Ascoltando una lirica di Clemente Rebora a 120 anni dalla nascita
don Maurizio Ceriani
Chiede in una lirica di questi suoi ultimi anni di patimento fisico e spirituale: “Signore, dammi il tuo Natale / di fuoco interno nell’umano gelo”. È una richiesta di grazia, di luce, di calda pace, e insieme di sacrificio e d’immolazione, in perfetta sintonia col voto segreto che egli fece nel 1936, nel momento della sua ordinazione sacerdotale, quando chiese a Dio di “patire e morire oscuramente, scomparendo polverizzato nell’amore divino”.
In mezzo ci sta l’esperienza traumatica della prima guerra mondiale, che lo vide ufficiale di fanteria sugli altopiani di Asiago e Gorizia, ferito in battaglia e gettato in uno stato di terribile prostrazione psichica e spirituale, fino all’approdo alla fede, alla vita religiosa e al sacerdozio.
Considerato tra i maggiori poeti italiani del Novecento, Rebora non è confinabile nell’ambito della poesia di matrice religiosa, ma appare come un autentico “cantore” della contemporaneità, capace di interrogare il mondo e di gettare un ponte tra visibile e invisibile. La sua vita testimonia la drammatica inquietudine della prima metà del XX secolo, non ancora sopita ai nostri giorni, dove il senso di potenza del Superuomo cozza contro l’esperienza del dolore e del dissolvimento. Un’inquietudine che sembra potersi acquietare soltanto sul fieno della mangiatoia di Betlemme.
Il giovane razionalista che rifiutava per Natale gli “auguretti di occasione”, scriverà nel suo ultimo Natale, quello del 1956, dal letto d’infermità sul quale era costretto: “Gesù il Fedele / il solo punto fermo nel moto dei tempi, in sterminata serie di eventi”. Il punto fermo di tutto il Mondo, capace di sollevarlo dalle sue miserie e dalle sue angosce, sta proprio là, nella grotta di Betlemme, dove quel Bambino appare come il solo fedele.
Nell’antico canto latino delle Profezie oppure nelle più recenti traduzioni in lingua corrente, la Novena di Natale educa le generazioni cristiane, una dopo l’altra, alla fiduciosa attesa di Colui che “non può tardare”: Gesù il fedele. Nel sole mattutino che sorge da Oriente, la tradizione cristiana ha visto, da sempre, il più semplice ed efficace segno della potenza, della misericordia e della vivificante presenza del “Dio con noi”, fedele alle sue promesse sopra e oltre il moto dei tempi e la sterminata serie degli eventi, compresi quelli tragici, segnati dall’odio e dalla morte.
Comprendiamo allora il richiamo forte di Papa Benedetto alla sobrietà del Natale, al segno del Presepio, vero grande antidoto al “Natale di maniera” e ai suoi “inchinevoli auguretti”, pieni di nulla o, peggio, del vuoto dei nostri cuori inquieti. Il Papa quasi ci scongiura di recuperare “l’autentico spirito del Natale, caratterizzato dal raccoglimento, dalla sobrietà, da una gioia non esteriore ma intima”, quel “fuoco interno nell’umano gelo”, direbbe Clemente Rebora, capace di sciogliere anche i cuori più induriti, dalla morsa del freddo paralizzante dell’indifferenza e della sciocchezza.
Questo è il “suo Natale”, da invocare in dono con la preghiera semplice e sofferta del credente, sia pur tra le contraddizioni e i drammi dell’epoca in cui si trova a vivere, sorretto dalla speranza che “Gesù è il fedele”.
Col grande poeta Clemente Rebora e con la sua drammaticamente ricca vicenda umana, possiamo farci un vero augurio natalizio, non “scarabocchio d’occasione”, che l’incontro determinante con l’unico vero Significato della vita, prima solo intuito, poi desiderato, a volte travagliato, a tratti lacerato, in qualche occasione addirittura rifiutato, sia infine semplicemente accolto.