di Ettore Gotti Tedeschi
Interpretare le ragioni della attuale crisi economica e valutaria significa anche proporre una spiegazione dei problemi dell’economia statunitense che ne sono origine, cercare di capire come si sta cercando di risolverli, quali sono i rischi e le opportunità per i Paesi che ne subiranno le conseguenze, a cominciare dall’Italia.
Qual è la difficoltà degli Stati Uniti oggi? L’economia di questo grande Paese ha un problema – definibile come “crisi del credito” – che va risolto al più presto e ha comportato la crisi di liquidità in corso. Si tratta di una questione che si è accentuata a causa della mancanza di validi regolatori e controlli e a ragione di inadeguati rating delle agenzie.
Per troppo tempo, cioè, si è sottovalutato il rischio del credito concesso – spesso con prodotti finanziari non facilmente gestibili – a Paesi stranieri, a imprese, ai privati (per comperare la casa o l’auto), e così via. Si è sottovalutato questo rischio perché c’era abbondanza di liquidità nel mercato a tassi esageratamente bassi, all’epoca ritenuti necessari per risolvere i problemi economici causati dalla “bolla” della cosiddetta new economy.
Questa crisi ha ridotto l’attrattività degli investimenti negli Stati Uniti e poiché le famiglie americane non producono risparmio, ma al contrario sono abituate a indebitarsi, i capitali per gli investimenti necessari sono stati cercati all’estero. Per renderli attraenti questi investimenti devono essere proposti a prezzi molto competitivi; da qui la decisione di svalutare il dollaro verso le altre valute, in primis l’euro.
Di conseguenza, l’attuale svalutazione del dollaro verso l’euro, oltre all’immissione di liquidità da parte della Federal Reserve (la banca centrale statunitense), è una scelta strategica per ricapitalizzare, di fatto, un sistema economico che aveva usato troppo e male il debito anziché il capitale di rischio.
Per poter realizzare questa ricapitalizzazione in origine erano disponibili tre opzioni: i capitali dei Fondi sovrani; il risparmio europeo; la svalutazione del dollaro. Vediamo perché si è scelta la terza opzione. I Fondi sovrani si chiamano così perché appartengono a Paesi (sovrani appunto) ricchi e liquidi, per esempio i Paesi produttori di petrolio (si pensi che solo il Medio Oriente ha disponibile più di un trilione di dollari, quasi pari ai bisogni di ricapitalizzazione dell’economia statunitense).
È però evidente che l’investimento di questi fondi, appartenendo a Stati sovrani, rischierebbe di modificare gli assetti di controllo dell’economia di un Paese. E questo spaventa tutti. Quale alternativa ai Fondi sovrani c’era disponibile il grande risparmio liquido europeo. Ma questo serve in prospettiva all’Europa stessa, quale strumento per rafforzarsi nell’economia globale e, probabilmente, per sostenere le banche europee, se entrassero in crisi anch’esse.
Terza e ultima alternativa, quella scelta, è la più tradizionale: la svalutazione valutaria. Questa manovra permette, oltre che a rendere più attraenti gli investimenti, di far crescere l’export americano e far diminuire l’importazione da Paesi esteri. Conseguentemente diminuisce il deficit commerciale e cresce l’occupazione in patria (importare significa creare lavoro nel Paese esportatore).
Per realizzare o favorire la svalutazione della valuta statunitense sono state anche utilizzate manovre indirette, quali l’uso dei tassi di interesse per la valuta europea e il prezzo dei cereali per la valuta cinese (RenMimBi). Un anno fa i tassi americani erano superiori a quelli europei di 150 punti base – obbligazioni in dollari rendevano un 1, 5 per cento in più di quelle in euro – oggi sono inferiori di 100 punti base (1 cento in meno).
Questo cambiamento di rendimento ha comportato l’acquisto di euro e la vendita di dollari, con conseguenze evidenti di indebolimento della valuta statunitense su quella europea. Per la Cina invece – che importa cereali, il cui prezzo di offerta è influenzato dagli Stati Uniti, il più grande produttore mondiale – la leva usata è stata l’inflazione, che nel Paese asiatico è sensibile al prezzo del grano e a quello del petrolio.
Per raffreddare la crescita dell’inflazione la Cina alza i tassi di interesse che raffreddano però anche la crescita economica ma rafforzano il RenMimBi verso il dollaro provocando più importazioni (di beni di lusso) e meno esportazioni. Ecco spiegato, con molta sinteticità, come Europa e Asia stanno concorrendo a sostenere la crisi americana.
Questa situazione potrebbe però rivelarsi una opportunità anche per l’Europa se si cogliesse l’occasione per forzare l’attuazione di riforme e finalmente ridurre i costi pubblici dell’inefficienza. Ciò significherebbe cancellare la burocrazia, ridurre le tasse, valorizzare il risparmio, far crescere la bassa produttività e perciò aumentare gli stipendi e il potere di acquisto.
In pratica significherebbe prepararsi a rendere attraente un Paese per gli investimenti stranieri. Si direbbe che il presidente della Banca centrale europea Jean-Claude Trichet non stia riducendo i tassi in Europa proprio per spingere a risolvere i problemi accelerando forzatamente le riforme, consapevole che le soluzioni meno popolari si prendono quando si è in difficoltà.
Una recessione è sempre un fatto grave, soprattutto nel mondo globalizzato dove, come abbiamo visto, ognuno può decidere di gestire il momento negativo anche sfavorendo altri Paesi e conseguentemente i più deboli. Ma può avere la sua “moralità”, se gestita con prospettiva strategica. Per molti anni abbiamo goduto del traino dell’economia statunitense, in quegli stessi anni abbiamo progettato l’Europa e, con l’euro, le abbiamo anche delegato le decisioni più importanti di politica economica. Ma l’Europa non funziona ancora.
Giovanni Paolo II nell’enciclica Sollicitudo rei socialis espresse il timore che all’uomo sfuggissero i meccanismi economici propri del mondo globale. L’intuizione di Papa Wojtyla potrebbe essere applicata all’attuale situazione. Introdurre correttamente i meccanismi economici “globali” potrebbe portare, in Asia, a una vera rivoluzione sociale di redistribuzione del reddito. I cinesi, vedendo ridurre le esportazioni, dovrebbero riportare la loro produzione nell’ambito domestico, sviluppando la domanda interna.
Per farlo dovrebbero migliorare il potere d’acquisto della popolazione. In pratica dovrebbero rendere tutti meno poveri. Ma anche per gli italiani si tratterebbe di una vera rivoluzione, che potrebbe condurre alla fine della mentalità statalista e assistenzialista.
Certo, oltre che più efficienti si dovrebbe essere meno spreconi e più sobri nei consumi. Ma alla fine si capirebbe che i talenti propri dell’uomo cresciuto in una cultura impregnata di valori cattolici non impiegherebbero molto a trovare i mezzi per dare nuovo slancio all’economia.
(A.C. Valdera)