Due compagni di giochi, uno diventa prete e poi santo, l’altro si macchia di orrendi crimini nella guerra civile spagnola. La pellicola firmata da Roland Joffe racconta il carisma del fondatore dell’Opus Dei attraverso la sua giovinezza
di Pippo Corigliano
Ci sono dei film che ti rendono migliore. Questo è il caso di There be dragons il film del regista Joffé, che ha firmato anche Mission. La storia racconta di due amici: il piccolo Josemaría Escrivá e un suo compagno di giochi, Manolo. Dopo gli anni della fanciullezza la vita li separa e, mentre Josemaría sceglie la strada del sacerdozio, il giovane Manolo intraprende quella dell’egoismo e della vendetta che lo conduce a compiere crimini orribili nel quadro della guerra civile spagnola. Alla fine della vita arrivano per Manolo il pentimento e il perdono, grazie anche all’affetto di Josemaría che non smette di scrivergli e seguirlo con la preghiera.
Parallelamente l’itinerario della vita di Josemaría percorre l’ordinazione sacerdotale, la visione della chiamata alla santità attraverso il lavoro quotidiano e la formazione dei primi membri dell’Opus Dei in quei difficili anni. Al termine della pellicola si rimane convinti che il perdono è la vera arma del cristiano.
There be Dragons è un film tosto con un messaggio forte. La sensibilità del regista è stata tale che chi ha conosciuto personalmente San Josemaría (proclamato santo nel 2002) non soffre nel veder raffigurata con un altro volto la persona conosciuta; piuttosto si compiace nel ritrovare il clima di famiglia che don Josemaría creò con i primi giovani che lo seguirono.
Ho conosciuto il fondatore dell’Opus Dei cinquant’anni fa e ho avuto l’opportunità di stare con lui in tante occasioni, tutte significative, direi impressionanti. L’esperienza di questo rapporto, ha portato in me cambiamenti di prospettiva di 180 gradi. Potrei raccontare tanti momenti commoventi vissuti accanto a lui. Dopo quegli incontri avevamo le lacrime agli occhi, non solo per la fede contagiosa ma anche per l’umorismo e l’allegria traboccanti.
Quando l’ho conosciuto ero appena uscito dal liceo. Pensavo che la fede fosse il frutto di un’elaborazione intellettuale e che per portare le persone a Dio occorresse “addottrinarle”. San Josemaría era una persona che sapeva voler bene e mi fece capire che l’amore di Dio si percepisce attraverso l’amicizia.
C’è una sua frase che mi è rimasta impressa: “Ci sono cuori che sembrano di bronzo ma che si sciolgono in lacrime al calore dell’amore di Cristo”. Ciò che conta è il nostro amore per Gesù che si riversa nella capacità di affetto verso gli altri. C’è un unico calore che la grazia di Dio suscita in noi e ci rende cordiali ed efficaci nei confronti degli altri. Un giorno don Josemaría chiese ad una suora malata: “Come stai?”. La suora rispose: “le mie consorelle mi trattano con carità, mia madre mi trattava con affetto”. Il Signore gli faceva capire che l’amore vero è quello che si traduce in particolari concreti, in “fatti” affettuosi che rendono amabile la vita agli altri. In sintesi direi che da San Josemaría ho imparato a voler bene, una scienza in cui non si sa mai abbastanza.
San Josemaría faceva notare che Gesù definisce il “distintivo” del cristiano, che non consiste nella castità o nella cultura o altre qualità tutte encomiabili. “Da questo vi riconosceranno che siete miei discepoli: che vi amiate a vicenda come io vi ho amato” dice Gesù nel Vangelo di San Giovanni. A San Josemaría piacevano tanto queste parole che ne fece fare un cartello per la sala di studio della prima residenza universitaria.
Quando il sacerdote tornò a Madrid dopo la fine della guerra trovò la residenza universitaria distrutta. Solo quel cartello era rimasto intatto. Un piccolo segno della Provvidenza a favore di quell’amore che primeggia su tutto. In sintesi: l’unione con Dio è una priorità assoluta, da cui scaturisce il rapporto d’amicizia con gli altri.
La santificazione del lavoro era una conseguenza di questo rapporto intenso con Dio. Il Dio creatore aveva affidato il paradiso terrestre alla cura di Adamo, quasi a continuare la creazione. Il Dio fatto uomo aveva lavorato e traeva le immagini della sua predicazione dall’esperienza della vita quotidiana: le barche e le reti, il pastore e le pecore, la vecchia che perde la moneta, il giudice iniquo che cede alle insistenze, il mercante di perle e così via. Tutto nella vita nostra può essere trasformato in oro come il re Mida: l’oro del lavoro fatto con amore.
Per me che sono napoletano l’impegno nel lavoro viene espresso col verbo faticare che non risulta attraente in prima istanza. Ma quando il lavoro ben fatto diventa espressione dell’amore di Dio le cose mutano. C’entra di mezzo il cuore, “‘o core”, e la prospettiva cambia. Si lavora con gioia migliorando se stessi, contagiando la serenità e la fede ai colleghi di lavoro. L’unico valore che oggi non viene messo in discussione è quello della professionalità. Ma la professionalità viene spesso intesa non come espressione di amore ma del desiderio di affermare se stessi e dimostrare con i soldi e il successo di far parte di una classe eletta.
In altre parole il calvinismo angoscioso si è introdotto nel nostro stile di vita, portandovi durezza e frustrazioni. La professionalità di Escrivá è invece gioiosa e comunicativa. Si lavora per portare gli altri a un livello superiore da cui a loro volta ripartiranno, con solidarietà e collaborazione. Si lavora per rendere il mondo più bello e più umano, non per tenere alto l’indice del profitto. Il cristiano laico ha molto da imparare da questa prospettiva.
Le faccende quotidiane non sono più una distrazione dalla quiete della preghiera ma sono l’occasione per seguire le tracce di Gesù. Nella vita di lavoro, come in quella familiare e di relazione, si ripetono le circostanze della vita del Maestro. Ci sono gli evviva e i crucifige, ci sono le amicizie e i tradimenti, ci sono i riconoscimenti e le derisioni fino alla sofferenza e la morte. Il cristiano, insegnava, è felice di vivere e felice di morire e ha sempre nel cuore quell’Amore che canta. Se non ci fosse quel necessario rapporto personale con Dio tutto crollerebbe.
In San Josemaría era viva quella distinzione tanto chiara nell’insegnamento di Gesù: “Il mio regno non è di questo mondo”. Il regno di Dio, la Sua signoria, sono dentro il nostro cuore, non costituiscono un potere terreno. Gesù rifiuta di esser fatto re: il suo regno è dentro. Il laico, osservava S. Josemaría, ha questo compito affascinante: vivere intensamente la vocazione cristiana interpretandola al meglio nella sua situazione, che è una situazione di libertà.
La Chiesa non è un partito, un gruppo, una squadra, un’azienda. Il regno dei cieli è un lievito che fermenta tutto. Il laico cristiano illuminerà e riscalderà il suo ambiente col suo amore e il suo impegno ma non pretenderà in nome del cristianesimo che gli altri condividano le sue scelte opinabili. “Siamo d’accordo nel non essere d’accordo” come nelle buone famiglie in cui ci si vuole bene anche se un figlio è di destra e un altro è di sinistra. Amore di Dio, affetto per gli altri, fedeltà agli amori, lavoro ben fatto, libertà: ecco alcune prospettive che San Josemaría ha fatto fiorire nel mio cuore e nel cuore di tante persone disperdendo i dragons dell’odio e dell’egoismo.