da Il Corriere del Sud anno XXVII 20 ottobre 2018
Rileggiamo con gli occhi e con le parole del contemporaneo Joseph de Maistre fatti e misfatti del “glorioso corso” 1789-1814
di Mauro Rotellini
Il 9 novembre cadono i 219 anni dal colpo di Stato col quale Napoleone Bonaparte venne nominato Primo Console in Francia. Si può dire che chiuda la Rivoluzione Francese, sebbene alcuni sostengono concluda solo la prima fase della Rivoluzione del 1789, che poi terminerà nel 1815 con la sconfitta di Waterloo e la “Restaurazione”. Altri dicono che si chiude la prima fase di una Rivoluzione che ancora corre in Europa…
Come affermato dallo storico francese François Furet (1927-1997), «l’Ancien Régime ha una fine ma non un principio, la Rivoluzione ha un principio ma non ha una fine […]. “Datarla” non è facile, nemmeno nel breve periodo: […] (lo storico – nda) può racchiuderla nel 1789 […] oppure estenderla fino all’esecuzione di Robespierre nel 1794, o […] può spingersi fino al 18 brumaio 1799, o ancora può integrare l’avventura napoleonica. Personalmente, io accarezzo l’idea di una storia della Rivoluzione infinitamente più lunga […] e di cui non si veda la conclusione prima della fine del XIX secolo o dell’inizio del XX» (Critica della Rivoluzione francese, Laterza 1999, p. 8).
Quel 18 brumaio si trattava – ovviamente – di salvare la Repubblica. Bonaparte – organizzatore di tutto – non si fa pregare; dice che aveva lasciato la Francia in pace mentre vi ritrova la guerra: «Vi avevo lasciato delle conquiste, e il nemico varca le nostre frontiere! […] Ho lasciato i milioni presi all’Italia e vi trovo dovunque leggi predatrici e miseria!». Ma l’indomani il Collegio dei Cinquecento gli è ostile. Il Consiglio degli Anziani non è più risoluto. Il fratello di Bonaparte, Luciano, presidente dei Cinquecento, non sa come prendere tempo e rinvia il più possibile il voto che si preannuncia contrario al fratello, che rischia l’arresto e chissà cosa altro. Bonaparte si presenta di fronte ai Cinquecento per convincerli. È interrotto più volte. È contestato. È sommerso dai clamori. I consiglieri gridano: «Fuorilegge!». La situazione è sempre più pericolosa. Murat salva la situazione. Lancia i granatieri nella sala dei Cinquecento con l’ordine di sgomberarla. I soldati, convinti che i Cinquecento abbiano tentato di uccidere il loro generale, non se lo fanno ripetere due volte. La sala vuota segna la fine della Repubblica.
E tuttavia Parigi è rimasta indifferente. I sobborghi (faubourg) non si sono mossi. Il 19 brumaio è solo un’altra giornata, movimentata ma nulla più, «nessuno sa che Bonaparte – commenta Furet – è Napoleone» (La Rivoluzione francese, Laterza 2003, p. 638).
Non è la prima volta nella storia un periodo turbolento si chiude con “un uomo solo al comando”. Silla, l’avvento di Ottaviano, tutto il principato militare dell’Impero Romano, l’esperienza dei Comuni nel Medio Evo, la guerra civile inglese e Cromwell, lo stesso Re Sole preceduto dalla Fronda… Sempre si ha un esito simile quando eserciti dipendono da generali che possono servirsene per i propri scopi e contro lo Stato, laddove la classe politica si palesi incapace di governare saggiamente. E così fu anche in Francia.
Uno storico specializzato dell’Illuminismo come il britannico Jonathan Israel ha definito tale corrente ideologica, filosofica e politica «incontrovertibilmente l’unica “grande” causa della Rivoluzione Francese» (La Rivoluzione Francese, Einaudi 2015, p. 790).
L’azione dell’Illuminismo radicale iniziò molto tempo prima i “fatti del 1789”. Per lo meno alla fine del regno di Re Luigi XIV di Borbone (1638-1715), quando la monarchia francese iniziò ad apparire a molti come un qualcosa di opprimente, dalla quale fuggire. Fu nel Settecento, quindi, annota acutamente Pierre Gaxotte (1895-1982), che «alla letteratura disimpegnata subentra quella di lotta, ambiziosa ed aggressiva» (La Rivoluzione Francese, Mondadori 2009, p. 73). Questa ha subito successo nell’alta nobiltà ed anche fra la “nobiltà di toga”, cioè quella costituita di sudditi emancipati a nobili solo perché incaricati al servizio dello Stato.
