In 10 anni le diagnosi di disforia di genere sono aumentate del 1.500 per cento. Dopo vari scandali e denunce pubbliche stop alla legge che anticipava la chirurgia
Assuntina Morresi
È stata bloccata la legge proposta nell’estate del 2018 dal governo social democratico svedese, che voleva abbassare da 18 a 15 anni l’età minima per accedere alla chirurgia per la transizione di genere senza il consenso dei genitori, e che voleva stabilire a 12 quella per poter cambiare legalmente il proprio genere.
Le polemiche erano nate subito dall’interno della comunità scientifica, innescate da un articolo del quotidiano Svenska Dagbladet dove il prof. Christopher Gilliberg, docente e psichiatra alla Gothenburg’s Sahlgrenska Academy, aveva dichiarato che il trattamento ormonale e chirurgico nei confronti dei minori con disforia di genere era un “grande esperimento” che rischiava di diventare uno dei peggiori scandali della medicina nazionale, mancando completamente di base scientifica e spesso anche di revisione etica.
Ma ad avere un ruolo determinante nell’opinione pubblica svedese è stato un programma di giornalismo investigativo della TV pubblica svedese, Uppdrag granskning, traducibile con ”Missione: indagare”. Karin Mattison e Carolina Jemsby hanno curato un’inchiesta andata in onda in due puntate, la prima il 3 aprile e la seconda il 14 dicembre 2019: “The Trans Train”, il titolo, tratto dalle parole di Anne Waehre, dell’Oslo University Hospital, specialista dei trattamenti della transizione di genere nei teenagers norvegesi: «Una volta arrivati qui, sono già nel trans train, per così dire. Una volta che inizi con il testosterone resti paziente per tutta la vita».
Anne Waehre è una dei diversi esperti chiamati a commentare quello che l’inchiesta definisce «un nuovo gruppo di pazienti», un fenomeno recente emerso in Svezia, Norvegia, Finlandia, Gran Bretagna, ma anche in tanti paesi occidentali, indicato da un acronimo, RODG, che sta per Rapid On-set Gender Dysphoria: l’aumento repentino e esponenziale di minori, soprattutto ragazze, con diagnosi di disforia di genere.
Il Consiglio Nazionale della Sanità ed il Benessere ha confermato che fra il 2008 e il 2018 la diagnosi di disforia di genere è aumentata del 1.500 per cento nella fascia di età fra i 13 e i 17 anni. Minori che vengono indirizzati verso le cosiddette terapie “gender affirming”, cioè percorsi di transizione verso il genere che si percepisce come proprio, diverso da quello della nascita.
Sono percorsi che iniziano con la somministrazione di ormoni che bloccano la pubertà, mediamente per circa tre anni, e poi continuano con gli ormoni cross-sex, per esempio testosterone per le donne che vogliono transitare al maschile, e con la chirurgia.
Le due puntate, di un’ora ciascuna, sono disponibili in rete, in lingua svedese e sottotitolate in inglese, e meritano di essere viste per intero perché aprono uno squarcio onesto su una tematica molto delicata, con un approccio interessante, post-ideologico, tipico dei paesi di cui la Svezia è pioniera, cioè quelli in cui la rivoluzione antropologica e la scristianizzazione sono andate di pari passo, spazzando via qualsiasi battaglia anche residuale sui cosiddetti valori non negoziabili.
L’inchiesta non si riferisce quindi a un quadro valoriale, non si mettono in dubbio i percorsi “gender affirming” per le transizioni di genere, né tantomeno si discute di orientamenti sessuali o famiglie arcobaleno, per intenderci: si pone piuttosto un problema di malasanità, sollevato dalla proposta governativa dell’abbassamento dell’età per l’accesso ai trattamenti di transizione.
In altre parole: essendo ormai accettato il nuovo assetto antropologico e non essendoci più nessuno che lo contesti, non c’è neppure una sua difesa ideologica, e quindi si può anche entrare nel merito di certe procedure, criticandole anche duramente. E la domanda è: siamo sicuri che ormoni e chirurgia siano indicazioni valide per rispondere a tutte queste nuove diagnosi di disforia di genere? Perché un così grande aumento di giovanissimi pazienti, negli ultimi dieci anni? E perché una così grande prevalenza di persone nate femmine?
