Attenzione al catastrofismo degli ecologisti radicali. Perché non si tratta di scienza ma di propaganda. La terra si scalda o si raffredda a seconda degli interessi di chi usa il clima per scopi politici ed economici. Ma non siamo mai stati meglio di così: inquiniamo meno e la qualità delle nostre vite è in media più alta. I meno fortunati? Si aiutano solo accelerando quello sviluppo industriale che sa rispondere bene agl’incidenti di percorso
di Marco Respinti
È dura. È dura scrivere settimana dopo settimana, numero dopo numero, che nella stragrande maggioranza dei casi le cose non stanno come ce le raccontano i giornali, come ce le propina la tivù, come ce le imbastisce il mondo della politica, purtroppo persino come ce le ammanniscono certi addetti ai lavori.
È dura farlo preservando al contempo un rispetto sacrale per la realtà delle cose e per i dati di fatto, gli unici che – continuiamo a esserne convinti – non mentono mai. Si fa infatti la brutta figura dei “soloni”, dei bastian contrari per partito preso, degli antipatici a oltranza. Eppure non abbiamo ancora perso né la voglia né la passione, e quindi, ancora una volta, sfacciati, ci riproviamo.
In questo ci è venuta confortando nel corso degli anni una bibliografia specifica, capace di fare davvero la differenza. E quindi, forti di chi per noi, meglio di noi, ha risolto brillantemente in sede scientifica molte questioni francamente a prima vista imbarazzanti, proviamo ancora una a fare i divulgatori controcorrente.
Qualche settimana fa abbiamo sfidato l’ira del mondo parlando di una certa scienza farlocca che, vuoi per interessi economici vuoi per motivi politici, spaccia per assoluti dei concetti che invece sono del tutto relativi e per verità assodate teorie che restano ipotetiche, con il grave rischio, però, di far assumere ai governi del mondo impegni gravosi ma inutili, e pure a costi umani altissimi.
Oggi proseguiamo, utilizzando un altro testo uscito negli Stati Uniti nella fortunata collana “The Politica Incorrect Guides”, edita dalla Regnery di Washington. Si tratta di The Political Incorrect Guide to Global Warming and Environmentalism di Christopher C. Horner, avvocato, Senior Fellow al Competitive Enterprise Institute di Washington, autore di expertise per il Senato statunitense e conferenziere al Parlamento Europeo.
La “guerra santa” dei verdi
Horner vi sciorina tutte le bugie che l’ambientalismo radicale ci rifila sul tema (di gran moda) del cosiddetto, e presunto, “riscaldamento globale” della Terra, quello che ci porterà diritti al disastro e all’estinzione. Il quale sarebbe peraltro tutta colpa dell’uomo e del suo sviluppo industriale, si potrebbe fermare spendendoci sopra un sacco di quattrini (dei contribuenti), almeno si potrebbe rallentare mediante però massicce intromissioni di Stati e di organismi internazionali nelle attività produttive (e talora persino nelle vita) dei cittadini.
Per lo studioso americano, l’odierna offensiva del “pensiero verde” è insomma una vera e propria jihad. Una “guerra santa” (santa?) contro tutto ciò che rima o che può essere collegato al vero umanesimo e al miglioramento complessivo delle condizioni di vita dell’uomo nel mondo: quindi – in ordine sparso e con automatismi tutti da dimostrare ma ampiamente sbandierati dal “pensiero verde” –, economia libera di mercato, globalizzazione, commercio mondiale, investimenti, progresso tecnologico, crescita industriale, e poi – ovvio – Occidente, Stati Uniti, modernizzazione, e compagnia cantante.
Vale a dire, nella sostanza, nuovi e vecchi posti di lavoro sacrificati sull’altare del “dio natura”, arretramento sostanziale sulla strada della riduzione della miseria mondiale, stop fattuale alla lotta contro la fame e le malattie più pericolose (comprese quelle che si trasformano in epidemie per decreto politico…). Per il “pensiero verde”, cioè, l’uomo e il suo sviluppo sono una minaccia maggiore addirittura di quella posta dal terrorismo internazionale.
Del resto, cadute le ideologie (pare che siano cadute…), se un senso ancora ce l’ha il dirsi “di destra” o “di sinistra”, conservatori o progressisti, questo senso sta tutto in una certa idea di uomo (in una certa idea della natura normativa di cui l’uomo è costituito), poi in una certa idea di etica, quindi in una certa idea di libertà (economica, politica, d’intrapresa), infine in un certo amore per la verità delle cose, anche e per esempio sul fronte della ricerca scientifica e della tutela dell’ambiente. È qui, infatti, che si combatte l’ultima delle battaglie.
