fondo che mi proponevo — spiega — è che le recenti composizioni che accompagnano la celebrazione eucaristica sono oggettivamente povere rispetto a quelle del passato e rappresentano a mio giudizio il segno di una decadenza, di un progressivo immiserimento della sacralità della musica liturgica. Ma, forse, questo è piuttosto un segno del nostro tempo. Viviamo, infatti, una fase di grande degradazione formalistica ed espressiva in tutti i campi della comunicazione. Non credo, comunque, che la colpa della cattiva qualità di molta musica liturgica d’oggi sia in qualche modo da addebitare ad una mancata direttiva dall’alto».
L’attacco più duro alle schiere dei più o meno ispirati menestrelli delle Messe domenicali viene comunque dalla montagna, ma senza mazzolini di fiori. Non c’è riconciliazione per Bepi De Marzi, cinquantasettenne organista dei «Solisti veneti» nonché italico «numero uno» nella composizione di canti popolari e di montagna. Attacca duro: «Gran parte della musica liturgica sfornata in Italia negli ultimi anni da improvvisati dilettanti è semplicemente orrenda, inudibile: come orrendi sono molti testi. La musica nella liturgia deve essere creativa, non ricreativa».
«Oggi questo tipo di musica è purtroppo nelle mani di chi improvvisa un motivetto e per questo crede di essere un compositore. È necessario, invece, che chi scrive per la Chiesa, faccia letteratura profonda, sia testuale che musicale. Non si devono sentire brani in stile “sanremese”. Per porre fine, però, all’effetto campeggio” di certe Messe bisogna che si ritorni alla grande musica, che deve servire ai giovani musicisti e compositori veri affinché ritrovino la vena. Io, comunque, non sono, pessimista. Occorre recuperare i testi della tradizione come, ad esempio, i Salmi. Diceva padre Turoldo (di cui De Marzi, assieme a Ismaele Passoni, ha musicato molte composizioni liriche, ndr): “Il salmo è la poesia che Dio ha piacere di sentire”».
Insomma, pare di capire che a molta della musica che accompagna ultimamente la liturgia manchi proprio il carattere essenziale della sacertà. «La bellezza e la levità spirituale di certe partiture le renderebbe di per sé adatte alla Liturgia — chiarisce monsignor Migliavacca —, ma ad esse si devono sposare con naturalezza e grazia i testi sacri, che non necessariamente devono essere presi dal Messale. Comunque, la parola giusta l’aveva pronunciata Paolo VI: discernimento. È questa la vera qualità che ci deve ispirare nello scegliere le forme musicali per la liturgia».
E’ naturale: dopo ogni «rivoluzione» (qual è stata, nella fattispecie, quella post-conciliare) viene un periodo di sbandamento e di ricerca di nuovi equilibri. «La musica sacra nella tradizione occidentale — osserva infatti monsignor Pierangelo Sequeri, viceprefetto della Biblioteca Ambrosiana di Milano e compositore di larga fama — si è storicamente modellata sul latino della Bibbia, che è una lingua con una sua musicalità sulla quale si sono plasmate le forme compositive liturgiche. Venendo meno, dopo il Concilio, la lingua che ha governato tre quarti della stona musicale e il 90% di quella sacra, si è creato un vero e proprio squarcio».
«Ora, quel che noi compositori dobbiamo fare è cominciare a studiare il rapporto tra la lingua italiana della liturgia e la nuova struttura della frase musicale, affinché anche l’italiano diventi una lingua liturgica: Se per il latino questo processo non è avvenuto in un lampo, non può essere diverso per l’italiano. Intanto, però, noi musicisti e compositori dobbiamo cercare di contrastare l’azzeramento, in atto in questi anni, della ricchezza di forme musicali che la nostra tradizione ha acquisito nei secoli».
Credito ai musicisti veri, dunque, forgiati dallo studio e dalla pratica musicale e compositiva perché l’impero delle canzonette non finisca per alimentare l’arte vera. «È il solito discorso del nova et vetera — conferma Gian Nicola Vessia, direttore editoriale delle edizioni musicali Carrara, l’unica casa editrice italiana di musica sacra (che tra l’altro quest’anno compie 80 anni) —. Occorre equilibrio tra ciò che irrompe sulla scena e ciò che fa parte della tradizione. Per questo vogliamo dare spazio, sulla nostra rivista Celebriamo, a composizioni di giovani musicisti, dai 24 ai 35 anni di età, accanto alle quali però pubblicheremo musiche sacre del 700 e ‘800. Per non dimenticare la traccia lasciata da quei maestri. La musica, anche quella sacra, si alimenta cosi».