L’inchiesta cerca di rispondere con interviste a tutto campo ai protagonisti, cioè specialisti e studiosi di settore, genitori di minori che si sono sottoposti alla transizione, e soprattutto chi la transizione l’ha affrontata, con diverse esperienze: Johanna, che voleva farla ma poi ha cambiato idea; Aleksa, che la transizione l’ha fatta diventando nota attivista dei diritti dei transgender, ma con un successivo ripensamento pubblico, e Sametti e Mika, due detransitioners, cioè due ragazze che sono “tornate indietro” rispetto al percorso iniziato, cercando di recuperare l’originale identità femminile.
Un “tornare indietro” impossibile, però, e questo è il punto: il percorso è tragicamente irreversibile. Una volta saliti sul treno della transizione non si può più scendere, e se ci si rende conto di aver fatto una scelta sbagliata, non c’è più niente da fare. La voce resta profonda, maschile, il seno non ricresce, la forma del viso è irrimediabilmente mascolinizzata, e per sempre si dovrà restare nel nuovo corpo, che non è quello che si era immaginato, e soprattutto non è la soluzione dei tanti, pesanti problemi che si pensava di poter superare trasformando con farmaci e chirurgia un corpo che si pensava sbagliato, ma che sbagliato non era.
Tutte giovanissime, con storie e atteggiamenti differenti. “Mika” è il nome fittizio di una ragazza svedese le cui dichiarazioni, sconvolgenti, sono state montate come introduzione della prima puntata. È ripresa di spalle, in una stanza buia, non vuole mostrare il volto perché ha paura delle reazioni che potrebbe suscitare nella comunità transgender, nei cui confronti ha parole molto dure, come anche verso il sistema sanitario: «Essere una cavia, questo è… Il sistema sanitario non ha la più pallida idea, non c’è nessuna scienza che lo sostenga, stanno facendo un esperimento su giovani con ancora tutta la vita davanti. Sono arrabbiata, penso sia incredibilmente irresponsabile ».
Sametti invece non ha paura a farsi riprendere e se la prende solo con sé stessa. Quando mostra alla giornalista le foto di come era prima, dice di essersi sempre vista brutta ma adesso, che è totalmente cambiata e ha perso per sempre le fattezze della bella ragazza che era, non capisce perché mai lo pensasse, e non si capacita di quel che ha fatto. Le piace ancora cantare, ma la voce di prima non torna più.
Johanna invece era ansiosa di iniziare il percorso. Uscire dall’anoressia non l’aveva resa felice, e aveva stabilito che la transizione fosse l’ultima possibilità di risolvere i suoi problemi: se non ci fosse riuscita si sarebbe uccisa, afferma con raggelante chiarezza al microfono della giornalista. Ma durante la lunga attesa ha incontrato uno psicologo: le ha suggerito che forse il desiderio della transizione era il residuo di un antico problema di accettazione del suo corpo, rimasto anche dopo la guarigione dalla anoressia. La disforia di genere come effetto, insomma, e non causa delle sue pesanti difficoltà. “Un’illuminazione”, ricorda Johanna, che di transizione non parla più.
Dei genitori dei minori non si vede il volto, ma solo le sagome, perché le riprese sono al buio. Sono timorosi, e si sentono impotenti di fronte a quel sistema sanitario che incoraggia i propri figli, così fragili e ancora minorenni, verso la transizione, anziché suggerire altre strade. Poco più che bambini, come possono rendersi conto delle conseguenze di salire su quel treno, che non prevede un biglietto di ritorno?
Gli specialisti intervistati ammettono di non dire mai di no, di non rifiutare una richiesta di transizione. E i genitori che si oppongono alla valutazione iniziale vengono segnalati ai servizi sociali, che poi possono consentire ai ragazzini di continuare senza il consenso di mamma e papà. Non è scritto così nel sito del Karolinska Institutet ma, incalzati dalle domande dei giornalisti, i professionisti ammettono che anche questo accade. Così come riconoscono, a fatica, che la valutazione a volte non dura sei mesi, come dichiarato ufficialmente, ma può anche limitarsi a poche settimane, quando il caso “è chiaro”.