L’ambientalismo radicale, per esempio, dice ora di combattere la guerra contro cicloni, desertificazione e inquinamento, facendosi bello agli occhi dei più (e i più molto spesso ci cascano), ma in realtà pratica la più sporca e rischiosa delle guerriglie contro lo sviluppo umano, ergo contro l’uomo tout court.
L’ultima battaglia
Magari – soprattutto nei consessi più ufficiali e paludati – non si giunge a dire esplicitamente che il genere homo è un virus, ma nella sostanza ci si accoda poco distante. Se infatti – dicono gli ambientalisti – gli sconvoglimenti del clima terrestre avvengono per colpa dello sviluppo industriale, è lo sviluppo industriale che va fermato. Ma – diciamo noi – lo sviluppo industriale è l’unico modo con cui l’uomo progredisce provando pure a risolvere i problemi che per strada gli si pongono (o di cui in piccola misura è magari davvero causa) in un mondo che certo non gli è ostile, ma nel quale deve comunque sempre adattarsi e sopravvivere.
Fermando lo sviluppo come vorrebbe il “pensiero verde”, nessuno avrebbe più la possibilità di esplorare e di sperimentare soluzioni a quei problemi che peraltro sono e restano di crescita umana complessiva, addirittura di maturazione. Non va dimenticato, del resto, che è sempre ancora tutto da dimostrare – come documenta Horner nel suo libro – che le concentrazioni dei gas responsabili dell’effetto-serra abbiano pure un effetto diretto sulla variazione delle temperature.
Oggi si sa pure bene qual è la verità vera sul famoso “buco nell’ozono”, quello che i media del mondo intero (e spesso tutti noi con loro) hanno sempre agitato come uno spauracchio, quello che negli anni Ottanta era divenuta l’annuncio della fine prossima ventura, quello che si diceva esser la prova provata della pericolosità dell’uomo sulla Terra.
Lo strato di ozono dell’atmosfera terrestre, quello che ci ripara dai raggi solari più pericolosi, è infatti dovuto semplicemente a un eccezionale raffreddamento dell’atmosfera antartica. Solo ieri, del resto, si gridava al raffreddamento globale, mentre oggi ci si straccia le vesti per l’esatto contrario. Errori di previsioni, certo, ma nessuno chiede scusa, e in troppi ci marciano. Lo spettro del “fa troppo caldo” viene oggi agitato ogni due per tre, ma i conti non tornano.
Fa infatti più caldo rispetto a quando faceva più fresco; ma fa pure più fresco di quando era più caldo. Ed è così da sempre, glaciazioni a parte, secondo un andamento naturale, e palesemente indipendente dall’azione dell’uomo proprio perché spesso rilevato rispetto a epoche in cui o l’uomo non c’era o certo non produceva ciò e quanto produce oggi.
E poi oggi fa certo più caldo qui, ma altrettanto certamente fa più fresco là. I ghiacci “eterni” si sciolgono un po’ qui, ma i poli si raffreddano molto là. Le rilevazioni tecniche, insomma, non mentono davvero mai, se le si presenta nel proprio contesto e nel proprio complesso.
Il nemico uomo
Horner rileva pure come l’ambientalismo più estremista, quello che considera l’uomo una minaccia gravissima, ritenga (alcuni suoi leader lo affermano apertamente) che nutrire un bimbo che muore di fame in qualche angolo dell’Africa o dell’Asia significhi letteralmente esacerbare il problema demografico: quel problema che, siccome per essere risolto chiede più sviluppo, secondo le prospettive neomalthusiane e un po’ razziste del “pensiero verde” non fa altro che affrettare la fine del mondo.
Per l’“eco-pensiero”, infatti – ricorda Horner –, una popolazione umana superiore ai due miliardi di persone (contro i 6 e passa di oggi) costituisce automaticamente una delle maggiori cause d’inquinamento. Insomma, è un veleno da neutralizzare.
Noi, i custodi
La logica dell’ambientalismo radicale (che fa numerosi proseliti anche al di là del ristretto recinto dell’ecologismo militante) la mette così, sostenendo che due sole sono le vie: o si è verdi, o si è avidi pirati all’assalto della natura. Invece esiste una “terza via” che – se è permesso – è l’idea dell’uomo quale principe del creato, che nomina le cose circostanti, che le regge, che le governa.
