Gli allegri (si fa per dire, perché in verità sono pateticamente tristi) sostenitori del melting pot di solito non vanno nemmeno al cinema, sennò saprebbero che gli Usa sono, sì, una società multietnica, ma niente affatto multiculturale. Chiunque vi si stabilisca ha una sola alternativa: diventare americano.
Può, certo, praticare la sua religione, ma è l’unica diversità che può permettersi, altrimenti va fuori dai piedi. E’, certo, normale che gli immigrati cerchino di vivere vicini, cosa che fa nascere le Chinatown e le Little Italy. Tuttavia questi quartieri non diventano ghetti (meglio: autoghettizzazioni) solo se la «cultura» è quella dello Stato, unica per tutti.
Ma la democrazia americana, purtroppo, non è quella che gli europei hanno ereditato dal giacobinismo e dalle ideologie che esso ha figliato: è nata dalla necessità, non dall’utopia. Ne sanno qualcosa i francesi, nei cui quartieri “islamici” ormai anche la polizia sconsiglia l’ingresso. Se ne devono essere accorti anche i danesi, che alle loro ultime elezioni hanno decretato il trionfo del partito che più si oppone all’immigrazione senza regole, il Danske Folkeparti di Pia Kjaersgaard.
Ai danesi, popolo civilissimo, non si possono certo dare lezioni di accoglienza e tolleranza per il «diverso». Ma anche il danese si preoccupa quando vede che gli immigrati turchi, per esempio, non hanno alcuna voglia di integrarsi: anche quelli di terza generazione vanno a cercarsi moglie in Turchia attraverso matrimoni combinati e sentono come un obbligo il chiamare i parenti di lei e di lui.
Non a caso il nostro premier, in un’intervista dello scorso anno, si è detto preoccupato perché «la formazione di enclaves culturali da parte dei nuovi arrivati non è una tappa verso l’integrazione, ma corrisponde a una scelta di arroccamento e d’incomunicabilità».
In effetti, il rischio di ritrovarsi con un Paese a «macchia di leopardo» è alto, e a poco serve, come abbiamo visto, il paragone con gli Usa. Per dirla tutta, il problema «culturale» non è costituito dagli immigrati provenienti dall’Est o dalla Cina.
Per questi, la distinzione passa solo per la normale linea che divide i delinquenti dagli onesti. Ma anche uno come Santoro ha dovuto sopportare che la sua inviata fosse presa a sputi e insulti (e solo perché donna) in una puntata del suo «Samarcanda». Insomma, c’è un problema «culturale» islamico che avrebbe potuto essere affrontato con i consueti strumenti culturali se non ci fosse di mezzo il terrorismo e la guerra in corso.
Che fare? Chiudere le moschee e i centri islamici (è la stessa cosa, anche se in troppi continuano a pensare che la moschea sia la «chiesa» dei musulmani)? Aggraverebbe le cose complicandole.
Meglio intervenire alle fonti del terrorismo, che è quanto si sta cercando di fare. Un precedente storico, se vogliamo, c’è: alla fine del XV secolo i Re Cattolici spagnoli, per far fronte a una situazione di ordine pubblico che rischiava di diventare ingovernabile, misero i loro sudditi musulmani di fronte all’alternativa secca tra il battesimo cristiano e l’espulsione.
Non era altro che la presa d’atto dell’impossibilità per una società multietnica di essere anche multiculturale (prima di scandalizzarci pensiamo che si tratta dello stesso tipo di problema che hanno gli americani e che, mutatis mutandis, non viene affrontato in modo molto diverso).
I più presero la via dei regni corsari africani, giurando vendetta. Alcuni finsero la conversione e rimasero a far da quinta colonna alla minacciata revanche maghrebina.
A stanare questi, i moriscos, pensò l’Inquisizione. Ma sono passati cinque secoli e molta acqua sotto i ponti. Tuttavia, una soluzione c’è, ed è quella americana: una «religione civile» uguale per tutti, da accettare per amore o per forza, con l’Fbi al posto dell’Inquisizione.
Ma, come si è detto, i liberals di casa nostra, quantunque si dichiarino cinefili, al cinema non ci vanno. Vanno al cineforum, che è tutt’altro.