Magdi Allam
L’attentato a Dahab, nel Sinai, ha fatto riemergere la simmetria degli stereotipi, delle paranoie e dei pregiudizi presente in seno sia al terrorismo islamico globalizzato sia all’Occidente. Quasi si trattasse di robot che rispondono ad automatismi preordinati.
Dove l’enfasi riposta nel numero 11 si spiegherebbe con la similitudine alle lettere alif e lam, che in arabo concorrono a comporre la parola «Allah».
Sull’altro fronte, colpisce la reazione istintiva e immutabile — quasi si trattasse di un riflesso condizionato — di molti analisti e politici occidentali. Anche in occasione della strage di Dahab hanno reiterato la tradizionale litania. Ad esempio alla trasmissione «Matrix», andata in onda su Canale 5 il 24 aprile, il senatore diessino Nicola Latorre ha detto che il terrorismo non finirà fino a quando non si risolverà il conflitto israelo-palestinese, e che il terrorismo dimostra che la guerra in Iraq è stata una catastrofe mondiale.
Dal canto suo l’ex capo dello Stato, Francesco Cossiga, si è spinto fino a legittimare il terrorismo sostenendo che è paragonabile alla nostra resistenza contro il nazifascismo.
Ebbene si tratta, su entrambi i fronti, di posizioni ideologiche e preconcette. Perché la verità è che il terrorismo non è la conseguenza, bensì la causa dei mali che affliggono i palestinesi, gli iracheni e il resto del mondo. È il terrorismo che si frappone a una soluzione pacifica del conflitto arabo-israeliano, finendo per impedire la nascita di uno Stato palestinese pur di non riconoscere il diritto di Israele all’esistenza.
Hamas e la Jihad islamica fecero esplodere i primi kamikaze sugli autobus di Gerusalemme e Tel Aviv nell’ottobre 1993 per sabotare il nascente processo negoziale avviato dalla storica stretta di mano tra Rabin e Arafat. E oggi Hamas preferisce ridurre alla fame il popolo palestinese, pur di non accettare gli accordi con Israele sottoscritti da Arafat. Ed è la mitizzata Intifada la principale causa del tracollo economico dei palestinesi, che da un reddito pro capite di 1.850 dollari nel 1999 sono precipitati a 850 dollari.
Così come, stando a un’inchiesta del quotidiano Asharq Al Awsat del 21 aprile scorso, la gran parte dei terroristi suicidi palestinesi appartiene al ceto medio o ricco, ha un livello d’istruzione superiore o universitario, e non ha nulla a che fare con la situazione di miseria e disperazione in cui versa la maggioranza dei palestinesi.
Per quanto concerne l’Iraq, come si fa a dimenticare che il terrorismo islamico globalizzato aveva espresso il culmine della sua capacità offensiva ben prima del 20 marzo 2003? E come si fa a non comprendere che, se oggi si abbandonasse militarmente l’Iraq, lo consegneremmo a Bin Laden e a Al Zarqawi? Infine come si fa a elogiare una persona trasformata in robot della morte, che disconosce il diritto alla vita propria e altrui, immaginando che incarnerebbe le aspirazioni di oltre un miliardo di musulmani?
A me più che il terrorismo, preoccupa questo Occidente che, puntualmente di fronte alla strage, persevera nel nobilitare il terrorismo giustificandolo come reazione a delle nostre colpe, rifiutandosi di comprendere che ha invece una natura aggressiva. Che dimentica troppo rapidamente che l’Occidente stesso è diventato una roccaforte del terrorismo islamico e una fabbrica di kamikaze.
Che, pertanto, la nostra attenzione alla strage di Dahab non deve essere proporzionale al numero delle vittime italiane, ma deve avere un’identica valenza perché si tratta dello stesso nemico che potrebbe colpire anche a casa nostra, così come è già successo a Londra, Amsterdam, Madrid e New York.
Il terrorismo non è la conseguenza ma la causa dei mali del mondo arabo È sbagliato giustificare le stragi quali reazioni a nostre colpe.