Nel mondo anglofono (dove c’è gente che ne ha fatto una disciplina di studio serio e una virtù) si chiama stewardship: l’essere “guardiani”, “custodi” di un mondo che non dipende in ultima analisi da noi, ma che l’uomo è tenuto a governare perché alle sue cure è stato affidato.
L’idea insomma che il mondo è fatto per l’uomo e non viceversa, e che dunque l’uomo se ne debba servire abbondantemente per sé e per i suoi, ma che, se non è uno sciocco, se ne serve in modo da non segare il ramo su cui siede. Insomma, ne usa ma proprio per questo non ne abusa.
È il motivo, questo, per cui si occupa del tema persino il Vaticano, come dimostra il recente simposio organizzato dal Pontificio Consiglio Giustizia e Pace. Nonostante la propaganda, del resto, gli studi sul clima mostrano che l’anello tra causa ed effetto manca proprio come quello fra uomo e scimmia su cui si regge la teoria del darwinismo. E il prezzo da pagare per una fede cieca così – alla faccia della scienza – resta sempre troppo alto.
Come troppo alto?, si dirà… Non c’è costo troppo elevato – si chioserà – quando si tratta di salvaguardare l’ambiente, il pianeta, il futuro dei nostri figli, il benessere delle generazioni a venire. E invece sì. Si debbono infatti fare lucidamente (non sentimentalmente) i conti, se serve pure quelli della serva. Conviene cioè di più inquinare un po’ oggi, ma darsi i mezzi per risolvere l’inquinamento domani attraverso uno sviluppo migliore e dunque guadagnandoci nel saldo finale, oppure fermare tutto e lasciare che la gente crepi di fame e di malattie come per esempio è accaduto quando si è sospeso arbitrariamente l’uso del DDT? Evidentemente la prima delle due cose.
Perché la vera questione è questa. È lo sviluppo della ricerca e dell’industria che aiuta a ridurre l’impatto ambientale dell’industrializzazione stessa. Un po’ perché si progredisce, un po’ perché si trovano soluzioni sempre migliori, un po’ perché ci si pone il problema.
La coscienza ambientale, l’idea di stewardship e il concetto di “responsabilità sociale” nascono proprio qui: dal porsi seriamente il problema della sostenibilità dello sviluppo, sapendo che questo non si può né si deve arrestare. È un dato di fatto che il senso di responsabilità sociale aumenti proprio con l’incremento dei mezzi tecnici che lo sviluppo mette a disposizione per onorarlo. Solo andando avanti si può cioè migliorare, ovviando pure a errori precedenti. Chi si ferma, infatti, in realtà regredisce.
Oggi, nonostante le sproporzioni e le disparità presenti nel mondo fra diversi gruppi umani, si vive meglio di prima (comunque prima), si ha la possibilità di progredire più rapidamente ed efficacemente, si può fare stare meglio chi sta peggio più celermente e fattualmente che in ogni altra epoca storica. Sul piano materiale, è insomma indubbio: viviamo la migliore delle epoche possibili.
In questo quadro, dunque, l’inquinamento non è certo – in proporzione – quello che c’era ai tempi della prima rivoluzione industriale. Le autovetture inquinano meno, molto meno che solo qualche decina di anni fa, e questo grazie ai miglioramenti tecnologici. E il nucleare è più sicuro e pulito di ieri, ma così solo là dove lo si può sperimentare e solo per chi lo vuole sperimentare. Gli altri subiscono energia più sporca e blackout
Il pericolo vero
Tutto questo porta però a una sola conclusione. Chi più inquina e più maltratta il pianeta sono quei Paesi che cercano in tutti modi di sottrarsi alle regolamentazioni mondiali su clima e industrializzazione, e questo per non uccidere la gallina dalle uovo d’oro.
I Paesi, cioè, emergenti o in parte emersi, che calpestano tutto e tutti pur di fare capolino. In luoghi così grava il retaggio di culture dove quell’umanesimo autentico che sta alla base del concetto di stewardship manca abbondantemente, spesso con l’aggravante di essere passati pure per una ideocrazia funesta qual è il marxismo applicato.
Il pericolo maggiore per l’ambiente sta lì, in culture che dell’idea di una responsabilità sociale – che è responsabilità personale e responsabilità politica – a fronte dello sviluppo industriale non sanno che farsene.