La critica alla pratica sempre più diffusa del trattamento ormonale e chirurgico nei confronti dei minori con disforia di genere, che si sta facendo largo in Svezia, ha il supporto di diversi specialisti del settore. I professionisti che somministrano i trattamenti ormonali e chirurgici, intervistati, si dicono sinceramente convinti di operare per il bene dei loro assistiti in quanto, come spiegano, l’alternativa sarebbe una grande sofferenza, insopportabile, da parte di chi non riesce a vedersi nel proprio corpo.
A un dolore indicibile, cioè, si risponde con quel che c’è a disposizione: la transizione ormonale e chirurgica, che nel breve periodo sembra essere la soluzione dei problemi. Tutti però ammettono che non ci sono evidenze scientifiche sufficienti a supporto di questi percorsi.
Dai trattamenti che bloccano la pubertà agli ormoni cross sex, che dovranno essere somministrati per tutta la vita, fino alla chirurgia: nessuno sa valutarne gli effetti a tempi medio-lunghi, perché di ricerche adeguate non ce ne sono. È scritto anche nero su bianco nei documenti ufficiali della sanità svedese. Non sapeva di questa incertezza Aleksa, che adesso ha 20 anni e non rifarebbe più quel che ha fatto, e per averlo detto pubblicamente è stata cacciata da gruppi social di attivisti transgender.
A esprimere dubbi e perplessità su procedure così rapide, modifiche radicali e irreversibili in così giovane età, sono anche coloro che la transizione l’hanno fatta vent’anni fa, quando erano in pochi e il percorso era meno scontato, come Mikael Bjerkelly e Tone Maria Hansen del Harry Benjamine Resource Center, a Oslo. Gli esperti intervistati snocciolano dati: il nuovo gruppo di pazienti Rodg (Rapid On-set Gender Disphorya, minori che improvvisamente vogliono transitare al genere opposto a quello di nascita, un numero in continuo aumento e talmente elevato negli ultimi dieci anni che c’è chi parla di “epidemia”) è per l’85% nato donna, per il 90% ha una qualche diagnosi psichiatrica, il 45% è autolesionista, il 20% ha diagnosi di autismo, il 35% ha sintomi tali da richiedere una ulteriore valutazione.
Secondo il governo svedese il 40% dei giovani transgender ha tentato il suicidio nell’attesa di essere valutato per la transizione, ed è per evitare queste morti che Asa Lindhagen, del Partito dei Verdi, Ministra per l’Eguaglianza di Genere, ha sostenuto una legge per abbassare a 15 anni l’età minima per l’accesso alla transizione senza il consenso dei propri genitori, e a 12 quella per richiedere il cambio legale di genere.
Ma è stata proprio l’indagine giornalistica “The Trans Train” a scoprire che quel 40% non ha alcuna base scientifica, si tratta di un numero inventato: imbarazzanti le interviste ai referenti del rapporto governativo, che non sono stati in grado di indicare le fonti del dato che principalmente giustificava la proposta di legge. Secondo Michael Biggs, professore di sociologia ad Oxford, dopo un anno di trattamento i ragazzi peggiorano, aumentano autolesionismo e rischio di suicidio.
Molti specialisti dichiarano di vivere uno “stress etico”, nel somministrare questi trattamenti. C’è chi prosegue nell’avviare i ragazzi a questi percorsi di transizione, pur con mille dubbi, e chi invece rinuncia del tutto, ma non è facile porre domande: Anne Waehre ha cercato di farlo con una lettera pubblica al Ministro della Sanità norvegese, chiedendo chi sarà responsabile delle “ragazze barbute della nazione”, e per questo è stata accusata di transfobia.