Che spesso tradirono, appunto, come quando il funzionario del Re Guillaume de Malesherbes (1721-1794), incaricato di effettuare il sequestro degli originali della Encyclopédie, avvertì Diderot che il giorno dopo avrebbe proceduto, invitando lo stesso a trasportare gli originali a casa sua, di Malesherbes stesso… E non fu il solo caso in cui i “servitori” del Re fecero combutta con i suoi nemici. Il nuovo partito “filosofico” che anche questi ultimi ingrossarono, svolse opera di propaganda in tutta la Francia, contando sulle società segrete nate ovunque e «tutte collegate fra loro da una corrispondenza incessante e da uno scambio regolare di notizie e opuscoli» (P. Gaxotte, La Rivoluzione Francese, op. cit., p. 113).
L’origine della Rivoluzione, sostenne lo scrittore, critico letterario e poeta francese Jean-François de La Harpe (1739-1803), si deve rinvenire così nei falsi filosofi sofisti e, fra questi, «i peggiori erano […] Diderot, Raynal, Rousseau, Voltaire e Helvetius» (J. Israel, La Rivoluzione Francese, op. cit., p. 22). Strumento della loro opposizione alla monarchia furono i Parlamenti che, a quel tempo, erano Corti di giustizia, Tribunali, Fori. Numerosissimi in tutta la Francia, con competenze diversificate e stratificate, gelosissimi delle proprie prerogative, da sempre avevano svolto una funzione non tanto di controllo, quanto di ostacolo alle azioni della Corona.
Essi potevano rifiutarsi di registrare gli editti del Re, impedendone l’applicazione nel territorio di competenza ed in particolare in materia di istituzione di nuove imposte (rese necessarie dalla precaria situazione finanziaria). I parlamenti francesi potevano poi inalberare il vessillo degli Stati Generali, gli unici in grado di autorizzare nuove imposizioni. La rivolta parlamentare, da Parigi, coinvolse rapidamente «tutte le città del Regno incanalando e centralizzando il pensiero antiassolutistico» (F. Furet-D. Richet, La Rivoluzione francese, op. cit., p. 54).
I Tribunali guidano la rivolta contro l’autorità regia e gli ordini privilegiati (nobiltà e clero) ne costituiscono la punta di diamante. Gli ultimi tentativi regi di riprendere il controllo della situazione sortirono solamente l’effetto di «unire contro la Corona i privilegiati – la nobiltà ed i parlementaires – ed il Terzo Stato» (J. Israel, La Rivoluzione Francese, op. cit., p. 36). La rivoluzione nei teatri a Parigi e della stampa nelle provincie, furono i detonatori di questa situazione. Il supporto che personaggi di primo piano della rivoluzione come Danton e Mirabeau dettero ai messaggi rivoluzionari veicolati al popolo dai teatranti repubblicani segnò la vittoria di questi ultimi.
Dalla “libertà di stampa” derivò poi una vera e propria proliferazione di giornali sovversivi. Nel solo 1791, documentano Furet e Richet, «ne sono stati catalogati centocinquanta, ma si tratta di un elenco incompleto […]. Alla stessa stregua dei club, la stampa fu per la borghesia rivoluzionaria, una grande scuola di tirocinio politico» (La Rivoluzione francese, op. cit., pp. 123-125).
E siamo al 1789. Gli Stati Generali sono convocati. Inizia la fine. Dieci anni di turbolenze, di guerre, di Costituzioni e la tragica esperienza del Terrore sfiancano i francesi. Bonaparte promette tranquillità all’interno e pace all’esterno, o – se pace non potrà essere per colpa delle potenze europee – guerra lontana dai confini dell’Hexagone. È l’ideale, completamente diverso dalla realtà…
In conclusione, riprendendo quanto ci ha insegnato Cicerone (historia magistra vitae, dal lat.: la storia [è] maestra di vita), ognuno può vedere e valutare come la giustizia (i Parlamenti), l’organizzazione politica (clubs e partiti), la cultura (i teatri) e quelli che oggi si chiamano mass media (i giornali), agirono sobillando gli animi per volgerli a servire la Rivoluzione francese. Anche oggi, in verità, stiamo correndo pericoli analoghi. Per parte nostra, stiamo con Joseph de Maistre che, al tempo degli Immortali Principi dell’89, scrisse: «Nella rivoluzione francese, è tutto miracolosamente negativo». Fatti i dovuti distinguo, anche oggi si dovrebbe dire qualcosa di simile…