Già: di chi la responsabilità delle diagnosi sbagliate? È la domanda che ricorre nel corso dell’inchiesta, a cui Rydelius Per-Anders, specialista del Karolinska, risponde «È una responsabilità condivisa» fra i medici che valutano e coloro che prestano il proprio consenso. Ma quale consapevolezza può esserci nel consenso di un quindicenne, per di più immerso in tanti problemi personali?
Sono molte le domande senza risposte. Innanzitutto sul fenomeno dei detransitioners: quanti sono? Chi sono? Voleva studiare questo nuovo fenomeno James Caspian, psicoperapeuta britannico paladino dei diritti dei transgender, e fiduciario dell’associazione di beneficienza transgender The Beaumont Trust; la sua università, però, la Bath Spa University, non gli ha permesso di condurre la ricerca, ufficialmente non per l’argomento ma per il metodo scientifico.
Secondo quanto riportato dalle giornaliste di “The Trans Train”, nella lettera di rigetto della ricerca l’università afferma che il progetto è eticamente complesso e che i rischi sono troppo grandi per l’università e per il ricercatore stesso. Ma perché dovrebbe essere pericoloso studiare ragazzi che si pentono del percorso di transizione? Caspian si è rivolto a tribunali inglesi, perdendo le cause, e adesso ha annunciato di volersi rivolgere alla Corte Europea dei Diritti Umani.
Perché soprattutto ragazze che rifiutano il proprio corpo? Perché quest’aumento improvviso? Ha provato a rispondere Mikael Landén, del Dipartimento di Psichiatria e Neurochimica dell’Università di Gothenburg, che in un suo interessante articolo sulla rivista medica Läkartidningen parla di «un’infezione psicologica legata alla cultura.
Se le persone nella loro prima adolescenza sono incoraggiate a pensare alla loro identità di genere e viene insegnato che la disforia di genere è una variante normale, non è improbabile che alcuni giovani indirizzeranno la loro ricerca di identità verso l’identità di genere. Tale ricerca può diffondersi rapidamente nei social network, come descritto per una serie di altri fenomeni come bulimia, suicidio (aumenta quando personaggi famosi o qualcuno che conosci si è tolto la vita), fumo obesità e altro.
L’aumento dell’uso dei social media coincide nel tempo con l’aumento della disforia di genere». E sottolineando ancora una volta la scarsità delle conoscenze a proposito, suggerisce che «affinché le attività odierne di correzione di genere non siano viste in futuro nello stesso modo in cui vediamo oggi il trattamento dell’omosessualità, è preferibile un atteggiamento medico nei confronti degli adolescenti con disforia di genere, piuttosto che vederlo come una questione di diritto per gli adolescenti di cambiare il proprio corpo chirurgicamente».
Nel frattempo il governo svedese ha accantonando il progetto di legge e, su proposta del Consiglio nazionale di etica medica, si è rivolto a tre agenzie governative, l’Agenzia nazionale svedese per la valutazione medica e sociale (Sbu), l’Agenzia svedese per i prodotti medicinali e il Consiglio Nazionale della Sanità ed il Benessere, chiedendo approfondimenti in merito per le rispettive competenze.
Quest’ultimo sta rivedendo le linee guida per i trattamenti di bambini e adolescenti con disforia di genere, che saranno diffuse per una consultazione pubblica nel 2021 e concluse nel 2022. Intanto si stanno organizzando gruppi di genitori, preoccupati per i propri figli che stanno attraversando la disforia di genere, come quello per i genitori di ragazzi Rodg, in lingua inglese e tedesca, o dei finandesi di KirJo di cui fanno parte anche detransitioners.
E nell’estate del 2019 si è registrata una diminuzione del 65% dei rinvii alle cliniche per la disforia di genere in Svezia, secondo Louise Frisén, professore associato di Psichiatria del bambino e dell’adolescente alla clinica Kid, per l’incongruenza di genere e la disforia di genere, a Stoccolma.
I dati sono stati presentati ad un seminario nel Consiglio Svedese di Etica Medica lo scorso febbraio 2020. Una novità che potrebbe essere il primo risultato della discussione pubblica in corso, a cui la proiezione dell’inchiesta “The Trans Train” sembra aver dato un contributo importante.